3.3. «Le donne in copertina “vanno”»: Cinema nuovo e le attrici italiane (1952-1958)*

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1. Le copertine: vexata quaestio!

«Rimane però il fatto che le donne in copertina “vanno” assai meglio di qualsiasi altro soggetto». Così, sul finire del 1953, il Nostromo, nella rubrica di Cinema nuovo (n. 20) dedicata ai ‘Colloqui con i lettori’, risponde a Giuseppe Sibilla di Melfi. Non ci è dato, ad oggi, sapere con esattezza quali fossero i rilievi specifici e le rimostranze del sig. Sibilla sulla predominanza assoluta (l’unica eccezione realmente significativa è Chaplin nel primo numero) di volti e corpi femminili sulle copertine di Cinema nuovo. Abbiamo però accesso alle ragioni di politica editoriale e strategia di mercato che vengono addotte a giustificazione della scelta: appunto, le donne in copertine funzionano, dominano nella quasi totalità della stampa illustrata, e non sembra – aggiunge il Nostromo – «che accontentare il pubblico in questa materia […] sia poi un grande sacrificio», o che «il carattere della rivista» possa esserne «alterato» [fig. 1].

Il disappunto del sig. Sibilla non è destinato a restare un caso isolato. Nell’aprile del 1954 (n. 34) è la volta di Mario Lo Surdo, da Milano, a cui il Nostromo risponde: «Le foto che pubblichiamo sono scelte eminentemente con un criterio che selezioni il valore della recitazione degli attori e non le loro doti fisiche o quelle del loro abbigliamento». In questo caso non sono le ragioni del mercato a essere invocate, ma più stringenti politiche editoriali e anzi, più ampiamente, culturali, che subordinerebbero (come vedremo, il condizionale è d’obbligo) la scelta delle fotografie alla valorizzazione del talento e della tecnica recitativa.

Qualche mese dopo, nei numeri 48 e 49 (dicembre ’54), fotografie e copertine tornano a impegnare il Nostromo. Nel numero 48 [fig. 2] è una lettrice di Milano, Vinny Zuccaro, a confidare le proprie perplessità. «Perché stampate solo fotografie di attrici, e non per esempio di attori, oppure scene di film?» – si domanda legittimamente Vinny. «Tu forse mi obietterai che lo fate per attirare l’attenzione del lettore; ma sei sicuro, caro Nostromo, che basti la foto di Ava Gardner stampata sulla copertina a conquistare il lettore? Non credi che sia il contenuto del giornale a fare in modo che esso ottenga successo; o meglio la qualità del contenuto?». La risposta del Nostromo (come sarà anche sul numero successivo) è ambivalente:

Certo che lo credo – e credo che per conquistare il buon lettore conti più il contenuto della copertina. Ma le copertine che possono sembrare frivole non lo sono poi tanto: esse vengono scelte comunque sempre con un criterio di critica sul piano del costume; tale scelta viene del resto chiarita dalla didascalia. E poi, Vinny, le belle donne ci piacciono. E come!

Le argomentazioni del Nostromo, dunque, si orientano su una strada ancora diversa: non (esclusivamente) quella dei vincoli del mercato, non quella della valorizzazione delle abilità recitative, ma quella (di non semplice definizione) della critica del costume, che tuttavia non impedisce il riferimento conclusivo, tra l’ammiccante, il divertito e il compiaciuto, a un criterio di apprezzamento redazionale che prescinde da altre più pragmatiche e impegnate motivazioni.

Arriviamo così al 1955. Come osserva lo stesso Nostromo sul numero 50, le copertine sono ormai diventate una «vexata quaestio» – ma la risposta che viene fornita a Giuseppe Savioli di Mantova merita di essere interamente riportata:

«Dinanzi alle panoramiche della Pampanini» e di altre attrici – scrivi – «rimango non scandalizzato, ma perplesso: non so spiegarmi il criterio di scelta adottato dai compilatori, o meglio, dubito che siano state scelte al solo scopo di aumentare la tiratura della rivista». Invece ti sbagli: come ho già spiegato ad altri lettori, non c’è alcun sottinteso interessato nella scelta di certe immagini muliebri. Le panoramiche della Pampanini? Ma sono una sua caratteristica! E Marylin Monroe, allora? Sono le “dive” del nostro tempo; e Cinema nuovo non può inventarne altre.

