Non vi era nessun serio motivo per ritrovarsi in tanti
in quell’occasione, se non l’aria del tempo, di una sorta
di speranza che induce a seguire in fretta il richiamo,
impercettibile e sicuro, di un tam-tam di grandi novità,
come un dovere. L’America sembrava sul serio spuntare
coi grattacieli subito dietro Ostia, al filo dell’ultimo
orizzonte, duna o fico d’India. Ci sembro di ricevere
il compenso della nostra sagace giovinezza:
l’annullamento delle distanze.
Fabio Mauri[1]
1. «Torniamo a proporre il mondo e il lavoro degli artisti come l’avvenimento di gran lunga più importante della nostra vita civile»
«Dicono i libri di storia che la guerra è finita nel 1945, ma noi tocchiamo con mano che i libri di storia mentiscono» – scrivono Valentino Bompiani e Cesare Zavattini nel primo numero della seconda serie di Almanacco Letterario Bompiani. È il novembre del 1958 e le loro voci si riallacciano idealmente alla prima serie del periodico, pubblicata fino al 1942. «Oggi […] abbiamo deciso che la guerra è finita e torniamo a proporre il mondo e il lavoro degli artisti come l’avvenimento di gran lunga più importante della nostra vita civile».[2]
La fine della guerra non è dunque bastata e sono serviti altri tredici anni a Valentino Bompiani perché l’Almanacco riprendesse il suo prezioso compito di aggiornamento culturale. La rivista è infatti una sua creatura già mentre è segretario di Mondadori e, quando poi lascia il posto e fonda la propria casa editrice, l’Almanacco costituisce parte della sua buonuscita, divenendo uno degli spazi in cui emerge la sua particolare figura di autore-editore.[3]
Questa seconda serie della rivista mostra novità importanti i cui effetti emergono più decisamente negli almanacchi del 1961, 1962 e 1963: alcune di carattere pratico-organizzativo e altre di atteggiamento, entrambe legate soprattutto alla figura del nipote di Valentino Bompiani, Fabio Mauri, da questo momento il responsabile della casa editrice a Roma.[4] L’ammodernamento di Almanacco, in gran parte dovuto proprio a Mauri – come testimonia il carteggio con lo zio Valentino, oggi conservato presso il Centro Apice – si accorda all’aria nuova che si respira in Italia e nella redazione Bompiani, che aveva pubblicato la prima serie negli anni del fascismo, in bilico tra i necessari omaggi al regime e la satira, un’aria fresca, latrice di novità importanti e di una considerevole e diffusa libertà espressiva.
Dal numero dedicato al 1959, la rivista, vestita con un nuovo impianto grafico (di Bruno Munari già fondamentale collaboratore della prima serie), si avvale di nuovi autori proponendosi nel panorama editoriale quale spazio di aggiornamento, ma anche di riflessione sulla cultura italiana e internazionale, e procede poi, nell’arco del decennio lungo degli anni Sessanta, declinando la sua concezione della responsabilità dell’intellettuale. Da una posizione ancora legata al dopoguerra, Almanacco scivola infatti molto rapidamente in una di attualità e di aderenza.
Struttura e indici della rivista mettono in relazione società e cultura con anticipo rispetto ad altre testate. Accanto e dentro le cronache che narrano le novità della poesia, della letteratura, delle arti visive, della musica e dello spettacolo, emerge il corpo a corpo con il reale (quello delle cose, del quotidiano, ma anche quello della politica e dei temi sociali, del mercato e della società di massa), lo sviluppo di forme espressive nuove, capaci di soddisfare, ad esempio, la fuoriuscita dal quadro (opera e scena), il rapporto con la tecnologia, l’aspirazione ad aprirsi alla comunità (invitando il pubblico, lettore e spettatore, a una partecipazione attiva).
Dunque, in Almanacco, specie tra 1959 e 1963, si nota un mutamento di passo nel rapporto tra arti e realtà, che ha una corrispondenza nel cambio generazionale delle voci, differentemente, engagée rispetto a quelle di un tempo passato ancora vicino.
Nell’Almanacco del 1959, il ‘Vocabolarietto dell’italiano’ raccoglie, ad esempio, centodieci risposte di intellettuali e fotografi alla sollecitazione della redazione a offrire la propria interpretazione di un centinaio di parole di uso comune, tra queste la voce ‘Teatro’. A firmarla è Nicola Chiaromonte. Antifascista, combattente repubblicano nella guerra civile spagnola (tra l’altro nella medesima pattuglia aerea di André Malraux), propugnatore del socialismo libertario, fondatore con Ignazio Silone della rivista Tempo Presente, collaboratore di Sipario, Chiaromonte è chiamato non tanto a dare la sua interpretazione della parola ‘teatro’, quanto a indicare una strada precisa che lega strettamente cultura e politica e vede la prima come mezzo fondamentale di conoscenza dell’uomo, nella stessa prospettiva di Zavattini e Bompiani. L’impegno è dunque l’oggetto dell’intervento di Chiaromonte, più che il teatro. Un linguaggio che egli interpreta come spazio di verità e discussione della realtà, ma senza attribuirgli una presa diretta, legandolo ancora al testo e alla messa in scena. Lo stesso accade, sullo stesso numero di Almanacco, per l’approfondimento sul teatro italiano a cura di Eugenio Ferdinando Palmieri. L’arco cronologico è sempre quello che va dal dopoguerra all’ultima annata e l’avanguardia è rappresentata in questo caso da Giorgio Strehler, direttore unico del Piccolo Teatro di Milano, primo stabile pubblico inaugurato nel maggio del 1947. L’aspirazione a una riforma del teatro viene in questo caso menzionata, ma non approfondita, e si somma a un accenno a più recenti forme spettacolari caratterizzate da nuovi rapporti tra copione e regia. La strada del Nuovo Teatro vuole dunque ancora il primo passo: lo evidenziano anche le fotografie degli spettacoli che illustrano e rispecchiano in tutto la tradizione del genere, restituendoci luoghi e messe in scene legati al teatro di rappresentazione.
Se il teatro è ancora allacciato al testo, lo sarà fino alla seconda metà degli anni Sessanta; sono le arti visive e la musica, già liberate a questa data dal vincolo rappresentativo, a emergere sulle pagine di Almanacco per la prospettiva avanzata a cui danno accesso. In questi ambiti la somma dei contributi, tra informazione e critica, restituisce un’atmosfera vibrante di un’energia ancora indefinita, che spinge contemporaneamente indietro e in avanti: verso l’antifascismo ‘storico’ e verso la modernità e il nuovo, rappresentando, in anticipo, entrambe le fazioni poi individuate da Umberto Eco – quella apocalittica e quella integrata[5] – ma propendendo per quest’ultima.
Gillo Dorfles è una delle voci ‘nuove’ più interessanti in questo senso. Fondatore con Albino Galvano, Bruno Munari, Ettore Sottsass e altri, del Movimento per l’arte concreta, docente di estetica, sulle pagine della rivista si fa animatore di una concezione delle arti saldata alla contemporaneità e quindi connessa alle mode, al gusto, al mercato. Già nell’Almanacco del 1959, rilevando la generale metamorfosi nelle arti dei modi, delle tecniche, degli approcci, avanza un’ipotesi secondo cui «le avanguardie artistiche […] stanno per dare vita a qualcosa di veramente nuovo, […] capace di ricostruire un’universalità di linguaggio, non solo artistico, ma umano».[6]
Da questo numero in avanti Dorfles si sofferma sovente sull’aspetto socio-antropologico dei fenomeni culturali degli anni Sessanta, mettendone in rilievo fascino e pericolo[7] e riflettendo sulla loro influenza, specie rispetto al visivo. Sull’Almanacco del 1963 si domanda, ad esempio, quale debba essere il rapporto (e la funzione) del dipinto astratto, informale, neoconcreto, costruttivista, tachista, esposto ‘tradizionalmente’ nella galleria d’avanguardia – dove l’uomo della strada ha ancora un timore ad entrare – con un quotidiano caratterizzato da un «piccolo universo di “lettere visive” e di semantizzazioni graffitiche che ci colpisce di continuo».[8] La sua posizione, guardinga ma aperta all’incontro con una realtà mutata in brevissimi anni, è indice del ‘nuovo’ impegno promosso dalle voci e dalle immagini di Almanacco all’indomani del 1961, un impegno che guarda con interesse la comunicazione e la tecnologia;[9] osserva e vive la trasformazione dell’immagine dell’Italia, dei suoi miti e del suo paesaggio, e la mette in relazione soprattutto con quanto accade nelle arti visive.
Questa predilezione per il visivo, percepibile sia nella scelta delle immagini che nei contributi critici, è dovuta verosimilmente al coinvolgimento diretto di Mauri nella costruzione degli indici e nella scelta dei collaboratori, tra cui emergono Achille Perilli – molto stimato da Mauri come artista, «fattivissimo»[10] collaboratore della rivista e profondo conoscitore del Dadaismo[11] – e Cesare Vivaldi, poeta e critico d’arte molto ricettivo, già al 1960, circa gli aspetti salienti del panorama delle avanguardie visive romane, di cui gli stessi Mauri e Perilli fanno parte.
