Corpi feriti nella letteratura della Grande Guerra

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In questo saggio l’autrice analizza il tema della ferita in un insieme eterogeneo di testi e immagini della prima guerra mondiale. Il corpus analizzato, che include interventi militanti, testi letterari e giornalistici e prodotti propagandistici veri e propri, mostra una grande varietà di strategie retoriche di rappresentazione della violenza subita. L’ipotesi alla base del saggio è che la rappresentazione del corpo ferito non è semplicemente censurata nella produzione che più apertamente fa propri i fondamenti del discorso pedagogico della nazione in guerra; al contrario, come nel caso esemplare del libro per bambini Il cuore di Pinocchio, l’idea della sovranità assoluta che la patria esercita sul corpo dei soldati è espressa senza alcuna censura.

In this paper, the author analyses the representation of wounded bodies in a diverse corpus of texts and images of WW1 culture. This corpus, which includes literary texts, newspapers articles, and propagandistic materials, showcases a wide variety of rhetorical devices aiming to give shape to suffered violence. The hypothesis underpinning the paper is that the representation of the wounded body is not simply censored within those products that openly endorse the core of the pedagogy of the nation at war; on the contrary, as in the case of the children book Il cuore di Pinocchio, the idea of the absolute sovereignty that the homeland exerts on soldiers’ bodies is expressed with no understatement.

 

1. Ferite e valore d’uso

 La Ghirba, 10, 9 giugno 1918

In una illustrazione pubblicata sul numero 10 della Ghirba, apparso nel giugno del 1918, un militare in licenza – probabilmente un graduato – si ferma a chiacchierare con una ragazza davanti a un teatro improvvisato. Due battute galanti, nello stile leggero della Ghirba, accompagnano l’illustrazione:

Lei: - Bravo, avete tre ferite, vedo!
Lui: - Quattro, quattro! Una profonda me l’avete aperta adesso Voi al… cuore![1]

Il corpo del soldato, in realtà, appare perfettamente integro, non ci sono fasciature evidenti, né mutilazioni in vista. Un cortocircuito abita la scena: gli effetti della violenza sono appena accennati attraverso il codice verbale ma sono del tutto assenti dall’immagine. Si apre una discrepanza tra ciò che si vede e ciò che si dice, perché mentre per lo spettatore le ferite restano nascoste, per la ragazza corteggiata esse sono il segno – verrebbe da dire il supporto – su cui si innesta l’attrazione verso il soldato: la ferita è la metonimia del coraggio maschile, il residuo tangibile dell’esperienza virilizzante del combattimento, il marchio che ‘erotizza’ il corpo che lo reca e lo rende desiderabile. La risposta del soldato sigilla questo piccolo cerchio di figure: le ferite reali – eppure invisibili all’occhio esterno dello spettatore – producono una ferita metaforica, un vulnus al cuore in cui, in nome del binomio di piacere e sofferenza, il desiderio e il suo doppiofondo masochistico si saldano insieme. I segni della violenza subita parlano di una maschilità compiuta,[2] letteralmente guadagnata sul campo di battaglia e dunque pronta ad essere ricompensata sessualmente. Il dolore della lacerazione della carne non ha posto in questo quadro: se il linguaggio allude alla realtà effettiva di quelle lacerazioni, tutto nella vignetta spinge per cancellarla, trasporla sul piano delle metafore, trasformarla in uno degli enunciati ideologici centrali nel discorso della propaganda bellica: il corpo del soldato ha il suo dover essere in una versione lacerata – o eventualmente distrutta – di sé. È solo in quella lacerazione, il cui dolore non può essere pronunciato, che quei corpi maschili si compiono, svelando la propria disponibilità ad essere usati e liquidati in nome di una rete di enunciati performativi sul sacrificio e la patria che sono alla base del discorso nazional-patriottico moderno.[3] La ferita aumenta il valore d’uso di quel corpo, che diviene attraente, forte e coraggioso proprio in virtù del suo essere lacero. In questa economia paradossale, più il corpo si approssima alla distruzione e più il suo capitale simbolico aumenta. Il corpo inservibile, il cadavere, è quello che vale di più.

