Nonostante l’abbandono della pratica fotografica agli inizi degli anni Ottanta, è indubbio che Lisetta Carmi abbia assunto una certa centralità nella storia della fotografia italiana. Negli anni Duemila, dopo una lunga dimenticanza, le sue opere sono diventate oggetto di grande attenzione e sono state esposte in mostre personali e collettive. Nel 2010 il regista Daniele Segre ha dedicato alla sua figura di artista il film documentario Lisetta Carmi, un’anima in cammino, presentato con grande successo alla Mostra del Cinema di Venezia dello stesso anno. Poi hanno assunto sempre maggior rilievo le esposizioni come quella a Palazzo Ducale di Genova (città in cui è nata nel 1924) del 2015, al Museo di Roma in Trastevere nel 2017, al MAN di Nuoro nel 2017, fino all’ultima mostra intitolata Gli altri, sviluppata attraverso due tappe al Castello Carlo V di Lecce e al Museo Osvaldo Licini di Ascoli nel 2021.
Alla luce di questo grande successo, con sguardo retrospettivo, oggi possiamo provare a leggere la funzione assunta dal lavoro della fotografa nel più ampio sistema dell’industria culturale italiana di ieri e di oggi, distinguendo la necessaria azione destabilizzante che le sue fotografie provocarono allora dal valore storiografico di cui si caricano attraverso le mostre e gli studi a loro dedicati in questi ultimi anni.
Nata a Genova in una famiglia borghese di origine ebraica, Lisetta Carmi fu costretta a lasciare la scuola durante il periodo delle leggi razziali. Non smise mai, tuttavia, di studiare, soprattutto la musica. Dopo aver svolto attività di pianista professionista, negli anni Sessanta scoprì la fotografia, pratica in cui riconobbe, sin da subito, uno strumento di impegno politico e un mezzo attraverso cui compiere un intimo percorso di ricerca esistenziale. Lavorò come fotografa fino al 1984, producendo un vastissimo archivio ad oggi in parte conservato presso Cisternino, il paesino pugliese in cui abita [fig. 1]. E proprio il suo primo viaggio in Puglia, accanto all’amico etnomusicologo Leo Levi, che la condusse alla scoperta dei canti di una comunità ebraica garganica, la avvicinò all’obiettivo fotografico. Tornata a Genova, dopo l’esperienza di fotografa di scena presso il Teatro Duse, scelse la strada dell’impegno firmando reportage di documentazione e denuncia sociale come quello sui lavoratori del porto commissionatole dall’amica Enrica Basevi che allora dirigeva la Società di Cultura di Genova. Nessuno prima di lei aveva avuto il coraggio di documentare le condizioni disumane in cui quegli individui erano costretti a lavorare. Carmi impressionò sulla pellicola fotografica la realtà di quel mondo di invisibili, imparando a conoscere dall’interno il dramma della condizione operaia. La mostra Genova porto: monopoli e potere operaio, allestita con gli scatti realizzati al porto e patrocinata dalla FILP-CGIL dopo essere stata un evento cittadino diventò itinerante e, attenzionata da intellettuali come Norberto Bobbio e Ada Gobetti, venne esposta in diverse città. Fece il giro del mondo, approdando anche in Unione Sovietica [fig. 2]. Quel lavoro può essere considerato oggi l’atto concreto di una attivista che non smise mai, negli anni Sessanta della lotta di classe, di schierarsi dalla parte degli emarginati e dei più fragili. Così fece con il dossier del 1962 dedicato ai lavoratori dei cantieri e delle acciaierie dell’Italsider. La storia dei suoi reportage industriali incrocia quella dei sindacati cittadini, così come possiamo riconoscere un legame strettissimo tra il suo impegno e le istituzioni che le commissionarono i lavori. Il Comune di Genova le chiese di ritrarre i bambini ammalati dell’ospedale Gaslini, i parti prematuri al Galliera, l’umanità che frequentava l’ufficio anagrafe, il disagio urbanistico delle fogne cittadine [fig. 3].
