1.4. Forme di donna. Introduzione alla fotografia di Carla Cerati

di

     
Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →

C’è una costante che calcola il peso specifico dell’atto creativo per Carla Cerati ed è come un bisogno di dire e di dirsi, un impulso alla narrazione, che ha molto spesso a che fare con il corpo delle donne: il suo, raccontato quasi solo a parole, e quello delle altre, impressionato in immagine.

Il corpo femminile designa da subito un orizzonte di ricerca per la vocazione artistica di Cerati: bergamasca d’origine, milanese d’adozione, ha circa vent’anni quando progetta di iscriversi alla facoltà di scultura di Brera. Si esercita praticando ritratti in bassorilievo e forme di nudo, usando spesso sé stessa come modella. Passa con successo l’esame di ammissione all’Accademia, ma la famiglia, contrariata, la costringe ad abbandonare la velleità artistica e a sposarsi, ancora giovanissima.

La sua è una vita matrimoniale sofferta, infelice e opprimente, che la costringe a un silenzio espressivo, lungo un decennio. Ma il destino dell’arte non rimane a lungo latente e, prima con la fotografia, dopo con la scrittura, Cerati risarcisce la sua necessità creativa.

La macchina fotografica sostituisce la creta. Sono gli anni Sessanta, quando Carla Cerati fotografa lo spettacolo Niente per amore messo in scena da Franco Enriquez a Milano e intraprende la carriera da professionista. Esordisce come fotografa di scena e parallelamente si afferma come fotoreporter indipendente. Teatro e cronaca, pur nella loro specificità, localizzano uno spazio di lavoro comune per la fotografia di Cerati, che si configura come uno strumento non di documentazione ma di elaborazione del presente: grazie all’obiettivo, Cerati guarda ai materiali senza lasciarli semplicemente accadere, senza accontentarsi della prima visione, ma cercando nelle immagini significati non immediati, da sovrascrivere, elaborare.

«L’intensamente voluto e l’apparentemente casuale» (Cerati, 1991, p. 102): tutto reagisce inaspettatamente alla chimica invasiva dell’esperimento fotografico, che Cerati intromette nelle sostanze viventi dei teatri, del suo studio, delle strade della protesta. Il suo punto di vista, in fase di ripresa, di postproduzione o di edizione aggiunge significati, cambia il senso delle cose, postula equivoci e confondele interpretazioni: in questo modo una fotografia di cronaca può trasformarsi in una scena teatrale (Cerati, 1991, p. 14), e viceversa. Un idraulico può essere scambiato per attore, la piazza per la scena, il ritratto per un allestimento. Quello che conta, per Carla Cerati, è l’ambizione di insinuare significati altri, sovvertire la continuità dell’interpretazione, dire il presente, altrimenti.

Come la scrittura riconquista i materiali del passato, ormai immodificabili, riabilitandoli nella loro autenticità e nella loro sofferenza, rimossa, la fotografia scova e si impunta sulla tensione del presente, elasticizzando il suo spettro significante, sottoponendo all’esame della lente il corpo dei dettagli e dei gesti per permettere loro di parlare.

In entrambi i casi, come si diceva all’inizio, si tratta di un impulso ossessivo alla narrazione, che vuole operare sulla possibilità di agire il presente con la fotografia e re-agire il passato, con la scrittura (Mussini, 2007). In questa missione poetica, più o meno esplicita, Cerati interagisce privilegiatamente con il femminile. Una donna da dire e raccontare, nel caso di sé, che vuole ritrattare il passato, già deciso. Una donna da fotografare e interrogare, nel caso di un’altra, di cui si vuole esplorare la potenza, inedita, al presente (e su cui forse si proietta il sé che non è stato ma che avrebbe potuto essere).

Dei molti corpi di donna che si avvicendano nel trentennale archivio fotografico di Cerati (1960-1990 circa), si vogliono introdurre qui tre forme: il corpo scenico, quello di Judith Malina e del Living Theatre; il corpo manicomiale e patologico, quello della celebre serie Morire di classe; il corpo nudo, nelle sue forme lineari o imperfette, tematizzato nella serie Forma di donna.