Consideriamo ora il contesto in cui appare l’illustrazione analizzata sopra: La Ghirba è un giornale di trincea che inizia ad essere stampato e diffuso a partire dall’aprile del 1918, andando a ingrossare le fila dei periodici prodotti all’interno di singole unità dell’esercito.[4] Il servizio di propaganda viene istituito solo dopo Caporetto, quando l’allontanamento di Cadorna consente di allentare e rivedere le procedure estremamente repressive che avevano regolato fino a quel momento la vita dei soldati.[5] I giornali di trincea si inseriscono in un quadro di mobilitazione culturale rivolta essenzialmente agli attori principali della guerra, cioè i soldati. Curare il morale dell’esercito diventa una priorità,[6] che i periodici scritti e letti sulla linea del fronte incontrano con modalità e stili differenti. La violenza subita, più che quella perpetrata, va trattata con cautela: la morte, la lacerazione o la mutilazione non potevano essere rappresentate con troppa crudezza e realismo, e soprattutto dovevano essere rese parte di una narrazione in cui trovassero senso. Il modo narrativo del romance, su cui si basa la vignetta della Ghirba, non presenta riferimenti diretti al discorso patriottico, ma il suo sotto-testo biopolitico li implica: il corpo ferito è un corpo prestante e attraente, che ha svolto la propria funzione di difesa del corpo simbolico della nazione e che è pronto a riaffermare, nell’incontro con l’altro sesso, il proprio compito generativo.

Registri comico-grotteschi, talvolta molto violenti, vengono invece utilizzati per rappresentare il corpo del nemico, deturpato da mutilazioni, smagrito e femminilizzato. I giornali di trincea abbondano di immagini di questo tipo, a conferma del fatto che rappresentazioni più crude della violenza della guerra sono possibili se utilizzate per stigmatizzare il nemico.

 La Ghirba, 10, 9 giugno 1918

In un’altra illustrazione dalla Ghirba, ad esempio, una famiglia viennese di mendicanti composta da un veterano, una donna e due bambini piccoli, appare ripugnante alla vista: i corpi sono scheletrici e ricoperti di stracci, le espressioni del volto deformate e incattivite, la mutilazione del soldato, che stringe una stampella, resa ridicola dalle enormi dita dei piedi che sbucano fuori dalle scarpe sfondate. In controluce, questa immagine suggerisce tutte le qualità negative che potevano essere attribuite al corpo del soldato: la magrezza, la sporcizia, la fragilità delle membra, bisognose di protesi o sostegni.

Se, come afferma Elaine Scarry, il linguaggio misura i suoi limiti proprio nel momento in cui si trova a dover esprimere il dolore fisico, è proprio la guerra la struttura umana che più sfrutta questo deficit: essa richiede che la sofferenza del corpo e l’evidenza delle sue lacerazioni siano parzialmente eclissate per via di omissione, rinominazione o spostamento, tutte strategie linguistiche di rimozione della sostanza della distruzione fisica vera e propria.[7] Il paradigma teorico di Scarry descrive con molta precisione la missione di alcune agenzie chiave della sfera pubblica – scuola, stampa, esercito – che in tempi di guerra perseguono esattamente l’obiettivo che la vignetta della Ghirba raggiunge: cancellare il dolore (omissione), occultare i segni della lacerazione e al tempo stesso esaltarli e trasformarli in una garanzia di prodezza sessuale (spostamento), innescare il salto dal piano della realtà – le ferite reali – a quello della metafora – la ferita del cuore, la sofferenza amorosa  (rinominazione). Eppure in questo paradigma c’è qualcosa che finisce per disconoscere un elemento fondamentale del discorso della pedagogia nazionale su cui poggiava la produzione propagandistica durante la prima guerra mondiale: il corpo maschile ferito non è solo un oggetto innominato e innominabile, alluso e mai veramente esposto o detto; al contrario, la lacerazione e la distruzione corporea sono incluse e rielaborate nel discorso pedagogico nazionale, ne costituiscono anzi uno dei tropi principali.