Parallelamente al lavoro dei colleghi che alimentavano il movimento di avanguardia artistico, in quegli anni Carmi si muoveva cercando di dare un senso pratico al suo operato e concependo il fatto fotografico come un atto personale di denuncia. Per tutti gli anni Sessanta Carmi lavorò senza sosta finendo per inviare gli scatti non commissionati alla nota agenzia fotografica milanese di Grazia Neri, che dal 1966 in poi si è occupata di distribuire le immagini di fotografi italiani e stranieri a tanti giornali italiani. E così il nome di Carmi cominciò a circolare incuriosendo diversi editori italiani che tuttavia solo raramente decisero di pubblicarla. Considerati troppo ‘anticonvenzionali’, i suoi scatti, pur capaci di raccontare lucidamente delle storie, approdavano sulla carta stampata con difficoltà. A testimoniare questo complicato rapporto di Carmi con il sistema editoriale italiano è stata la vicenda legata alla pubblicazione di un gruppo di fotografie, realizzate nel 1966 e raccolte con il titolo Erotismo e autoritarismo a Staglieno, in cui fotografando il cimitero monumentale di quel quartiere genovese riuscì a raccontare «la storia di una borghesia conformista, forse ipocrita, sessualmente repressa, ma capace anche di rendere esplicite nello splendore del marmo le proprie passioni a futura memoria». Gli scatti vennero pubblicati da Bolaffi Arte dopo vari tentativi con altre case editrici. Ma se in Italia Carmi dovette bussare a diverse porte, all’estero le sue fotografie vennero apprezzate moltissimo, soprattutto in Inghilterra e in Svizzera [fig. 4].
Questo lavoro ha aperto la strada al racconto di storie attraversate da un profondo intento di indagine socio-antropologica. L’occhio della documentarista si è calato nella realtà più nascosta per svelare ciò che in quegli anni ancora non si poteva raccontare. Dalla frequentazione assidua di un gruppo di travestiti di Genova è nata la serie fotografica probabilmente più nota di Carmi. Gli scatti del 1965 realizzati ‘con amore e con amicizia’, sono stati il frutto di una frequentazione intensa della fotografa con quel gruppo di individui che la accoglieva in casa propria, la invitava alle feste, rivelava le proprie parti più intime e segrete, fidandosi del tutto della donna prima che dell’artista. La stessa Carmi ha raccontato di essere entrata nell’ambiente dei travestiti per caso, grazie al suo amico Mauro Gasperini, durante una festa di Capodanno.
Li ho rivisti successivamente nella loro vita quotidiana e ho cominciato a vivere con loro e a fotografarli. Li ho subito sentito come esseri umani che vivono e soffrono tutte le contraddizioni della nostra società come minoranza ricercata da una parte e respinta dall’altra. Non è un caso però se il mio interesse e la mia partecipazione ai loro problemi hanno creato fra me e loro una fiducia, un affetto, una comprensione che mi hanno permesso di fare questo lavoro con un rapporto che andava al di là di un normale rapporto tra fotografo e fotografati. Io stessa in quel tempo ero assillata – forse a livello inconscio – da problemi di identificazione maschile o femminile. Oggi capisco che non si trattava tanto di accettazione di uno ‘stato’ quanto di rifiuto di un ‘ruolo’. E i travestiti (o meglio il mio rapporto con i travestiti) mi hanno aiutato ad accettarmi per quello che sono: una persona che vive senza un ruolo [fig. 5].
Dopo sei anni e vari tentativi di pubblicazione falliti questo racconto, supportato dal lavoro scientifico dello psicanalista Elvio Facchinelli, si è tradotto nel famoso volume I travestiti grazie all’impegno di Sergio Donnabella, che decise di pubblicarlo a proprie spese fondando la Essedi Editrice a Roma. Nonostante il clima libertario che si respirava in quei primi anni Settanta, infatti, il libro fece scandalo, a tal punto che le librerie si rifiutarono di esporlo. Il volume, che veniva venduto quasi clandestinamente, oggi è diventato un pezzo di storia della fotografia italiana. Stampato nel grande formato 24 x 32 cm, il libro si apre con un ottavo in carta rosa e leggera che raccoglie le interviste ai protagonisti dei ritratti: Morena, che ha ispirato a Fabrizio De André la canzone Via del Campo, la lettrice di Bolero Film che con spirito materno si occupava di tutte le altre, Novia, una giovane e bellissima ragazza che a vent’anni era stata l’amante di De Pisis e custodiva in casa un suo piccolo quadro, Gitana che era riuscita a convincere la fotografa a farsi mettere sulla copertina del libro a torso nudo, senza reggiseno, con il volto ammiccante e i capelli cotonati [fig. 6]. Nelle pagine successive colpiscono le fotografie di volti androgini, di genitali esposti, di biancheria esibita e di atteggiamenti provocanti in un contesto straniante di vita autentica e banalmente ordinaria [fig. 7].