I collaboratori di Almanacco, artisti e critici, vivono il loro impegno integralmente – sono artisti, sono poeti, sono scrittori, sono critici, sono traduttori, sono redattori – alcuni appaiono molto ricettivi anche rispetto alla ricerca teatrale e musicale[12] – sperimentatori in ogni ruolo, riconoscono brillantemente gli elementi caratteristici di una rivoluzione dei linguaggi e degli atteggiamenti che, a Roma, partendo da premesse completamente nuove, coinvolge nelle sue primissime battute i modi e le materie e riunisce, incurante al momento di una definizione, la ricerca di pittori del segno e della materia, ma anche di una certa nuova figurazione, tutte attratte dal ‘meccanismo reale’.
È in questo ambito sfumato tra immagine e oggetto, che mescola arte, cultura contemporanea, società dello spettacolo e questioni legate all’io, che si formano questi eredi insofferenti di una cultura che è anche politica. Sono loro a inventare, senza pianificarlo, una nuova forma di impegno, nata nel rifiuto della scelta di un solo linguaggio, dalla preferenza per la combinazione e l’incontro con il quotidiano e l’oggetto, da un’urgenza di realtà che Mauri descriverà come segreta, sperimentata, mobile «come una pulce».[13] Sempre loro, in immagini, testi, dichiarazioni, racconteranno tutto ciò dalle pagine di Almanacco per tutti gli anni Sessanta, caricandosi della responsabilità assunta nel 1958 dalla generazione precedente – «proporre il mondo e il lavoro degli artisti come l’avvenimento di gran lunga più importante»[14] della vita civile – ma rinnovandola radicalmente nella luce cittadina di un dopoguerra finalmente finito.[15]
2. «La prima notizia di Happening, giunta a Roma via Gabriella Drudi»
«Amiamo il mondo. […] Le disarmonie che lo rendono armonico. Sui tramonti di Roma vorremmo fissare col “vinavil” le immagini, i frammenti che ci piacciono»[16] – scrive Vivaldi nel 1960, nella sua introduzione a Crack – e prosegue:
Non crediamo nell’ordine convenzionale del linguaggio (sintassi, sequenze, toni, segni) e nemmeno nel suo “negativo”, nell’informe. Ci limitiamo al minimo, all’elemento irriducibile, alla parola singola o al blocco di parole, alla linea, al punto, a una trama di luce, all’oggetto. […] Dalla nostra arte abbiamo abolito ogni sbavatura sentimentale. Le immagini e le cose sono fredde o calde di per se stesse; le amiamo come sono, vorremmo baciarle e succhiarle, ma con debita impassibilità le registriamo e le cataloghiamo, attenti solo a che non si secchino, a che non perdano vita.[17]
Questa attenzione all’oggetto, alla realtà complessa della civiltà dell’immagine e dei consumi, l’interdisciplinarietà, usati come perni con cui allargare le definizioni dei linguaggi e dei ruoli, sono ricorrenti, come si è detto, nella redazione romana Bompiani gestita da Mauri, che vede spesso la collaborazione degli artisti già riuniti nell’esperienza di Crack.[18] Non stupisce pertanto che, proprio sul volume dedicato al 1962, venga pubblicata «la prima notizia di Happening, giunta a Roma via Gabriella Drudi».[19]
Già Paolo Barozzi, assistente di Peggy Guggenheim tra Italia e Stati Uniti, sulle pagine di Metro nel 1961, anno in cui il numero dell’Almanacco viene chiuso, aveva tracciato un primo profilo dell’happening come fenomeno nordamericano legato allo scardinamento della tradizione del dipingere e alla realizzazione – citando Allan Kaprow – di «frammenti di teatro dove l’aspetto visivo è amplificato […] basati in modo specifico sulla personalità e sul senso estetico dell’autore».[20] Una concezione confermata da Michael Kirby nel volume imprescindibile che rievoca la storia e chiarisce i confini di questa particolare forma di azione elementare[21] e che Drudi – una voce poliedrica e interessante di questi anni Sessanta, agente letteraria, traduttrice, critica d’arte – adotta pienamente nel suo primo intervento sul tema. In queste pagine Drudi crea anche un parallelo con una parte circoscritta, ma importante, dell’arte ‘sperimentale’ vicina ad Almanacco, un’arte che – come la definirà Mauri – «richiede una nudità di sguardo, una fatica più che un conforto».[22]
Drudi, riferendosi agli Stati Uniti, osserva la traduzione della pittura in una forma di rappresentazione che interpella direttamente il pubblico e avviene in luoghi non deputati normalmente all’esposizione, alla visione passiva: studi, magazzini, strada, mostrando come «l’happening diviene un “evento”»[23] attraverso il coinvolgimento dello spettatore. E difatti le fotografie di azioni di Allan Kaprow, Claes Oldenburg, James Dine, Robert Whitman indicano il crollo della cornice e la nascita di una forma nuova di presenza, un ibrido di pittura, sacre rappresentazioni e pantomima. Il confronto con una parte dell’avanguardia italiana implicata anch’essa in un’abolizione delle convenzioni e in una concezione dell’opera che diviene operativa attraverso il pubblico, è implicita nelle pagine seguenti in cui sono pubblicate – dopo le immagini di opere di artisti italiani e americani, ancora contenute nello spazio della cornice, e quelle degli happening di Oldenburg, Kaprow, Dine e Whitman – le dichiarazioni di Fabio Mauri, Achille Perilli e Toti Scialoja (allora compagno della Drudi). Dalle parole di questi tre artisti si evince una fuoriuscita dal quadro anche in Italia: la pittura, quando c’è, non è ‘semplicemente’ dipinta ma combinata, assemblata, composta, capace di invadere spazi e tempi reali proiettandosi nell’azione.
La dichiarazione di Fabio Mauri è quella di apertura. Egli ha già marcato, come artista visivo, la sua uscita dall’esperienza informale con l’adesione a Crack e la connessa reinvenzione del pastiche oggettuale e linguistico di matrice dada, attraverso l’amore per il ‘mondo’ «e tutto quanto esso contiene».[24] La sua identità di artista che dipinge e ‘rappresenta’ è messa in crisi da tempo, lo aveva confessato anche in Scatola magica: «Immaginiamo che io sia un punto, un punto che dipinge, o un carro, che urta, che lascia traccia».[25] E difatti, nelle pagine dell’Almanacco del 1962, alla domanda, forse autoposta «Mentre dipingi hai un’idea della società?» la risposta rivela il rifiuto del linguaggio e dell’azione convenzionale della pittura: «Non dipingo: vernicio, incollo, costruisco… qualcosa che ho bisogno di vedere». Ancora: «Cosa cerchi di fare esattamente?». Risposta: «Mi tengo stretto. Il mio corpo è diventato un’anima. Questo oggetto che inchiodo è il mio nuovo corpo».[26] Due le immagini di suoi lavori: Senza titolo e Exodus, anticipazioni di quello che rappresenteranno la serie degli Schermi, con i loro dati essenziali, i prelievi dalla realtà registrati e catalogati secondo quanto proprio l’esperienza di Crack aveva indicato attraverso le parole di Vivaldi:
Impazienti pescatori gettiamo la lenza nell’oceano e tiriamo a riva quel che ci occorre: latta ruggine, sargassi, […] un’ “affiche”, una lima, una spada, […] un uno+uno=due, una calcolatrice elettronica. Tutto, insomma, quanto può appagare la nostra fame di cacciatori d’immagini, di saccheggiatori della vigna meravigliosa del mondo. E tutto in mano nostra diventa oro, s’inquadra, assume ordine.[27]
Fabio Mauri nelle sue opere più recenti ha cancellato le immagini per lasciar posto al bianco e all’eterno. «Stufo di spettacoli si è abbandonato su un abbagliante lenzuolo per scatenare i suoi sogni sonnambolici e sofisticati».[28] È un artista, un intellettuale e anche un uomo di teatro[29] (passione condivisa con lo zio Valentino Bompiani), e ha un approccio all’opera che, proprio dagli anni Sessanta, si lega a una riflessione sul pubblico, sul vedere, sul partecipare, sull’esserci.
Segue la dichiarazione di Perilli, «l’allibratore che misura il tempo con l’orologio d’oro delle fiabe e delle vignette umoristiche».[30] Anch’egli ha partecipato a Crack e, interrogato dalla Drudi, paragona il proprio occhio a quello delle formiche che vedono contemporaneamente ovunque, fuori e dentro, e dichiara la sua intenzione: descrivere ma compiendo un’azione. Il suo è un occhio che «ha bisogno di più spazi contemporaneamente in un tempo solo»[31] guarda alla pubblicità, ai comics, ma sempre perché la mano dipinga quadri.