Se torniamo alla seconda illustrazione dalla Ghirba e testiamo su di essa i termini di Scarry, ci accorgiamo che, di fatto, qui non siamo in presenza di fenomeni di omissione (i corpi sono platealmente consunti e segnati dalla violenza subita), di rinominazione o di spostamento; al contrario l’enfasi sul registro deformante e grottesco finisce per avere un involontario effetto rivelatorio – la guerra produce abiezione – che viene disinnescato dalla cornice in cui l’immagine è collocata: quelli rappresentati sono nemici, creature ridotte a uno stato subumano e dunque da disprezzare. Le loro mutilazioni, i loro corpi deformati non hanno più alcun valore d’uso, se non che, nella rincorsa alla brutalizzazione del nemico, essi servono al rafforzamento del consenso.

Questo confronto sintetico tra le due illustrazioni, l’una orientata alla rimozione, l’altra all’esposizione del corpo ferito, dimostra come all’interno di uno stesso contenitore culturale strategie opposte di rappresentazione degli effetti della violenza convivessero in maniera coerente.[8] Il paradigma di Scarry incontra già in questo esempio il suo limite maggiore, quello di considerare il dolore irriducibile a ogni forma di espressione o rappresentazione. Questa idea è stata efficacemente contestata, tra gli altri, da Peter Fifield che, analizzando una serie di casi esemplari da Lawrence, Sacher-Masoch e Tolstoj, osserva come il dolore stesso sia una forma di rappresentazione[9] che trova esistenza nella relazione con l’altro.

Anche un’immagine destinata alla manipolazione politica dello spettatore può approssimarsi a esprimere sensazioni corporee sgradevoli e persino dolorose. Se togliessimo la vignetta di ambientazione viennese dalla cornice del giornale di trincea e provassimo a osservarla in sé faticheremmo a cogliere l’intento stigmatizzante della deformazione di quei corpi. Non è la deformazione stilistica in sé a togliere dignità di soggetto sofferente a quegli esseri umani rappresentati, altrimenti dovremmo considerare stigmatizzanti anche le tele di Otto Dix. È lo stile deformante combinato al contesto a rendere incontrovertibili l’intento e il significato di quell’immagine.

È possibile e, anzi, necessario analizzare le strategie formali e retoriche che testi e immagini della cultura di guerra utilizzarono per dare forma al contenuto primario dell’esperienza bellica, cioè infliggere e provare dolore fisico.[10] In particolare, per comprendere come alcuni dei testi del corpus della letteratura della prima guerra mondiale facciano i conti con la violenza subita e perpetrata, è necessario tenere presente lo sfondo su cui quei testi si collocano, cioè quella rete di materiali culturali entro cui circolano i contenuti fondamentali della pedagogia della nazione al tempo della guerra. Il quadro che emerge, come proverò a dimostrare, è fatto di continuità con alcuni nuclei del discorso pedagogico e propagandistico, di rifiuti e decostruzioni di quegli stessi nuclei, ma anche di alcune forme di cecità ideologica, cioè di una compresenza contestuale di continuità e rifiuto dei tropi della nazione in guerra.

 

2. Martirio e pedagogia nazionale

Gli scritti della breve stagione interventista propongono, da prospettive differenti, una continua variazione sul tema del corpo lacerato: dalle scene di esaltazione della violenza che, modellate sui manifesti futuristi, puntualmente appaiono nel corso del 1914 su Lacerba, alla retorica funeraria dei discorsi di d’Annunzio, le diverse espressioni del discorso interventista includono sempre al loro interno, implicitamente o esplicitamente, l’immagine del corpo smembrato. Il famoso pezzo di Papini Amiamo la guerra!, uscito a ridosso dell’inizio del conflitto, dismette i toni patriottici tradizionali e, attraverso un registro al tempo stesso violento e giocoso, fa della lacerazione fisica – agita e non subita – la spinta propulsiva alla partecipazione alla guerra:

Giorno per giorno si sgozza e si sbuzza, si sbudella e si sbrana; si spezza e si fracassa; si fucila e si mitraglia: si brucia e si bombarda.[11]

La dimensione profonda del combattimento, paradossalmente, emana dal testo senza cautele o censure. Siamo nei pressi dell’avanguardia dell’interventismo, per cui contenuti più scandalosi vengono espressi con maggiore libertà in funzione di un posizionamento distintivo all’interno della grande mappa del discorso interventista italiano.