Il lavoro di questa ebrea borghese che stava provocando i benpensanti non solo ebbe un grande impatto sociale, ma aprì la strada a un dibattito in cui la sincerità visiva di questo libro-scandalo divenne il pretesto per discutere di temi nuovi: il racconto delle diversità e di più fluide identità di genere, la funzione apologetica e propagandistica della fotografia, il confine tra impegno politico e pratica artistica. Parteciparono a questo dibattito noti intellettuali dell’epoca come Ferdinando Scianna, Dacia Maraini, Luigi Lombardi Striani, Dario Bellezza, Alberto Moravia, Ando Gilardi.
Le tremila copie di I travestiti non circolarono come si sarebbe sperato. Fatta eccezione per poche centinaia di copie, la tipografia Nava, che aveva ancora i magazzini pieni, avrebbe mandato tutto al macero se non fosse intervenuta la scrittrice Barbara Alberti che mise in salvo tutta la tiratura accogliendo in casa propria un tal numero di volumi da farci sedute, tavoli, pareti divisorie che ogni giorno cambiavano forma a seconda di quanti libri regalava agli amici. Oggi il volume nel mercato dell’arte ha raggiunto una quotazione di alcune migliaia di euro, mostrando una progressiva attenzione dei collezionisti verso un oggetto di culto che viene oramai annoverato tra i pochi importanti libri fotografici italiani.
È per questo che Carmi negli ultimi tempi è considerata una icona della controcultura italiana, e viene riscoperta attraverso l’investimento di diversi curatori e la disponibilità di istituti pubblici e privati a ridare vita al suo lavoro di ricerca, così unico e distante da quello dei fotoreporter a lei contemporanei. Se negli anni del suo impegno il fotogiornalismo aveva scoperto la strada della denuncia sociale seguendo le battaglie condotte a più livelli dalla società civile, Carmi scelse di raccontare la dimensione più intima e oscura del disagio esistenziale utilizzando la fotografia come strumento di compartecipazione empatica verso gli esseri umani e le loro storie.
Nonostante le numerose mostre che accolgono il lavoro di Carmi, i video-documentari che le sono stati dedicati quale grande protagonista del nostro tempo, i volumi che raccolgono i suoi numerosi scatti, per lei la fotografia è da diversi decenni un lontano ricordo. Nel ’76, esattamente dieci anni dopo aver realizzato i sedici scatti a Ezra Pound che le valsero il Premio Niépce (raccolti nel libro L’ombra di un poeta, edizioni O barra O), la fotografa aveva incontrato il maestro indiano Babaji che le aveva chiesto di costruire in Italia un luogo di culto per diffondere il suo messaggio. Nel 1979 la Carmi ha fondato l’Ashram di Cisternino e lì si è ritirata per vivere quella che lei stessa ha chiamato la sua quinta vita [fig. 8]. Tuttavia il confino tra i bianchi trulli pugliesi ha prodotto l’effetto contrario rispetto all’isolamento contemplativo desiderato. L’Ashram è divenuto presto un centro culturale fortemente attrattivo per coloro che intendevano meditare. Tra questi, tantissimi intellettuali e personaggi dello spettacolo che hanno iniziato a frequentare la Valle d’Itria e hanno finito per colonizzarla. Attorno a Carmi si è creato un universo reticolare di interessi che hanno travalicato le intenzioni della stessa artista: critici d’arte, rappresentanti delle istituzioni, agenzie del turismo oggi costruiscono proposte culturali che muovono dall’aura mistica della star Lisetta Carmi, e alimentano un processo virtuoso di valorizzazione territoriale dei luoghi resi attrattivi e sacri dalla sua carismatica presenza.
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