Il passaggio complica ulteriormente la posizione della redazione: che non nega le necessità del mercato ma invoca, seppur confusamente, qualcosa che ha di nuovo a che fare di certo con il costume ma forse meno con la «critica del costume», se le panoramiche vengono presentate come una caratteristica ‘intrinseca’ della diva Pampanini [figg. 3-4].

I brani che abbiamo commentato derivano da un lavoro di spoglio, ancora parziale, della rivista Cinema nuovo, che si è concentrato sul periodo compreso tra la fine del 1952 e il 1958, fino, cioè, al cambio di periodicità della rivista. La ‘questione delle copertine’ non è certo inedita e, anzi, è già stata evidenziata da Cristina Bragaglia (1978, p. 89) e Giorgio De Vincenti, proprio in relazione al passaggio alla cadenza bimestrale. De Vincenti (1979, pp. 270-271), in particolare, individua «una curiosa e tutto sommato felice antinomia della rivista»:

Al “progetto culturale” che ne costituiva l’asse portante e ne qualificava il tono intenzionalmente alto, corrisponde una veste tipografica quasi rotocalchistica, che fa abbondante uso di immagini fotografiche, molte delle quali – in particolare le copertine – andrebbero studiate come esplicito contributo a una storia dell’“erotismo cinematografico”.

Le critiche dei lettori e le relative argomentazioni della redazione consentono di gettare nuova luce sulla «felice antinomia» individuata da De Vincenti, e di articolarla maggiormente, collocandola almeno, ci sembra, su tre livelli distinti ma interrelati. In primo luogo abbiamo un’ambivalenza interna alla rivista, che scaturisce dal rapporto tra il discorso di ordine storico-critico e teorico, «alto», specialistico e di costante impegno, e il discorso che le immagini autonomamente sviluppano, che va spesso al di là della funzione (paratestuale) di servizio, e anzi si pone talvolta in una relazione apertamente problematica. Tale ambivalenza va tuttavia contestualizzata nella più ampia contraddizione che attraversa i discorsi e la stampa (pensiamo a Vie nuove e Noi donne) di area comunista nel secondo dopoguerra, che si appropriano delle figure e dei linguaggi della cultura d’evasione per ampliare e consolidare il proprio radicamento popolare (Cardone 2009; Gundle 2009). Infine, tale antinomia è riconducibile alla più profonda problematicità dello statuto della donna negli anni della ripresa economica e delle spinte verso la commercializzazione della bellezza femminile. Alle istanze di emancipazione e alla indiscutibile centralità del volto e del corpo femminile nella cultura visiva dell’epoca si accompagna, cioè, una tensione permanente tra le due posizioni che la donna è invitata ad assumere, quella di ‘oggetto’ e quella di ‘soggetto’: tensione che, all’interno dell’ordine patriarcale soggiacente, fatica a risolversi in favore della seconda posizione. Con questa consapevolezza, dunque, si può rileggere l’invito di De Vincenti a considerare il contributo di Cinema nuovo a una «storia dell’erotismo cinematografico», e collocare l’analisi del rapporto tra ‘discorso critico’ e ‘discorso delle immagini’ sulla rivista all’interno dello studio del ruolo del cinema nei più ampi processi di negoziazione culturale intorno alla questione sessuale.