Come ben illustra l’opera I grandi riflessi, pubblicata sull’Almanacco a corredo dell’articolo, Perilli impagina le sue forme di segni nervosi in una sorta di racconto frammentato ma conseguenziale, fatto di vuoti, pieni, forme e ritorni, come in scene aperte. Già da diversi anni – fondamentali le esperienze di Grammatica e Esperienza moderna – è dentro l’avanguardia italiana, un’avanguardia che tutta, dal visivo alla scena, dalla parola al testo, vuole ora una trasformazione non tanto e non solo delle forme, ma proprio dei processi, ormai necessariamente tesi alla partecipazione e all’azione. Già Collage – l’azione musicale realizzata in collaborazione con Aldo Clementi – lo aveva chiarito: i protagonisti sono gli oggetti, le strutture, le luci, le sculture, le sagome, insieme alle diapositive e alle proiezioni realizzate con la lanterna magica. I materiali e i diversi linguaggi sono autonomi, a unirli è lo spettatore, anche lui dotato di uno sguardo da formica, fornito, proprio dallo spettacolo, di una nuova modalità del percepire e del vedere, insieme fisica e mentale.
Il terzo artista consultato da Drudi è Toti Scialoja. I suoi rapporti con il teatro risalgono già agli anni della guerra[32] e motivano il suo incarico per l’insegnamento di scenotecnica tenuto dal 1953 al 1957 presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. Nelle sue scenografie, mobili e metamorfiche, il linguaggio espressionista delle prime prove progredisce gradualmente arrivando a creazioni astratte, in sintonia con quanto accade nel suo percorso pittorico, anche sul piano della concezione dello spazio.[33] Lo spazio scenico è infatti per lui, lo testimonia l’impostazione del suo corso in accademia, «aprospettico, non descrittivo, non “contenitore del dramma, ma […] dramma visivo, espressivo”»[34] e questa impostazione si applica a tutto: anche a quelle opere ancora contenute, per quanto a fatica, nella sfera del dipingere. Le soluzioni formali cui giunge Scialoja in questa stagione artistica si trasferiscono infatti dalla pittura al teatro, all’insegnamento, manifestando una visione spaziale, a-prospettica e antinaturalistica, che agisce dal di dentro e si accompagna a un approccio fisico e concreto nell’arte come nel teatro. Ad esempio, in Accademia, sollecita i suoi allievi a rifare Rauschenberg,[35] domanda loro di esplorare, sentire, vivere profondamente ogni esperienza creativa.[36] Sulle pagine dell’Almanacco dichiara:
Scoprire come modo di essere nel presente scoprendolo. […] Lo ‘splendore’ del ‘caso particolare’, del fisico ‘luogo particolare’, del ‘presente particolare’. […] La materia che serve è ciò che sconfina nel tempo […]. Non è come dire oggetto, dato che ogni oggetto è estratto dal. Il guanto che si rovescia.[37]
In tutti e tre i casi presentati sembra che il quadro si sia rotto e l’opera abbia incontrato il reale, come materiale, come spazio, come tempo. La prosa frontale e sincopata di Drudi, già lontana dalla critica stilistica e formalistica, che nella seconda metà del decennio sarebbe stata superata,[38] ben si presta, più che a informare, a tradurre l’esperienza della nuova forma artistica dell’happening e la sua origine ‘dal di dentro’, secondo una prospettiva di affinità.[39]
Drudi aveva letto degli happenings su Art News e ne era rimasta affascinata,[40] a catturarla sembra essere proprio il carattere ibrido dell’evento, un montaggio di visivo, performativo, letterario, senza essere nessuno di questi. Vorrebbe tornare negli Stati Uniti a vedere un happening dal vivo per proporre un approfondimento a Sipario[41] e intanto pubblica su Almanacco letterario Bompiani 1963, dedicato a La civiltà dell’immagine, un nuovo approfondimento sul genere, con la medesima prospettiva ‘interna’ dell’esordio.
Qui Drudi fa un resoconto avvincente delle «insolite alchimie», dei materiali impiegati da un’arte nuova «concreta – new dada – nouveau realiste»,[42] riflette sul ruolo del pubblico. Mescolando suggestioni dalle avanguardie storiche all’oggi, si sofferma sulla descrizione di un happening di Kaprow del 1956, sottolineandone gli aspetti salienti: primo tra tutti la necessaria partecipazione del pubblico, senza il quale l’ambiente si affloscia «privo di vita, […] inerte e mutilato come un palcoscenico dopo che gli attori se ne sono andati via».[43] E ancora, citando France-Soir del 23 maggio 1962, Drudi ribadisce la natura ibrida di questo linguaggio, un «nuovo spettacolo inventato a New York [che] non è né teatro, né musica, né scultura, né pantomima».[44]
A conferma della mancanza (e dell’inefficacia nella prospettiva di Drudi) di una definizione certa dell’happening, chiude l’intervento il riferimento agli spettacoli tenuti dal Living Theatre a Roma nel giugno del 1962, menzionati nel paragrafo ‘Fine degli happening?’ dove Drudi riferisce del nuovo tentativo di rifiuto della «pietosa espressione di se stessi» attraverso «un processo concatenato di “gesti giusti”», «un’azione pura», che finisce per decretare, ancora un volta, l’irreversibilità «del teatro rito-spettacolo».[45] A questa data il riferimento al Living da parte della Drudi è interessante anche perché coincide con la notizia, in una lettera a Toti Scialoja, dell’incontro con la compagnia, prima dello spettacolo (New York Collage), proprio presso la casa editrice Bompiani. Il colloquio doveva servire a un articolo commissionato a Drudi da Sipario (che poi non verrà pubblicato proprio per la prosa originale dell’autrice), e conferma il suo ruolo nell’aggiornamento italiano sulla scena americana, e quello centrale di Valentino Bompiani rispetto al teatro.[46]
Anche nel caso di questo secondo, e ultimo,[47] articolo sull’happening, Drudi avanza dei paralleli, stavolta affidati non alle dichiarazioni d’artista, ma alle immagini di corredo all’articolo. Se nel numero precedente le illustrazioni dedicate all’Italia presentavano delle opere ancora riconducibili alla forma-quadro, in questo caso la predominanza è dell’oggetto e dell’azione. Queste le didascalie delle quattro immagini interne all’articolo di Drudi:[48] «Mimmo Rotella recita a Parigi i “Poemi suono”», «il pittore Kounellis in uno dei primi happenings romani», «Rzewski esegue a pugni chiusi “Three rhapsodies for slide whistles”»; «Bussotti esegue nella Galleria La Salita “Five piano pieces for David Tudor con scacchi, pettinino e piano”». Queste ultime due: la foto del pianista statunitense Frederic Rzewski – che nel 1966 sarà tra i fondatori del gruppo Musica elettronica viva – e quella di Sylvano Bussotti, rispondono ai canoni del ritratto del musicista di avanguardia chino e concentrato sul suo strumento nel corso dell’esecuzione. Più interessanti quelle riguardanti Kounellis e Rotella:[49] l’immagine scattata da Martial Raysse che ritrae Rotella mentre esegue una delle sue poesie epistaltiche risale probabilmente agli anni Cinquanta, quando l’artista, parallelamente alle sue prime ricerche astratte e di reinvenzione del collage, concepisce poemi fonetici composti da parole non sense intrecciate a cantilene, voce, suoni, fatti con oggetti o strumenti semplici, con un effetto che evoca insieme le avanguardie storiche, l’idea transmentalista della parola, la musica concreta di Pierre Schaeffer, probabilmente conosciuta da Rotella proprio a Parigi, e quella di John Cage. L’idea del prelievo dal reale, del riporto, del montaggio che caratterizzerà il lavoro visivo di Rotella inizia quindi dal suono e da una situazione analoga a quella raccontata nell’immagine pubblicata dall’Almanacco: uno spazio privo di strutture definite (palco, platea), con Rotella in piedi, impegnato nella sua azione con il pubblico che guarda e ascolta, anch’esso in piedi.
La foto di Kounellis scattata dal fotografo Martino mostra una sua performance del 1960.[50] Anche in questo caso l’immagine fotografica è ovviamente muta e non ci riporta il dato essenziale della scena: il suono, nuovamente elemento chiave di uscita dalla pittura da cavalletto.[51] Kounellis di spalle, vestito con una specie di mitria, su cui ha stampigliato lettere e numeri, è rivolto verso una tela sottile, dipinta di bianco che riveste interamente la parete ed è coperta anch’essa di simboli stampigliati in nero, liberi nello spazio e apparentemente coincidenti con quelli sulla schiena dell’artista, come a invitare a una lettura conseguenziale di segni tra corpo e ambiente. L’immagine racconta una delle tante azioni compiute dall’artista in quel periodo tra il suo studio e la Galleria La Tartaruga a Roma, alla ricerca di un’uscita dal quadro e dal gesto informale. L’opera è azione, immagine e suono: le lettere e i simboli sono cantati, lo spazio non si contiene in una tela, il procedimento accurato con cui sono fatti i segni, permette all’artista di liberarsi contemporaneamente del gesto e del pennello insieme, attraverso l’uso del rullo; il quadro diventa ambiente vivente.[52]
Risultano evidenti, lo erano certamente per Drudi, gli effetti su Kounellis dell’insegnamento di scenotecnica di Scialoja, lontano, come si è accennato, dalla tradizione accademica e proiettati oltre la rappresentazione, attraverso una concezione nuova dei materiali, dello spazio, del gesto. Tra scenotecnica, pittura e azione Kounellis non fa differenza: lo spazio della tela leggera, grande più di un lenzuolo, diventa un territorio in cui si svolge un evento, un rito, fatto di corpo, di pittura e di suono, appunto un happening, che ha le sue radici nel dadaismo.