Se ci spostiamo nella zona centrale dell’interventismo, che d’Annunzio occupa da protagonista, la celebrazione della violenza subita domina: al centro del rituale patriottico consumato a Quarto si trovano le membra lacere dei morti nelle guerre d’indipendenza:

Verso quella, verso quella risorgono gli eroi dalle loro tombe, delle loro carni lacerate si rifasciano, dell’arme onde perirono si riarmano, della forza che vinse si ricingono […]. Delle lor bende funebri noi rifaremo il bianco delle nostre bandiere.[12]

Più inquietante del tono esaltato di Papini, questo passo dell’orazione di d’Annunzio è esemplare nella sua capacità di ridurre l’apparato di simboli della pedagogia nazionale all’evidenza bruta del corpo morto pur mantenendo un’assoluta solennità sacrale: l’esistenza della nazione, rappresentata da una bandiera che ha bisogno di essere rammendata, riposa su schiere di corpi che non sono soltanto morti ma che hanno sofferto una violenza distruttiva e mutilante («carni lacerate»). La precisazione è fondamentale: il sacrificio patriottico non chiede genericamente vite ma ne pretende anche la distruzione violenta. La ferita, che rompe l’integrità corporea, è l’unica vera dimostrazione di adesione alla causa nazionale.

Entrambi questi esempi esprimono fantasie nate al riparo dalla violenza reale della terra di nessuno e delle trincee, in quella zona franca dove, in Italia, tra l’agosto del 1914 e il maggio del 1915 proliferarono discorsi che potevano permettersi di indulgere alla celebrazione della violenza perpetrata e subita. Quando la guerra comincia per davvero anche per l’esercito italiano, aumentano le cautele nell’esporre l’entusiasmo per l’esercizio della violenza, mentre la distruzione del corpo come espressione di fedeltà alla nazione diventa dispositivo retorico dominante. L’ibridazione con altri codici culturali si rivela essenziale per garantirne la circolazione.

Nell’orazione di Quarto, la cui sezione finale è modellata sulle anafore del discorso della montagna del vangelo di Matteo, d’Annunzio intercetta un motivo già centrale nella retorica patriottica risorgimentale[13] e ne enfatizza al massimo l’aura sacrale. Nell’ampia iconografia popolare del corpo ferito motivi e schemi narrativi della cultura cristiana e cattolica sono estremamente diffusi. Quello religioso costituisce un codice stilistico molto praticato nel discorso pubblico negli anni della guerra, soprattutto se declinato nei modi del sacrificio e del martirio. Esso si esprime in forme ‘spontanee’, come ad esempio accade nei libretti commemorativi che venivano pubblicati per iniziativa delle famiglie dei soldati morti,[14] ma fornisce stilemi e temi a materiali propagandistici diretti al fronte interno, come cartoline e manifesti, che miravano ad amplificare la dimensione sacrale della guerra e dunque giustificarne i sacrifici in termini di vite umane.

 Publio Morbiducci, Cartolina, 1916

In una cartolina del 1916, illustrata da Publio Morbiducci, un soldato morente si accascia tra le braccia di un compagno che gli regge la testa con delicatezza. L’iconografia della Pietà di Cristo è qui dominante. La morte e la lacerazione fisica, però, hanno una presenza puramente fantasmatica: il sangue, infatti, è evocato nei versi di Carducci posti nell’angolo in basso a destra, ma è soppresso dall’immagine vera e propria. Il corpo del soldato è perfettamente intatto e una distesa di neve immacolata gli fa da sfondo. Le ferite, paradossalmente, possono essere mostrate solo su corpi viventi e prestanti – come nel caso della prima vignetta dalla Ghirba – mentre da corpi morenti o morti vanno soppressi i segni evidenti di violenza, lacerazione e dolore fisico.