 

2. «Elogio della donna vestita»? Le attrici tra parola e immagine

Le ambivalenze delineate si articolano in modo privilegiato in relazione al discorso sulle attrici italiane. Silvana Mangano, Gina Lollobrigida, Sophia Loren, Silvana Pampanini, Lucia Bosé, e tante altre miss approdate al cinema per la loro bellezza («antitesi economica», come ha scritto Francesco Pitassio, all’interprete preso dalla strada del neorealismo [2007, p. 153]) e rapidamente diventate più o meno famose, si trovano al centro di una costruzione discorsiva profondamente critica nei confronti dell’esibizione di un corpo di cui si coglie tutta la sua vistosità, la procacità, la «maggiorazione fisica».

Lo «scandalo delle curve» si apre con una dichiarazione di Vittorio De Sica, per cui «le bellezze italiane sono tutte curve: Lollobrigida, Mangano, Pampanini. Le loro capacità artistiche non possono davvero competere con i loro pregi fisici». La redazione di Cinema nuovo, pienamente concorde, rincara la dose: tranne poche eccezioni (tra cui è sempre annoverata Anna Magnani) le attrici italiane sono «più belle che brave», «non sanno parlare, non sanno muoversi» (n. 6, marzo 1953), insomma «fanno il cinema guardandosi allo specchio», come recita un titolo sul numero successivo (Michele Gandin, n. 7, marzo 1953).

Tale argomentazione percorre in modo pervasivo le pagine della rivista, a delineare un fitto tessuto discorsivo in cui bellezza fisica e doti attoriali sembrano essere non solo due dimensioni distinte, ma anche, almeno in alcuni commenti, inversamente proporzionali, se non vicendevolmente esclusive. Come se l’avvenenza fisica fosse di per sé un elemento che esclude il talento, e la possibilità di coltivarlo, per almeno due ragioni strettamente connesse: da un lato perché le attrici dopo i primi successi si montano la testa, compromettendo quelle poche doti che eventualmente possiedono, dall’altro perché i produttori sono interessati a sfruttarne solo la bellezza, senza dare loro la possibilità di crescere professionalmente. Questa posizione si traduce in una ferma condanna per tutti quei film che mettono in primo piano «gambe e seni vistosi» ed «esibizioni di ‘décolletés’», facendo dei «particolari anatomici» delle dive il loro unico punto di forza [fig. 5], con una posizione comune, non senza contraddizioni, alla stampa generalista dell’epoca, come ha mostrato Anna Giraldelli (2013).

Sandro Bellassai ha individuato, nell’ideologia comunista degli anni Cinquanta (nel cui solco Cinema nuovo si inscrive a pieno titolo) un discorso sessuofobico e moralistico che va in due sensi, per certi versi opposti: una critica al messaggio sessista veicolato da rappresentazioni come quelle dei «seni e fianchi» sugli albi a fumetti, e un’espressione di puritanesimo con intenti censori (2000, pp. 120-121). Un’ambivalenza tutt’altro che estranea alle pagine di Cinema nuovo, emblematicamente espressa nell’«elogio della donna vestita» (n. 78, marzo 1956), con cui Renzo Renzi si rivolge a Eleonora Rossi Drago per complimentarsi per il fatto che lei e le altre attrici abbiano accettato di interpretare, in Le amiche (Michelangelo Antonioni, 1955), «una storia che non prevedeva l’esibizione dei vostri recessi fisici come elemento fondamentale dello spettacolo» [fig. 6]. L’invito di Renzi è quello a «restaurare la donna, cercare una sua immagine meno offensiva, cominciando, intanto, col rimetterle i vestiti addosso. Poi essa troverà un cervello, delle passioni […]. E noi l’ameremo, perché ci avrà preparato, oltre tutto, un mistero e un giuoco della fantasia più complessi, che daranno un vero sapore alla sua bellezza».

Dunque la dignità della figura femminile sarebbe riconquistabile ‘coprendola’, opponendo all’«orgietta [...] delle dive spogliate» non un modello diverso di esibizione del corpo (che pure emergeva in modo problematico ma prepotente proprio in quegli anni), ma un ritorno al suo occultamento. Dall’altro lato, tuttavia, il nuovo modello di femminilità proposto sembra avere in definitiva lo scopo di stuzzicare gli appetiti maschili in modo più raffinato (da cui il «vero sapore» della bellezza) – una sorta di alternativa colta dell’esibizione dei corpi che tanto viene criticata dai redattori della rivista.