Nella stessa prospettiva happening sono per Drudi i lavori di Rotella, Rzewski, Bussotti: legati a un rapporto particolare con il vedere, l’ascoltare, l’azione e l’ambiente, l’esaltazione della casualità, il quotidiano, il contatto intersoggettivo.[53] In tutti i casi la loro riuscita è affidata a quello che Lebel definirà «lo stato di veglia collettivo», se non sono compresi è perché – ancora con Lebel – «lo spettatore, condizionato da decenni di pittura da cavalletto, di teatro letterario, resta appiccicato al suo posto, assecondato da se stesso a restarne fuori»,[54] negando quella presa di coscienza, quella presenza frontale e ‘interna’ alle cose a cui è richiamato e a cui pure la scrittura di Drudi lo richiama.
3. «La parola magica ‘teatro’»
Nel novembre del 1963 viene fondata, da Rodolfo Vitone e Eugenio Battisti, la rivista Marcatré.[55] Inizialmente edita da Vitone, poi, dal 1965 da Lerici, la rivista è definita, fin dall’editoriale di apertura, «tavolata durante i congressi, o il fumoir del teatro», pettegola, curiosa, paradossale, istintiva, mutevole, «una risposta quasi immediata a ciò che accade»;[56] ed effettivamente le sue pagine divengono prestissimo un riferimento per le nuove avanguardie e un territorio privilegiato di osservazione dell’altro, accogliendo contributi sulla letteratura (a cura di Edoardo Sanguineti), l’arte (Eugenio Battisiti), l’architettura (Paolo Portoghesi), lo spettacolo (Vito Pandolfi), la musica (Diego Carpitella e Vittorio Gelmetti), il disegno industriale (Gillo Dorfles) e la cultura di massa (Umberto Eco).
Il tempo (1963-1970) è, come per Almanacco, quello dell’ingresso dell’Italia nella modernità, ma l’obbiettivo di Marcatrè sembra assorbito anzitutto dalla contrapposizione aperta al sistema culturale vigente e al recupero del «reale nella sua intattezza»,[57] ciò a partire dai linguaggi delle arti e della critica e da un confronto prima con le avanguardie storiche e successivamente con l’attualità.
L’approccio proposto in tutti i campi è agile: fatto di inchieste, interviste, relazioni di convegni, traduzioni di testi apparsi su riviste e libri stranieri. Ricorrente da subito la tematica del rapporto tra arte, società e mondo industriale: evidenza di una posizione complessa delle neoavanguardie davanti al pubblico di massa e al mercato e di una idea di ‘impegno’ annodata alla concezione sperimentale e antitradizionale del Gruppo 63, di cui la rivista è uno degli organi principali. La comunanza di atteggiamento, anche tra le voci di Marcatré che non partecipano direttamente all’esperienza del gruppo, emergono nella modalità con cui i diversi ambiti guardano (e talvolta raccontano) l’altro passando da sé, nella ricerca di un rapporto con la realtà che non è più solamente frontale, ma sempre più ‘interno’ e, soprattutto, nella genuina mescolanza di temi alla base della rivista – definita da Eco «un piano inclinato dove chiunque avesse materiale curioso, inedito, lo metteva lì».[58]
Dal 1964, comincia a notarsi negli indici della rivista, una più decisa esplorazione ‘dall’interno’ dei linguaggi che va oltre le classificazioni di letteratura, poesia, arti visive, spettacolo e musica, allargandone la prospettiva oltre il confronto con le avanguardie storiche. Probabilmente anche in seguito al ruolo chiave svolto da Eco nella Triennale di Milano di quell’anno, in cui si era voluto far vivere al pubblico l’equivoco alla base del tempo libero – tema della mostra – attraverso «inserti violenti dalla realtà quotidiana».[59] Vengono a questo punto osservate da vicino le premesse e gli effetti di un’attrazione per la realtà che scompagina linguaggi, tempi e spazi canonici, e rinnova più decisamente la scrittura critica, mescolando voci e prospettive. L’intervista e la dichiarazione anzitutto vengono preferite: sono in grado di restituire direttamente il pensiero nella sua intonazione e complessità originarie, senza particolari mediazioni oltre la domanda, e promuovono di fatto una posizione insight, del critico, dell’intellettuale, dell’artista, ma soprattutto del pubblico. Come accade nelle mostre, nelle sale da concerto e poi accadrà a teatro, nelle strade, nelle piazze, anche tra le pagine il pubblico è comprimario.
L’attrazione per il reale che scompagina linguaggi, prospettive, tempi e spazi canonici, e la visione dall’interno, sono dal 1964 al centro dell’esperienza di Marcatré soprattutto per quanto riguarda la musica e le arti visive, già protagoniste di un rinnovamento oltre la consuetudine della partitura e della rappresentazione, assai meno il teatro, osservato soprattutto in relazione al testo e alla scena, con poche eccezioni fino al 1968, probabilmente perché la rivista è più legata, nei suoi anni iniziali, all’aspetto testo-centrico del Gruppo 63.
Tuttavia, volendosi soffermare sugli anni precedenti a questa apertura della rivista all’‘azione’,[60] proprio la parola ‘teatro’– e poi la parola ‘spettacolo’ – vengono citate spesso, ma sempre al di fuori della scena, negli articoli pubblicati per descrivere un’opera d’arte fatta della dialettica e del montaggio tra linguaggi. Il teatro viene in questo caso citato come una parola magica in grado di evocare automaticamente la combinazione di elementi, l’incontro tra autore e spettatore, tra finzione e realtà.
Sul numero di febbraio del 1964, ad esempio, un contributo di Giuseppe Chiari sullo specifico musicale cita le esperienze di Pierre Schaeffer e John Cage. In particolare, quest’ultimo, che «sbatte porte, apre radio e mette dappertutto microfoni a contatto, ma “sceglie” di compiere queste azioni e le “firma” davanti ad un pubblico, tornando così all’immediatezza del risultato e alla consapevolezza dell’ascolto»,[61] mette in evidenza la centralità dell’oggetto e della sua forza semantica, capaci di guidare l’azione artistica, rompendo i confini dello specifico musicale, della dimensione cameristica e concertistica. Il musicista, nella prospettiva di Chiari, vuole e deve «affrontare tutti gli argomenti» e, per fare questo, «utilizza qualsiasi oggetto veda intorno a sé».[62] Così il suono si relaziona all’oggetto, alla parola, al gesto, al colore, al caso, a un pubblico ormai attivamente partecipante: nasce il «teatro-concerto»[63] dove il ‘teatro’ deve cancellare – ancora con le parole di Chiari – «la divisione fra il suono e il rumore; fra il rumore tecnico e il rumore comune; fra la parola e il canto; fra lo spazio astratto e lo spazio reale; fra il teatro stesso e il cinema».[64]
Il termine ‘teatro’ viene dunque messo in relazione con un altro linguaggio, come istigazione al cambiamento radicale della sua concezione. Chiari stesso lo evidenzia:
In fondo questa parola, “teatro”, deve servire solo come stimolo operativo per arrivare ad una sorta di spettacolo musicale la cui funzione sarà definibile “dopo”, ma la cui vitalità è già garantita dalla forza delle ragioni negative che ci spingono a farlo. […] Teatro, quindi, che significhi gettarsi nel vuoto. Oltre Cage, Paik, Beckett, Jonesco. Perché è con questi nomi e non con altri, che occorre fare i conti, oggi.[65]
Ciò che del teatro sembra sedurre è dunque la tensione particolare che è attribuita al dialogo e alla combinazione di elementi, all’incontro tra autore e spettatore, tra immagini, materiali, suoni e voci, finzione e verità. Ancora, del teatro affascina la promiscuità, l’essere davanti alle cose ma anche dentro, con un ruolo sempre più proiettato oltre il guardare e ciò accade mentre a teatro, a questa data, persistono fattori che ancora bloccano la fuoriuscita dallo spazio scenico e un contatto più vero con il reale.
