1.6. Herstory: Barbara Hammer, cinema, donne (e cavalli)

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Nel 2006, in seguito alla diagnosi di un carcinoma ovarico, Barbara Hammer (Feminist filmmaker and pioneer of queer cinema, come dichiara il sito della sua Fondazione) inizia un oneroso percorso terapeutico, che affronta tenendo con sé la telecamera e andando così a realizzare il film A Horse is not a Metaphor (2008). L’opera, tra letto d’ospedale e spazi naturali dove vive i momenti fra un ricovero e l’altro, si offre nella sua potenza visiva come viaggio esistenziale e testimonianza di un’idea di cinema come strumento di riconoscimento di sé nel mondo. Esistenza che sa sì di lotta (i brevi capitoli che ritmano il film con le sedute di chemioterapia sono significativamente intitolati round), ma soprattutto vocazione alla sperimentazione, restituita da tutta la sua storia artistica, in cui è evidente la volontà di mettere al centro del quadro sé stessa.

Cinema come strumento di pratica del mettersi al mondo, di nascita e rinascita, linguaggio per definirsi e definire, modo con cui riconoscersi e riconoscere visibilità. Visibilità che comincia e finisce con il corpo, centralità sfrontata che si impone già nel 1974 con Dyketactics (con cui mette a fuoco la strettissima connessione tra sessualità e pratica artistica omosessuale, procedimento che la porta a parlare di un processo di riconoscimento cinestetico). La manifestazione corporale colpisce nel lavoro della regista, femminista e lesbica, la cui ricerca visuale è costante affermazione di sé (fisica, intellettuale, politica, erotica), cui giunge indagando nella dicotomia: visibilità/invisibilità, presenza/assenza, solidità/trasparenza, interno/esterno, consistenza/inconsistenza, in sintesi essere/non essere. La ricerca dentro al contrasto diventa esplorazione artistica (sovversiva e ironica) con cui si rende visibile il percorso di vita: il proprio e anche – vocazione politica militante di chi ha preso parte ai movimenti tra anni Sessanta e Settanta – quello delle lesbiche. È un percorso che ha quindi forse anche il senso del risarcimento: come altrimenti leggere il trittico ‘archeologico’ composto da Nitrate kisses (1991), che assembla sequenze da film di finzione, vecchi documentari detournati, riprese di vita contemporanea in cui le immagini di coppie gay e lesbiche si intrecciano con quelle di Lost in Sodom (cortometraggio sperimentale del 1933, il primo film gay della storia), Tender fictions (1995), creazione colta e autoironica della propria autobiografia, che realizza attingendo anche a immagini di archivio, non solo personali, e History Lessons (2000). Qui, partendo dal fatto che la rappresentazione lesbica, almeno fino agli anni Settanta, non esiste, la regista – sottolineando l’operazione archivistica (Hammer è una appassionata ricercatrice) – rintraccia materiali sulle donne girati nel passato, ovviamente da uomini, e le monta creando una nuova sovversiva organizzazione narrativa, sottolineata da interventi anche sonori (su tutti si ricorda la formidabile manomissione vocale all’inizio del film, in cui grazie al doppiaggio vediamo e ascoltiamo la first lady Eleonor Roosvelt [fig. 1] rivolgersi alle donne del pubblico di una conferenza sostituendo alla parola ‘donne’, ‘lesbiche’): strategia formale che porta alla modifica radicale del senso delle immagini che, stravolte e ricomposte con ironia e sarcasmo queer, diventano racconto e testimonianza della realtà delle lesbiche prima di Stonewall. «La storia non dovrebbe appartenere soltanto a quelli che la fanno, ma anche a coloro che non l’hanno fatta e la rifanno. La storia è viva e può essere cambiata con un pezzo di carta ritrovato, una vecchia fotografia, un ricordo. Ogni oggetto culturale, ogni ricordo personale, ogni sogno e visione del futuro può essere considerata storia». L’affermazione si collega al progetto web Lesbians in Cyberspace, per la costruzione di un archivio collettivo di memorie, visioni, frammenti di sé, riprese, disegni, fotografie, musica, così che le lesbiche prendano spazio nel mondo e, anche attraverso il nuovo mezzo, si rendano visibili, esistano. L’operazione (che rimanda anche alle sue produzioni volte alla valorizzazione di artiste lesbiche emarginate dalla storia ufficiale) testimonia la volontà di dare corpo alle donne omosessuali creando immagini che testimonino il loro passato, visualizzandone l’esistenza antecedente il suo essere nominata e riconosciuta. Questa esigenza di affermazione di visibilità passa sempre attraverso i corpi: nessun intento puramente teorico-proclamatorio è del cinema di Hammer, che predilige dichiarazioni di lotta e di accusa ironiche e provocatorie, con un senso tutto queer che emerge anche nelle sue opere ‘archivistiche’ (in cui gioca, manomette e stravolge i piani temporali creando quindi anche un ‘tempo queer’). Di corpo e di corpi sono sature le inquadrature selezionate dalla regista per le sue lezioni di storia: donne che praticano sport, che fanno campeggio o si impegnano in esercizi militari, che passeggiano conversando, che cantano, che danzano e amoreggiano (e cadono vittime di violenza maschile), ma anche impegnate in esplicite performance erotiche e pornografiche (tratte dai primi stagfilms).