Malina è il corpo da elaborare. Cerati fotografa l’Antigone del Living Theatre, al Teatro Durini di Milano, nel 1967, le parole sono quelle ‘epiche’ di Brecht, le azioni sono quelle ‘crudeli’ di Artaud. Torna sulle foto dell’Antigone nel 1972 e nel 1983, le elabora; lavora su otto fotografie dell’epilogo, della scena finale, quando gli attori arretrano, minacciati, colpiti dagli applausi. Cerati si concentra sui volti e sulle mani, ritaglia, vira, ingrandisce, «ingrandimenti sgranati che paiono sindoni di anime torturate» (Lucas, 2007, p. 5). Vuole diagnosticare la perfezione del gesto, cogliere l’essenza di Antigone, del suo pianto resiliente, del suo urlo fotografato e del suo gesto aumentato, ripetuto e dissidente [figg. 1-2].

Il corpo manicomiale è il corpo da rivelare, mostrare, esporre. Nella genesi di Morire di classe (1969) convergono la battaglia politica di Franco Basaglia per la chiusura dei manicomi e la curiosità di Carla Cerati per la fotografia di un mondo inedito. Insieme a Gianni Berengo Gardin, Cerati costruisce un manifesto di denuncia, valicando un confine interdetto fino ad allora al gesto fotografico. Fotografare ‘malgrado tutto’, commettere una violenza sul corpo inconsapevole, per sensibilizzare l’ordine scientifico e l’opinione pubblica alla causa anti-manicomiale: tra etica e persuasione, si gioca la partita fotografica di un corpo da usare come agente, produttivo e informativo [figg. 3-4].

Il nudo è il corpo da risemantizzare. La serie delle 34 fotografie, scattate tra il 1973-74 e pubblicate nel volume Forma di donna nel 1978, sfida da antagonista la tradizione del nudo fotografico. Da sempre soggetto a una forma di ambiguità, il genere può strumentalizzare il corpo femminile, esponendolo a un giudizio di tipo voyeuristico quando non pornografico [figg. 5-6]. Per scongiurare la deriva oggettivante del consumo, Cerati punta sull’astrazione del corpo, volendo sondare con la mediazione del fotografico la possibilità della «perfezione come punto massimo di non-corporeità» (Cerati, 1978).

Corpo teatrale, quello di Malina, da elaborare nella molteplicità dei gesti, forieri di significati; corpo malato, quello delle internate, da incontrare con il tocco della delicatezza ma far agire con la forza della denuncia; corpo nudo, infine, quello della donna, da astrarre dalla sua implicazione fisica-erotica e soggettivare nel suo diritto di esprimersi, altrimenti.

Corpi diversi, per una fotografia, quella di Cerati, che elabora il presente, nei suoi esiti più insoliti, applicando ai corpi e alle cose un punto di vista in grado di parlare al suo tempo e anche un po’ al nostro.

 

 

Bibliografia

F. Basaglia, Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, Torino, Einaudi, 1969.

C. Cerati, Forma di donna, Milano, Mazzotta, 1978.

C. Cerati, Scena e fuori scena, a cura di F. Gallo, Milano, Electa, 1991.

J. Foot, ‘Photography and radical psychiatry in Italy in the 1960s. The case of the photobook Morire di Classe (1969)’, History of Psychiatry, 26, 1, 2015, pp. 19-35.

U. Lucas, ‘La ricerca e il racconto’, in C. Cerati, Punto di vista, a cura di U. Lucas e F. Dentice, Milano, Electa, 2007.

M. Mussini, ‘Carla Cerati. La verità negata’, in Id., Carla Cerati, Milano, Skira, 2007.

 

Sito personale dell’artista www.carlacerati.com

Presentazione dall’archivio fotografico di “Carla Cerati” http://www.lombardiabeniculturali.it/percorsi/mondo-cocktail/2/