Bruno Schacherl, nel corso dei lavori per un seminario, poi parzialmente riportati su Marcatré dell’aprile del 1966, tenta, ad esempio, una definizione delle possibilità contemporanee del teatro a partire dallo spettatore, ma la sua posizione non trova particolare riscontro tra i suoi interlocutori. «Teatro – dichiara – è l’uomo posto perentoriamente di fronte al suo essere sociale, condizione umana o destino. Lo spettatore è sempre […] se stesso e altro da se stesso, individuo e storia». E lega la storicità del teatro alla sua implicita politicità che, specifica:
non vuol dire, naturalmente, propaganda, didascalismo, partigianeria faziosa, engagement velleitario: ma un certo modo di porsi di fronte alla realtà che continuamente si trasforma, e la coscienza di poter collaborare a questa trasformazione, fosse anche solo riuscendo ad avvertire di esserne vittime.[66]
Mauri, in occasione del dibattito susseguente allo stesso seminario, addita la necessità, anche per il teatro, di cercare un rapporto con ciò che «intorno non è divenuto cultura, […] ciò che resiste a divenirlo, a subire quel processo di razionalizzazione, intellettualizzazione o spiritualizzazione che da un dato grezzo, contraddittorio, accidentale, solo reale, lo faccia divenire poesia, storia, scienza».[67] La prospettiva di Mauri, anch’essa apparentemente non condivisa dagli altri relatori, è quella dell’autore di teatro, dell’editore, ma soprattutto dell’artista visivo. Ciò che egli auspica per il teatro è quanto accade a questa data in una certa parte delle arti visive, in Italia e fuori: una messa in discussione della funzione stessa dell’opera a partire (esplicitamente o meno, secondo i casi), da una riflessione sulla fisionomia della società contemporanea, e basata su un approccio aperto, che mescola, combina, monta, creando dialoghi e relazioni che sono fisiche e immaginative insieme. Mauri conosce quella prospettiva come artista visivo, come editore, anche come autore di teatro anche se, in teatro, non riesce a concepirla, per ora, che in chiave teorica. È il caso di ribadirlo: su Marcatré questa prospettiva aperta è, fino al 1967-1968, tutta assorbita dalla musica e dalle arti visive.
Boatto, sempre molto attento alla combinazione tra linguaggi, alla complicità richiesta allo spettatore nella mescolanza tra visivo e teatrale, tra oggetto e vivente, vede spessissimo nella mise en scene il pungolo per far saltare il quadro delle abitudini percettive. Colpitissimo a Venezia dalle opere americane e dallo spettacolo di Merce Cunningham al teatro La Fenice, tanto da recarsi a New York l’autunno successivo,[68] dalle pagine di Marcatré di ottobre-dicembre 1965, offre la sua lettura della propria esperienza newyorchese, restituendo caratteristiche e ragioni del superamento del visivo delle correnti dada e pop americane. «Attento agli indizi» egli ricompone «le smagliature di una intuitiva visione europea […] ed il quadro complessivo, dove rientrano il panorama urbano, la società del consumo, la mass-culture».[69] Era stato lui, già nel 1963, all’interno delle riflessioni sull’opera d’arte contemporanea nate all’indomani del Convegno di Verrucchio di quell’anno, a riferirsi ‘all’utile’, all’«appropriazione diretta degli oggetti e soprattutto al loro montaggio» come orizzonte dell’uomo moderno e ingrediente attraverso cui ‘aggredire’ il mondo istaurando un «nuovo rapporto con le cose e gli esseri, per mezzo di un’angolazione insolita, attraverso la postulazione di una nuova […] innocenza».[70] Questa sua posizione si conferma negli anni seguenti, ad esempio quando scriverà, in occasione della mostra Fuoco Immagine Acqua Terra, organizzata da Fabio Sargentini alla galleria L’Attico, mostrando come «calato il telone sull’illusione, lo spettacolo dell’al di là si è rovesciato nel di qua, […] svolgendosi nel qui» e richiamando, non più la finzione, ma l’azione. «D’ora in avanti occorre non già fingere bensì fare spettacolo».[71]
Boatto è una delle voci più autorevoli della rottura della cornice, una rottura che, con lui, anche altre voci di Marcatré segnano, prendendo ad esempio la ricerca dell’americano George Segal. Ancora Giuseppe Chiari, questa volta ragionando sulla polemica che vede contrapposte la gestalt e la pop-art, attraverso un’analisi ‘fisica’ delle opere, evidenzia una posizione che si situa, per entrambe le correnti, oltre gli specifici linguistici del visivo, del performativo, del letterario e, a proposito di Cinema di George Segal, rileva la natura ibrida dell’opera. Pronunciando chiaramente ciò che essa non è – «non si tratta assolutamente di scultura, […] né si può assolutamente parlare di pittura, ma non si tratta neppure di una forma di antiscultura, né di una forma di antipittura» – Chiari marca quanto il lavoro dell’artista americano sia legato alla commistione delle arti e quanto, proprio la parola ‘teatro’, ne sveli gli aspetti salienti. «Io non voglio pronunciare la parola magica “teatro” – scrive – ma dobbiamo ammettere che ci si sta immettendo in una dimensione teatrale, perché altrimenti questa struttura non è decifrabile».[72] Il calco di Segal – sostiene Chiari – non è un uomo, né la struttura di un uomo, è la sua rappresentazione mescolata a dati reali (la porta) in un montaggio tra scultura e scenografia, scultura e teatro che non si avvicina «né ad un punto, né all’altro».[73]
Ancora Boatto, ancora su Segal, in un altro contributo su Marcatré del 1965, menziona il «processo teatrale», la «mise en scène» e la «regia», come pure il «montaggio tra componenti in origine diversi», impiegati dall’artista americano, come ingredienti per capovolgere il nostro campo focale «con l’immediatezza di un flash, o di un dettaglio di teatro, il repertorio delle sue impastate figure […] [situate] in una spazialità frontale e non sopprimibile».[74]
Il caso dei lavori di Segal attrae e si presta bene a questi ragionamenti della critica italiana poiché rompe completamente lo schema della rappresentazione (quadro, scultura, azione) per entrare (e costringere lo spettatore, ma anche il critico) in uno spazio attivo e quotidiano, ricongiungendo – come scrive questa volta Calvesi, sempre su Marcatré – «spazio e azione, di visività e di teatro».[75] Per queste ragioni probabilmente, Carlo Quartucci penserà inizialmente a Segal come artista con cui collaborare per la costruzione dei suoi spettacoli, per poi avvicinare Kounellis.[76] Le opere dell’americano affascinano perché posseggono la magia del teatro: sono reali di fronte al pubblico, in mezzo al pubblico, a misura del pubblico: «È una scultura che si dissolve in spettacolo, teatro, e poi dissolve il teatro nell’happening, nell’evento, […] riducendo […] alla folgorante attualità (= verità) del quotidiano» commenta sempre Calvesi.[77]
4. Lo spettatore comprimario
Come mostra il caso di Marcatré precedente al 1968, nell’ambito delle arti visive della seconda metà degli anni Sessanta, la diffusa rottura dello schema rappresentativo, accompagnato da situazioni prive, per lo spettatore, della consolazione di una struttura espositiva consueta, fa sì che i termini ‘teatro’ e ‘spettacolo’ siano utili a descrivere la comunicazione intersoggettiva emersa dalle opere: i loro ‘corpi’ diventano viventi, sono letti come viventi. Non tutti ne sono entusiasti: Alessandro Fersen attribuisce la cosa a una generale confusione rispetto alla natura del «linguaggio teatrale autentico»,[78] cui è imputabile anche l’uso delle etichette più eterogenee. Pino Pascali, nel 1967, sempre sulle pagine di Marcatré, se ne lamenta con Carla Lonzi:
Parlano di idea di spettacolo a proposito delle mie cose ma io penso che non sia giusto: […] le sculture non sono degli attori, non sono neanche delle scenografie. Il teatro è teatro perché c’è l’uomo che vive, se non c’è l’uomo che vive non è più teatro, diventa un’altra cosa. Al massimo se uno vuol arrivare a fare un paragone del genere, che può essere anche pericoloso, può dire che lo spettatore diventa attore.[79]
Ed ecco che la mise en scène si ricollega direttamente con la riformulazione del ruolo dello spettatore, spinto all’esperienza, come accadeva in quegli anni negli spettacoli del Living Theatre,[80] e favorisce, nella semplicità delle forme, nel richiamo a materiali e oggetti perfino banali, un rinnovato contatto con sé e con l’altro (umano e oggetto). Vittorio Gelmetti su Marcatré di luglio-settembre del 1964, riferendosi al lavoro alla Triennale di quell’anno, parla, ad esempio, di uno spettatore costretto all’azione attraverso la costruzione di «un tempo scenico del percorso» che riduce al minimo i tramiti espositivi ‘razionali’, per puntare «sulla perdita di distinzione di sé dall’oggetto».[81] Sullo stesso numero della rivista, Carla Lonzi,[82] nella sua prima collaborazione con Marcatré, si sofferma sull’atteggiamento della critica di fronte alle nuove correnti new dada e pop, denunciando un persistente moralismo, ansioso di applicare alle opere «il loro veto o il loro benestare», per poi schierarsi dalla parte degli artisti e della loro libertà di azione, immune da un perbenismo che mal vede la presenza dell’oggetto, l’iconografia urbana, l’approccio a materiali extra-artistici. Si tratta di ricerche capaci di trarre dalle cose «apparentemente inerti, abnormi, acefale», una bellezza «che è anche una scoperta della novità e della vitalità di un’esperienza collettiva». «Il mondo moderno – sottolinea Lonzi – tenta per la prima volta una sua qualificazione a posteriori» e «conferisce valore umano agli oggetti adoperandosi alla loro rivelazione visiva».[83] Dunque, il punto è la rivelazione delle cose quotidiane, semplici, banali, il loro essere veicolo di accesso, non alla contemplazione passiva, ma all’esperienza, mutando il ruolo del pubblico da spettatore ad attore.