La citazione in calce è tratta da Cadore (1898), testo dedicato alla celebrazione di uno dei teatri d’azione della prima guerra d’indipendenza: «da’ nevai che di sangue tingemmo crosciate, macigni». È interessante notare come, parallelamente alla rimozione del sangue dall’immagine, la didascalia opera una seconda e più sottile rimozione. Se si vanno a vedere i versi di Carducci, ci si rende conto che la citazione è tagliata ad arte. La quartina da cui essa è tratta, incorniciata da trattini, mima la voce dei morti che chiedono vendetta sul nemico:

– Nati sopra l’ossa nostre, ferite, figliuoli, ferite
Sopra l’eterno barbaro:
da’ nevai che di sangue tingemmo crosciate, macigni,
valanghe, stritolatelo –

Quella che nella cartolina appare come una celebrazione del sangue versato – dunque del sacrificio e della violenza subita – si rivela parte di una incitazione alla violenza agita, alla stigmatizzazione e alla distruzione del nemico («eterno barbaro») con il concorso delle forze della natura. Occultando la dimensione della violenza perpetrata e estetizzando quella della violenza subita attraverso il contrasto cromatico tra il rosso del sangue e il candore della neve – invisibile agli occhi ma presentificato per via retorica – la cartolina condensa un elemento essenziale della propaganda bellica: più che uccidendo, è morendo e sacrificandosi che si può vincere la guerra. La sostanza reale del combattimento, il cui fine primario è l’annientamento fisico dell’altro prima ancora che la supererogazione di sé,[15] evapora a favore di una celebrazione del corpo morto sacrificatosi per la patria.

Non si comprende la varietà dei trattamenti del tema del corpo ferito nella letteratura della prima guerra mondiale senza prima riconoscere la potenza e la pervasività del legame che identifica la lacerazione fisica con la sopravvivenza del corpo simbolico della nazione. Al centro di ogni scrittura di guerra – quelle testimoniali, quelle finzionali, quelle popolari e naturalmente quelle propagandistiche – resta questo contenuto ineludibile. Occorre adesso sondare alcuni esempi.

 

3. Corpi rotti

Testi della produzione giornalistica, rivolti al fronte interno e più fedeli al dettato patriottico diffuso, fanno della ferita il segno della maschilità guerriera che si compie, proprio come accade nella prima illustrazione analizzata. In uno degli articoli che Matilde Serao raccoglie nel volume Parla una donna (1916), le ferite di un soldato in licenza diventano marche di grazia, bellezza e vitalità:

Questo qui è un graziosissimo sottotenente di fanteria che porta, sulla testa giovanile, ferita da una scheggia di granata, come un casco medievale, di stoffa nera, fermato con gli spilli di sicurezza: […] portato via, ferito, non ha potuto cambiarsi la divisa ed essa è macchiata di macchie brune, che sono sangue, che sono il suo sangue; ma che gli importa a questo briosissimo sottotenente, che ha appuntato, sulla divisa maculata, dei nastrini tricolori e dei fiori, e che si scusa di essere indecente?[16]

I dettagli apparentemente secondari di questa descrizione sono decisivi: la fasciatura, paragonata a un elmetto, evoca un’idea mitica di combattimento assimilabile alla cavalleria medievale e al suo sistema di valori; l’eleganza e la grazia del sottotenente, inoltre, sono enfatizzate dalla presenza della ferita e delle macchie di sangue, prove incontrovertibili del suo coraggio; infine, le macchie, mescolate a nastrini patriottici, originano dal suo sangue, ulteriore marca di supererogazione che rende il corpo del soldato oggetto e non soggetto di violenza e che dunque, ancora una volta, elide il contenuto fondamentale del fatto guerriero.