Centralità ribadita ulteriormente dalle sequenze girate dalla regista, come quella in cui una coppia di donne viene visitata da un medico che ne controlla ossessivamente le misure anatomiche cercandovi, specie nella butch [fig. 2], la dimostrazione della sua omosessualità. Colpisce nel lavoro di Hammer lo sguardo sul corpo messo a fuoco anche attraverso materiali clinici, specie le radiografie: il corto Sanctus (1990) è costruito con lastre autentiche di organi interni, che vengono rimontate, colorate, manipolate, evidenziate: quasi una ricerca delle strutture invisibili del corpo che, in trasparenza, rivelino la vita nascosta, l’autenticità dell’esistenza. Quasi un’ossessione, presente anche in A Horse is not a Metaphor [fig. 3] e che prenderà ancor più spazio nell’ultimo suo film, Evidentiary Bodies, in cui con processi digitali si rende addirittura visibile sul suo cranio glabro la sezione del cervello. Il film, che nasce dalla performance multidisciplinare realizzata da Hammer con il Whitney Museum nel 2016, si presenta visivamente come trittico (lo schermo è diviso in tre sezioni, le due laterali speculari) di cui lei è silenziosa protagonista: nuda, compie movimenti come brevi coreografie, quasi una danza butoh, per un lavoro in cui l’artista, una e trina, afferma definitivamente di essere visibile quindi di esistere: attestazione di presenza, anche nella prospettiva, forse, di una prossima assenza (l’opera è del 2018, anno che precede quello della morte di Hammer). Tuttavia lo stare al centro del quadro non sembra affatto suggerire il desiderio celebrativo di lasciare/lasciarsi in eredità, piuttosto la ricerca dell’inquadratura significa ancora una volta mettersi al mondo.

Processo evidente in A Horse is not a Metaphor. Davanti all’obiettivo, stesa nel letto d’ospedale, Hammer espone il suo corpo; l’immagine è di grande potenza, suggestiva nella sua crudeltà: l’obiettivo si riempie di pelle, di cicatrici, di carni invecchiate, il cranio con i capelli sempre più radi, le sopracciglia quasi inesistenti (offrendo alla visione anche l’evidente desessualizzazione della persona). Parla con l’infermiera, guarda e inquadra lo scorrere lento del liquido dalla sacca all’ago inserito nel costato, i giochi di luce attraverso la materia trasparente. Film del corpo e del tempo, si offre come una forma di feroce esperienza emotiva biologica in cui l’esposizione del corpo diventa restituzione di flusso di vita. Sottraendosi dal significato, che sarebbe inevitabilmente morale, Hammer afferma che la malattia non è una metafora (evidente il collegamento a Susan Sontag), ma uno stadio della vita, esperienza di esistenza ‘durante’, non pausa da essa. Così come il cavallo non è semplicemente la rappresentazione o la sostituzione di un’idea di paura, libertà, forza, amore, tenerezza, ma continua a essere ‘solo’ un animale con le sue reazioni istintive. In apertura, il cavallo spaventato (come segnala anche il nitrito, che precede la voce off di Hammer che riferisce della diagnosi di cancro) ripreso al rallentatore, non è simbolo della paura per la malattia, è esso stesso espressione vitale di terrore. I cavalli di Hammer (non a caso spesso presentati dalla regista con i loro nomi propri, così da evitare processi metaforici) sono presenza esteticamente dominante e segno autoriale (si pensi all’apertura con il cavallo che trotta al rallentatore che pare collegarsi alle cronofotografie di Étienne-Jules Marey e Eadweard Muybridge e alle sequenze di ‘Locomozione animale’, [fig. 4] con cui costruire visivamente ed emotivamente tutta l’operazione. Li accarezza, ci gioca insieme, li monta, li riprende liberi al prato. È come un desiderio di fusione [fig. 5] epidermica con il reale, gli animali (la mano che scorre sulla criniera, sulle groppe, sugli zoccoli) e la natura circostante (eccola immergersi nuda nell’acqua di uno stagno: immagine che torna sovrimpressa sulle inquadrature in ospedale), che viene sottolineato dalla musica originale di Meredith Monk, amelodica, ipnotizzante, fatta di parole e modulazioni vocali – parole che si fanno suoni e viceversa – che rimandano a una vocalità primitiva. La regista afferma il proprio esistere, percorso di vita e di cinema che continuano l’uno nell’altra senza soluzione, si nutrono l’una dell’altro, diventando un’unica dichiarazione. Eccola con camera a mano riprendere la porzione di mondo inquadrabile dalla sella [fig. 6]: le redini, il collo, le orecchie del cavallo, la terra che gli zoccoli calpestano, gli alberi, i cieli infiniti, i dirupi a fianco del sentiero. Soggettiva che sa di affermazione spregiudicata di esistenza, rovesciamento del pregiudizio che vuole la malattia come adattamento alla morte e negazione di vita, mentre si gira un film e si attende il responso dell’ultimo round di chemioterapia.

 

Bibliografia

B. Hammer, Hammer! Making Movies Out of Life and Sex, The Feminist Press at the City University of New York, 2010.

A. Osterwell. ‘A Body is Not a Metaphor. Barbara Hammer's X-Ray Vision’, Journal of Lesbian Studies, April 2010.

S. Bu Shea, C. Curtis, Barbara Hammer Evidentiary Bodies, Hirmer Publishers, 2018.

S. Nugara, ‘La controstoria femminista e lesbica di Barbara Hammer’, Il Manifesto, 20 marzo 2019.