Il primo a discuterne con Carla Lonzi, all’interno della rubrica ‘Discorsi’, è Luciano Fabro. A proposito dell’opera Buco, riprodotta su Marcatré in una fotografia scattata all’aperto, che ne mostra l’interazione con l’ambiente circostante, l’artista descrive l’opera come situazione di cui prendere possesso «attraverso tutti i nostri sensi come organizzazione totale» e ancora «un pattern che non possiamo definire visualmente». E chiarisce:
Non c’entra la forma, non c’entra il colore. Ti ripeto, io l’esperienza non la faccio col quadro, lo specchio, la struttura; io la faccio vivendo, guardando le cose, prendendo possesso. Quando vivi ti interessa tutto. Ti parlavo di entrare in atteggiamento attenzionale.[84]
La posizione di Fabro è rafforzata dal tono diretto della sua testimonianza, accessibile attraverso l’approccio particolare di Lonzi alla forma ‘intervista’, per cui il lettore viene chiamato dentro la conversazione e ha accesso, con le dichiarazioni, anche alla persona artista e alla persona critico. Lo si nota anche nei successivi incontri. Sempre nei ‘Discorsi’, in un’intervista del 1966 con Carla Accardi, l’opera Tenda, accuratamente descritta da Lonzi e ricondotta «al bisogno di trovare un momento di distacco dalla pittura», si configura, nel dialogo a due voci, come messa in atto di una percezione diversa in cui il soggetto, «parte problematica dell’esperienza stessa», partecipa a «un sistema di interferenze tra sé e la vita», è invitato a uscire «dai drammi dell’io umanistico».[85]
Sul tema centrale dello spettatore torna Kounellis, intervistato qualche mese più tardi da Lonzi:
Penso di non dare allo spettatore un oggetto già fatto, ma di farlo funzionare con la sua fantasia, perciò, un quadro, sull’alluminio ho scritto col rosso “giallo”: lui subito immagina il giallo, non glielo offri proprio, lo fai sforzare, lo fai partecipe su una superficie piana, ma con la mente no?[86]
Così, l’opera aiuta «a liberare e comprendere. Sennò – domanda Kounellis – che senso può avere un quadro?».[87]
Sollecitato da opere e oggetti come presenze, dunque, lo spettatore di Kounellis diventa attore nella mostra: visivo e teatrale si sono fusi. Proprio nei giorni dell’intervista Kounellis è impegnato nella realizzazione degli elementi scenici e dei costumi per A(lter) e A(ction), azione scenica su un testo di Mario Diacono, ispirato dalle lettere di Antonin Artaud, e interpretato da Frederic Rzewski, le cui immagini verranno poi pubblicate su Marcatré del dicembre del 1966. L’esperienza lo porta probabilmente a rafforzare la concezione del corpo come veicolo di relazione autentica (con l’oggetto, con l’ambiente, con un altro corpo).
Ancora Kounellis, nel corso dell’inchiesta su tecniche e materiali curata da Carla Lonzi, Tommasi Trini e Marisa Volpi Orlandini, sul numero quadruplo di Marcatré del maggio 1968, quando gli viene chiesto: «Tu sei passato da una tecnica di pittore vero e proprio a un tipo di happening» risponde: «Ma anche i quadri con i numeri, i primi che facevo erano una specie di happening, essi diventavano una cosa che si legge, un materiale e dovevano indurre ad una specie di rituale di vita, lo stesso che dovrebbe essere indicato dagli allestimenti e dagli oggetti che faccio ora…».[88]
Siamo ormai nel momento in cui i linguaggi del visivo e del teatrale dialogano stabilmente e Marcatrè è decisamente aperta a contributi sul teatro, l’azione, l’happening.[89] Sul numero di luglio 1968, ancora Kounellis, soffermandosi sulla corporeità e il teatro a proposito de I testimoni di Tadeusz Rozewicz di Carlo Quartucci, per cui realizza i materiali scenici, conferma la necessità di «ricominciare dal proprio corpo […] parallelamente (sul palcoscenico e nella vita)».[90] Oggetti, elementi, esseri viventi divengono nel suo lavoro, che sia in mostra o in teatro non appare rilevante, portatori di verità, agenti di disturbo per gli attori e gli spettatori, per il pubblico delle mostre e i collezionisti, tutti forzati a relazionarsi con l’altro oltre la consuetudine. Il senso dell’opera visiva e teatrale va dunque a coincidere in Kounellis: far morire abitudini e costanti, indurre un rituale di vita. Qualcosa di simile lo afferma Giuseppe Bartolucci, sempre sullo stesso Marcatré, riferendosi ai «materiali-comportamento» e alla loro azione «povera viva immaginativa tattile», capace di agire sugli attori – «i quali potranno adagiarsi all’ambiente ma dovranno scontrarvisi» – e sullo spettatore che, «una volta che ha messo piede in platea» accede a «una possibilità nuova di vita».[91] Questa ‘nuova possibilità’, questa comprimarietà del pubblico, si verifica con particolare evidenza nel lavoro di Kounellis della seconda metà del decennio, ma è oramai indiscutibilmente diffusa oltre le singole ricerche, cambiando in chiave ‘teatrale’ il consueto rapporto delle opere con lo spazio espositivo e quindi con il pubblico.
Un esempio noto ed emblematico è Il Teatro delle mostre. Festival Maggio 1968, una successione di eventi organizzati a Roma alla Galleria La Tartaruga, in cui il gallerista De Martiis veste i panni del regista organizzando una mostra al giorno, per circa tre settimane, con lavori, installazioni, performance, azioni dei maggiori esponenti dell’avanguardia artistica italiana dell’epoca. «Ogni giorno un artista in scena» recitano locandina e catalogo, testimoniando l’ormai conclamata, al 1968, spinta radicale a rovesciare le strutture esistenti. Il pubblico in questo caso, esperienza dopo esperienza, giorno dopo giorno, è premuto, incalzato, avvinto. «Non è l’accadere, non è il succedere, non è l’happening, ma è il succedersi che interessa» – avverte Maurizio Calvesi dalle pagine del catalogo – «la successione non come flusso ma come processo, come ritmo, come verifica nel tempo e del tempo».[92]
Dunque, il processo di incontro tra visivo e teatrale trova un suo compimento: i corpi delle opere (oggetti, dipinti, installazioni, la loro natura non ha veramente importanza) diventano viventi, sono letti come viventi e confermano la tendenza del decennio che l’happening aveva fatto deflagrare. Le arti, incuranti delle definizioni e degli specifici linguistici, ispirate e avvinte da una realtà sempre più pressante sul piano del corpo a corpo, instaurano dialoghi dove li trovano – con oggetti, materiali, immagini, situazioni –, riflettendo sugli effetti della mise en scène, rimarcando l’importanza di una presenza insieme frontale e ‘interna’. Nonostante le differenze tra ruoli e linguaggi, la sfasatura temporale per liberarsi della rappresentazione per le arti visive e per il teatro, i procedimenti si assomigliano: sono comuni il ricorso al bricolage, un approccio alle cose insieme tangibile e illusorio, il contatto con il reale, la difficoltà fruitiva da una parte e la disponibilità a ‘qualsiasi’ livello di ascolto dall’altra, l’evasione dai normali circuiti di presentazione delle opere, la rottura del quadro (opera e scena). La musica è cambiata e obbliga a nuove condizioni: «new music new listening».[93]
1 F. Mauri, ‘Nel 1960 gli anni ’50 avevano 10 anni’, in C. Christov-Bakargiev, M. Cossu (a cura di), Fabio Mauri. Opere e azioni 1954-1994, Catalogo della mostra (Roma, Galleria nazionale d’arte moderna, 16 giugno-2 novembre 1994), Milano, Carte Segrete-Editoriale Giorgio Mondadori, 1994, p. 71.
2 V. Bompiani, C. Zavattini, ‘Ai lettori’, Almanacco letterario Bompiani 1959, Milano, Bompiani, 1958, p. 1.
3 Cfr. L. Braida (a cura di), Valentino Bompiani. Il percorso di un editore «artigiano», Milano, Sylvestre Bonnard, 2003, p. 14.
4 All’incirca dall’ottobre del 1965 Fabio Mauri è responsabile anche della redazione romana di Sipario, per ritornarvi alla fine del 1968.
5 U. Eco, Apocalittici e Integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Milano, Bompiani, 1964.
6 G. Dorfles, ‘Le avanguardie artistiche’, Almanacco letterario Bompiani 1959, pp. 276, 285.
7 G. Dorfles, ‘Civiltà (e inciviltà) dell’immagine’, in S. Moraldo (a cura di), Almanacco letterario Bompiani 1963, Milano, Bompiani, 1962, p. 67.