Un’ulteriore ambiguità emerge osservando il rapporto tra il discorso critico e quello, meno diretto ma non meno efficace, che svolgono le immagini. Come i lettori di Cinema nuovo avevano già osservato, la componente iconografica propone tutt’altro che la «donna vestita» elogiata da Renzi. Immagini di attrici in pose provocanti e abiti discinti percorrono le pagine della rivista con una ricorrenza che si impone in modo ineludibile, secondo modalità in cui appare spesso difficile individuare quelle ragioni di «critica del costume» invocate dal Nostromo. Così, sfogliando ad esempio il numero 22 (novembre 1953), si incontra una Tania Weber che scopre la gamba e ammicca al lettore in un’immagine scelta a rappresentare Un giorno in pretura (Steno, 1953) [fig. 7], e, qualche pagina dopo, una foto tagliata ad arte per lasciare al centro il corpo scoperto (tra altri vestiti di una tunica) di un’attrice che le didascalie non si preoccupano di nominare, tra le interpreti di Teodora, imperatrice di Bisanzio (Riccardo Freda, 1954) [fig. 8]. Sono solo due dei tanti casi che pure rivelano come lo studio della provenienza, della selezione e delle scelte di impaginazione delle immagini permetta (nonostante le difficoltà nel reperimento di materiali documentari relativi) di ricomporre un discorso che non necessariamente si allinea a quello, più noto, di tipo critico-teorico, condotto su Cinema nuovo, e addirittura interviene, per alcuni versi, a ‘disturbarlo’, secondo linee che meritano di essere indagate più a fondo.

 

* Questo contributo traduce, in forma ancora parziale e provvisoria, le prime ricerche svolte all’interno del Progetto Prin2015 ‘Comizi d’amore. Il cinema e la questione sessuale in Italia (1948-1978)’. L’articolo è stato pensato, discusso ed elaborato dalle autrici in collaborazione. Per quanto riguarda la stesura materiale, Valentina Re ha scritto la sezione 1 ed Elisa Mandelli la sezione 2. Un ringraziamento particolare a Francesco Di Chiara e Paolo Noto per i generosi consigli.

 

 

Bibliografia

S. Bellassai, La morale comunista: pubblico e privato nella rappresentazione del PCI, 1947-1956, Roma, Carocci, 2000.

C. Bragaglia, ‘Le riviste di cinema (1944‐1978)’, in Materiali sul cinema italiano degli anni ’50, Pesaro, Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, 1978, pp. 51‐94.

E. Capussotti, Gioventù perduta: gli anni Cinquanta dei giovani e del cinema in Italia, Firenze, Giunti, 2004.

L. Cardone, Noi donne e il cinema: dalle illusioni a Zavattini (1944-1954), Pisa, ETS, 2009.

G. De Vincenti, ‘Per una critica politica della proposta culturale di Cinema nuovo quindicinale’, in G. Tinazzi (a cura di), Il cinema italiano degli anni ’50, Venezia, Marsilio, 1979, pp. 253-274.

A. Giraldelli, ‘Lollo vs. Marylin. La rappresentazione del corpo femminile nel cinema e sulle riviste degli anni Cinquanta’, Immagine. Note di storia del cinema, 7, 2013, pp. 73-96.

S. Gundle, Figure del desiderio: storia della bellezza femminile italiana dall’Ottocento a oggi [2007], trad. it. di M. Pelaia, Roma-Bari, Laterza, 2009.

F. Pitassio, ‘Due soldi di speranza. Considerazioni intorno al dibattito sull'attore non professionista nel Neorealismo’, L’asino di B., XI, 12, gennaio 2007, pp. 147-163.