8 G. Dorfles, ‘Civiltà (e inciviltà) dell’immagine’, p. 70.
9 Si pensi anche al ruolo di Umberto Eco curatore di Almanacco Letterario Bompiani 1962 dedicato a Le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura.
10 Lettera di Fabio Mauri a Valentino Bompiani, 24 settembre 1959, B 3 LIA 27 – Corrispondenze con il presidente dal 1° febbraio 1958 al 30 settembre 1960, Archivio Valentino Bompiani, Università degli studi di Milano, Centro Apice – Archivi della Parola, dell’Immagine e della Comunicazione, Milano.
11 Cfr. A. Perilli, Antologia dada. Temi nuovi e nuovi mezzi di ricerca dopo l’avvento della nuova civiltà, ‘Civiltà delle macchine’, II, 5, settembre 1954, pp. 19-22.
12 Si pensi agli stessi Perilli e Mauri, per quanto il loro contributo in questa direzione non trovi spazio su Almanacco e si trasferisca invece occasionalmente su Sipario, edita anch’essa da Bompiani, e tutta dedicata allo spettacolo. In Almanacco manca del tutto, ad esempio, ogni riferimento a ‘Intolleranza’ (1960), ‘Collage’ (1961) e ‘Scatola magica’ (1961), riuniti invece su Sipario da Franco Malina in un breve intervento in cui scrive: «Il fine dei tre spettacoli è comune; cioè quello di utilizzare, frantumandone i confini, ogni forma di spettacolo, riversandone le proprietà in una composizione libera meditata e immediata insieme. […] I contenuti civili, politici, morali di queste tre manifestazioni astratte sono difficilmente isolabili in un atteggiamento così libero e insieme così unitario (in cui la stessa materia dello spettacolo, la stessa posizione formale dell’artista di fronte all’opera diventano ideologia o protesta). Possono risultare, con una certa approssimazione, dalle interviste e dalle notazioni che abbiamo raccolto dalla voce degli artisti» (F. Molina, ‘Tre spettacoli astratti’, Sipario, 183, luglio 1961, pp. 3-4).
13 F. Mauri, ‘La miserabilità dell’arte’, in C. Christov-Bakargiev, M. Cossu (a cura di), Fabio Mauri, p. 86.
14 V. Bompiani, C. Zavattini, ‘Ai lettori’, p. 1.
15 Per un approfondimento sulle vicende dell’arte italiana tra 1959 e 1969 si veda C. Sylos Calò, Corpo a corpo. Estetica e politica nell’arte italiana degli anni Sessanta, Macerata-Roma, Quodlibet, 2018.
16 C. Vivaldi, ‘Introduzione’, in Id. (a cura di), Crack. Documenti d’arte moderna. Pietro Cascella, Piero Dorazio, Gino Marotta, Fabio Mauri, Gastone Novelli, Achille Perilli, Mimmo Rotella, Giulio Turcato, Cesare Vivaldi, Milano, Krachmalnicoff, 1960, pp. 5-17. Recentemente ripubblicato sul sito <http://www.trax.it/cesare_vivaldi.htm> [accessed 10.11.2021].
17 Ivi.
18 Per un approfondimento su Crack si veda M.G. Messina, Convergenze neo-dada di Gastone Novelli e del gruppo Crack, ‘Ricerche sul Novecento. Scritti per Pia Vivarelli’, a cura di M. De Vivo, R. Naldi, Napoli, Artem, 2011, pp. 57-68; B. Cinelli, Cesare Vivaldi e la giovane scuola di Roma alla Galleria La Tartaruga, 1957 – 1963, in F. Fergonzi, F. Tedeschi, Arte Italiana 1960 – 1964. Identità culturale, confronti internazionali, modelli americani, Scalpendi editore, Milano 2017, pp. 157-171
19 F. Mauri, ‘Nel 1960 gli anni ’50 avevano dieci anni’, in C. Christov-Bakargiev, M. Cossu (a cura di), Fabio Mauri, p. 71.
20 P. Barozzi, ‘Happenings a New York’, Metro, 3, 1961, p. 114.
21 Cfr. M. Kirby, ‘Introduzione’, in Id., Happening [1965], trad. it. di A. Piva, Bari, De Donato, 1968, p. 12.
22 F. Mauri, ‘La miserabilità dell’arte’, p. 90.
23 G. Drudi, ‘Happenings a New York’, Almanacco Letterario Bompiani 1962, p. 271.
24 C. Vivaldi, ‘Introduzione’, p. 5.
25 Le confessioni degli artisti vengono parzialmente riportate su Sipario da Molina (cfr. F. Molina, ‘Tre spettacoli astratti, Scatola Magica’, Sipario, XVI, 183, luglio 1961, p. 8.
26 F. Mauri, dichiarazione senza titolo in G. Drudi, ‘Happenings a New York’, p. 275.
27 C. Vivaldi, ‘Introduzione’, p. 5.
28 Ivi.
29 Nello stesso 1962 firma la commedia L’Isola, la cui scenografia è una proiezione, un mezzo che nel decennio seguente diverrà per lui più che mai parlante, come accadrà ad esempio con la performance Intellettuale, proposta in occasione dell’inaugurazione della nuova Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna nel 1975, a cura di Franco Solmi con la partecipazione di Pier Paolo Pasolini.
30 C. Vivaldi, ‘Introduzione’, pp. 7-9.
31 G. Drudi, ‘Pittura americana oggi (oggi?), Almanacco Letterario Bompiani 1962, p. 274.
32 Cfr. B. Drudi, ‘Toti Scialoja: il teatro e la pittura’, in F. D’Amico (a cura di), Opere 1955-1963, Catalogo della mostra (Verona, Galleria dello Scudo, 5 dicembre 1999-13 febbraio 2000), Milano, Skira 1999, pp. 29-47.
33 «Da quando dipingo con lo straccio stretto a batuffolo e intriso di colore, mi pare di non muovere più lo spazio dal di fuori, ma di agire dal di dentro dello spazio e della materia. Mi muovo al centro dello spazio» (T. Scialoja, Giornale di pittura, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 9).
34 B. Drudi, ‘La ‘classe’ di Scialoja’, La Tartaruga. Gli anni originali, Quaderni d’arte e letteratura, 5-6, marzo 1989, p. 143.
35 Rauschenberg è forse l’artista che più apprezza a New York, scrive a Vivaldi: «In tanto frastuono la mostra di Rauschenberg instaurava all’istante un diverso silenzio, e la testa comincia di nuovo a lavorare» (Toti Scialoja a Cesare Vivaldi, Lettera datata 10 aprile 1960, pubblicata su Riviera Ligure. Rivista quadrimestrale fondazione Mauro Novaro, XIII, 36-37, settembre 2001-aprile 2002, pp. 64-67.
36 Cfr. B. Drudi, ‘La ‘classe’ di Scialoja’, pp. 143-145.
37 G. Drudi, ‘Pittura americana oggi (oggi?)’, p. 274.
38 Cfr. F. Fergonzi, Lessicalità visiva dell’italiano. La critica dell’arte contemporanea 1945/1960, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1996.
39 Cfr. M. De Vivo, Andare Verso. La critica d’arte secondo Gabriella Drudi, Macerata-Roma, Quodlibet, 2017.
40 «Mi sono fatta prestare da Milton i numeri di Art News di quest’anno. Così ho scoperti gli happenings e sono affascinata …» (Archivio Fondazione Toti Scialoja, Roma, lettera di Gabriella Drudi a Toti Scialoja, 25 settembre 1961).
41 L’informazione si evince dalla lettera di Gabriella Drudi a Toti Scialoja, 21 giugno 1963, Archivio Fondazione Toti Scialoja, Roma.
42 G. Drudi, ‘1963 – Mutamenti degli happenings’, Almanacco letterario Bompiani 1963, Milano, Bompiani, 1962, p. 179.
43 Ivi, p. 180.
44 Ivi.
45 Ivi.
46 «Anna Guerrieri ha detto che potevano fare uno spettacolo al Teatro Parioli. Ma uno spettacolo in tre senza soldi e senza bagagli. Così si sono messi a girare per la città in cerca dei testi degli scrittori contemporanei americani, […] hanno estratto i nuclei che servivano a loro e hanno cominciato a leggerli ad alta voce seduti sulle poltrone dell’Ufficio di Valentino Bompiani» (Lettera di Gabriella Drudi a Toti Scialoja, timbro postale 16 giugno 1962, Archivio Toti Scialoja, Roma). Già citata da M. Rossi, ‘La firma dell’artista nel contesto dello happening Joseph Pascali fecit anno in Requiescat in Pace Corradinus di Pino Pascali alla Mostra a soggetto della galleria La Salita’, Venezia Arti, vol. 26, dicembre 2017, p. 247.
47 I motivi del raffreddamento dei rapporti tra Drudi critica d’arte e Bompiani sono forse dovuti alla mancata pubblicazione dell’articolo su Living Theatre per Sipario e al naufragio di un libro sull’arte americana, commissionato e poi bocciato da Bompiani in questo stesso 1962 (cfr. Archivio Fondazione Toti Scialoja, Roma, lettera di Gabriella Drudi a Toti Scialoja, 4 luglio 1962).
48 Tra il contributo di Drudi e il seguente dedicato al Festival di Spoleto vi sono altre due facciate di immagini con opere di Kmeny, Tinguely, Savelli, Rotella, Arman, Accardi, Scialoja e Dorazio (cfr. Almanacco Letterario Bompiani 1963, pp. 181-182).
49 Gli stessi nomi sono citati da Vivaldi, sullo stesso Almanacco, ancora accanto ai nomi di artisti americani come Dine, Oldenburg, Segal, e sempre nell’ottica dell’arricchimento della pittura attraverso l’extrapittorico (cfr. C. Vivaldi, ‘Neodada, novorealismo, neometafisica’, Almanacco letterario Bompiani 1962, pp. 249-260).
50 L’immagine è stata recentemente oggetto di un saggio di S. Risaliti, Autoritratto come Odisseo. Azioni di Jannis Kounellis dopo il 1960, Macerata-Roma, Quodlibet, 2020.
51 «Quelli prima dei quadri con le lettere dovevano essere cantati. Li cantavo sempre. Nel 1960 per esempio. Feci una performance senza interruzione, […] in cui stendevo tele non intelate ricoperte di kemtone, una vernice industriale, su tutte le pareti della stanza; e poi ci dipingevo le lettere che cantavo» (J. Kounellis, ‘1972 Struttura e sensibilità’, in Id., Eco nell’oscurità. Scritte e interviste 1966-2002, a cura di M. Codognato, M. D’Argenzio, Londra, Trolley, 2002, p. 143).
52 L’idea del quadro-ambiente è ricorrente in Kounellis, lo conferma Paparatti: «per una mostra di Kounellis alla tartaruga aveva cucito per me un vestito […] io dovevo semplicemente indossarlo e stare tutta la sera per il vernissage – un po’ come se il fiore fosse uscito – si fosse staccato dalla parete – da un suo quadro e si fosse posato sul mio vestito» (A. Paparatti, Arte-vita a Roma negli anni ’60 e ’70, Roma, De Luca, 2015, p. 111). La mancanza di maiuscole e di punteggiatura, oltre ai trattini, è una caratteristica del testo originale.
53 Come sintesi degli aspetti ricorrenti dell’happening si veda P. Fameli, ‘Happening come rituale dell’interazione’, Op. cit., 153, maggio 2015 <https://opcit.it/cms/?p=1139> [accessed 10.11.2021].
54 J.J. LEBEL, AL Hansen, W. Vostell, ‘Da un’inchiesta sugli “Happenings”’, Marcatré, 23-24-25, giugno 1966, pp. 174-175.
55 Per un’analisi di insieme della rivista si veda F. Gallo, ‘Aspetti della critica d’arte su «Marcatré» (1964-1969)’, in N. Barrella, R. Cioffi (a cura di), La consistenza dell’effimero. Riviste d’arte tra Ottocento e Novecento, Napoli, Luciano, 2013, pp. 417-432.
56 E. Battisti, ‘La Tavola e il fumoir’, Marcatré, 1, novembre 1963, p. 2.
57 R. Barilli, A. Guglielmi (a cura di), Gruppo 63. Critica e teoria, Torino, Testo & Immagine, 2003, p. 237.
58 E. Morteo, A. Saibene, ‘Genealogia di una mostra. Intervista a Umberto Eco’, in M. Meneguzzo, E. Morteo, A. Saibene (a cura di), Programmare l’arte. Olivetti e le neoavanguardie cinetiche, Catalogo della mostra (Venezia, Negozio Olivetti, 30 agosto-14 ottobre 2012; Milano, Museo del Novecento, 26 ottobre 2012-17 febbraio 2013), Milano, Johan & Levi, 2012, p. 56.
59 ‘La Triennale di Milano. Intervista a Umberto Eco’, Marcatrè, 8-9-10, luglio- agosto-settembre 1964, p. 134.
60 Dal 1968 la rivista arricchisce decisamente il suo sguardo sul teatro, l’azione, l’happening, soprattutto attraverso traduzioni e interviste e si apre a prospettive più radicali, come evidente ad esempio dall’analisi dell’indice di Marcatré 37-38-39-40, maggio, 1968.
61 G. Chiari, ‘Musica e oggetto’, Marcatré, 3, febbraio 1964, p. 20.
62 Ivi, p. 21.
63 Ibidem.
64 Ibidem.
65 Ibidem.
66 B. Schacherl, ‘Il Pubblico’, Marcatré, 19-20-21-22, aprile 1966, p. 145.
67 F. Mauri, ‘Il teatro come fatto letterario’, Marcatré, 19-22, aprile 1966, p. 168.
68 Per un resoconto del viaggio newyorchese di Boatto si veda A. Boatto, New York 1964 New York, a cura di C. Sylos Calò, Roma, Italo Svevo, 2019.
69 A. Boatto, ‘Manhatta dada e pop’, Marcatré, 11-12-13, 1965, p. 293.
70 A. Boatto, ‘Due ipotesi d’intervento’, Avanti!, 7 dicembre 1963, p. 3.
71 A. Boatto, ‘Lo spazio dello spettacolo’, in AA.VV., Fuoco, Immagine, Acqua, Terra, Roma, L’Attico, 1967, s.p.
72 G. Chiari, ‘Gesto di distacco’, Marcatrè, 11-12-13, 1965, p. 125.
73 Ivi.
74 A. Boatto, ‘La percezione dell’anonimo in Segal’, Marcatrè, 16-17-18, luglio-agosto-settembre 1965, p. 326.
75 M. Calvesi, ‘Un pensiero concreto. Parte terza’, Marcatrè, 23-24-25, giugno 1966, p. 94.
76 Quartucci si era inoltre riferito a Segal a proposito dell’“oggettivazione realistica” in un suo contributo su Sipario (cfr. C. Quartucci, ‘Nuove tendenze del teatro italiano’, Sipario, XXI, 247, novembre 1966 p. 40).
77 M. Calvesi, ‘Un pensiero concreto’, p. 94.
78 A. Fersen, ‘Introduzione al dibattito, Tetro oggi: funzione linguaggio’, Marcatrè, 19-20-21-22, aprile 1966, p. 130.
79 C. Lonzi, ‘Pino Pascali’, Marcatrè, 30-31-32-33, luglio 1967, p. 242.
80 Secondo la testimonianza di Anna Paparatti, Pino Pascali, conosciuto nella classe di Toti Scialoja, all’Accademia di Belle Arti di Roma, è entusiasta dei loro spettacoli e compie nel 1965 una performance davanti a loro (cfr. A. Paparatti, Arte-vita a Roma negli anni ’60 e ’70, p. 63).
81 V. Gelmetti, ‘Sull’Allestimento della XIII Triennale’, Marcatré, 8-10, luglio-settembre 1964, p. 135.
82 Per una panoramica interessante sull’attività critica di Carla Lonzi si veda L. Iamurri, Un margine che sfugge. Carla Lonzi e l’arte italiana 1955-1970, Macerata-Roma, Quodlibet, 2016.
83 C. Lonzi, ‘Una categoria operativa’, Marcatré, 8-9-10, luglio-agosto-settembre 1964, p. 193,
84 C. Lonzi, Intervista a Luciano Fabro, Marcatré, 19-20-21-22, aprile 1966, pp. 375-379.
85 C. Lonzi, ‘Discorsi. Carla Lonzi e Carla Accardi’, Marcatré, 23-24-25, giugno 1966, pp. 193-197.
86 C. Lonzi, ‘Discorsi: Carla Lonzi e Jannis Kounellis’, Marcatré, 26-27-28-29, dicembre 1966, p. 130.
87 Ivi, p. 134.
88 C. Lonzi, T. Trini, M. Volpi Orlandini, ‘Tecniche e materiali’, Marcatrè, 37-38-39-40, maggio 1968, p. 73.
89 Questo saggio è ritagliato sulla prospettiva offerta da Almanacco letterario Bompiani e Marcatrè e non è quindi la sede per approfondire i rapporti tra arti visive e nuovo teatro, performance e happening, si segnala comunque un interessante recente studio sull’argomento a proposito di Arte Povera: N. Bätzner, M. Disch (a cura di), Entrare nell’opera: Processes and Performative Attitudes and Arte Povera, Buchhandlung Walther König, Colonia, 2020.
90 J. Kounellis, ‘Pensieri e osservazioni’, Marcatré, 43-44-45, luglio-agosto-settembre1968, pp. 230-233.
91 G. Bartolucci, ‘L’organismo dei testimoni sua composizione e scomposizione’, Marcatré, 43-44-45, luglio-agosto-settembre 1968, p. 223.
92 M. Calvesi (a cura di), Teatro delle mostre, Catalogo della mostra (Roma, Galleria La Tartaruga, 6-31 maggio 1968), Roma, Lerici, 1968, s.p.
93 J. Cage, Silence, Cambridge (Massachusetts), Mitt Press, 1970, p. 10.