Poche pagine dopo, un altro soldato in licenza, senza nessuna ferita evidente, appare preoccupato dall’assenza di segni corporei che testimonino il suo coraggio sul campo di battaglia:

Questo altro non è ferito: ma è pallidissimo e, ogni tanto, impallidisce di più, come se svenisse. Egli è stato colpito da una granata, che conteneva chi sa quale gas asfissiante: si pensa, forse, del cloro. Colpito? Appena è scoppiata la granata, egli è caduto a terra, senza nessuna ferita, perdendo i sensi e risvegliandosi, molto ma molto più tardi, all’ospedale da campo. Non ricorda null’altro: soffre, adesso, ma molto meno, di un continuo senso di asfissia e di uno stordimento cerebrale. Ma soffre, sovra tutto, questo sottotenente, di non essere ferito, almeno, come i suoi compagni. Il pericolo che ha corso gli sembra stupido: la sua infermità, grottesca: le sue sofferenze che sono state serie e che perdurano, tanto da averlo inviato a guarirsi a Napoli, lo irritano profondamente. Gli pare una ingiustizia del suo destino, quella di non aver presa una pallottola di shrapnel, o una scheggia di granata, o una palla di fucile, in qualche parte del corpo: egli maledice la sua sorte, poiché torna, via, dal fronte, come una femminetta, dimenticando che egli ha rischiato la sua vita, egualmente, dimenticando o non apprezzando il supremo pericolo da cui è scampato, e da cui, dopo, lo hanno salvato. «Almeno fossi ferito».[17]

Il pallore non è un segno corporeo che, da solo, possa reggere la narrativa del coraggio e del sacrificio. Al contrario, non accompagnato da cicatrici che segnino la carne, esso rischia di far apparire il soldato come un uomo mancato («una femminetta») che non ha compiuto la propria formazione virile-guerriera. Un corpo che torna intatto dal fronte genera sospetti e mette persino in discussione l’identità di genere del soggetto.

Immagini e retoriche di questo tipo abbondano nella narrazione giornalistica della guerra così come nella produzione propagandistica, ma anche resoconti personali pubblicati dopo la guerra ne sono attraversati. I casi più interessanti si trovano in quei testi che rifiutano le narrazioni edulcorate della vita di trincea, degli assalti e della prigionia e ne scardinano le premesse pur non assumendo posizioni integralmente pacifiste. Diario di un imboscato (1919) di Attilio Frescura e Trincee (1924) di Carlo Salsa sono due dei memoriali che non solo con più crudezza raccontarono il conflitto, ma che più seppero mettere in questione la retorica patriottica e nazionalista e quei modelli di eroismo che, pur dominando nel discorso pubblico, non avevano nessuna corrispondenza con la realtà del combattimento nella guerra di posizione. Eppure, anche per questi scrittori, tra i più letti subito dopo la guerra, la ferita come violazione dell’integrità corporea costituisce un punto cieco, un vuoto che il linguaggio fatica ad afferrare.

Nel libro di Salsa, in cui le descrizioni crude abbondano, un soldato ferito è anzitutto presentato come un corpo pietrificato, che non ha nulla a che vedere con l’aggraziato e allegro soldato-cavaliere di Serao:

L’osservo: tra le bende, il suo volto è quello di certe statue decrepite e corrose fasciate di neve: rughe di sofferenza gli si aggrappano agli angoli della bocca e degli occhi. Pare curvato così da un pensiero enorme: adocchia a quando a quando obliquamente, senza sorridere del nostro riso, senza animarsi mai, senza intendere; torna dalla trincea, dall’oscuro mondo di laggiù. Piastre di fango gli sono ancora rapprese alle maniche, alla giubba: pare anche che del fango sia innestato nelle screpolature della pelle che ha l’appassimento delle foglie macere.
Le nostre parole inutili, le nostre risa melense, si fanno più rade: a poco a poco si tace tutti senza perché.[18]

Una spinta estetizzante abita questo passo: il volto del soldato è paragonato a un artefatto artistico («certe statue»), il cui aspetto sublime è enfatizzato dalla presenza della neve. L’immagine delle foglie, referente metaforico usato per descrivere la pelle screpolata, richiama un tropo di lunghissima durata che esprime il senso della fragilità della vita umana. Della ferita stessa non si dice nulla: è allusa dalla presenza delle bende e dall’espressione sofferente del soldato, ma non è localizzata e descritta direttamente. Nonostante la discontinuità evidente con immagini e narrazioni edulcoranti della violenza subita, Salsa si ritrae, almeno in questo passo, dagli aspetti più abietti del corpo ferito. La reazione dei soldati, che si ammutoliscono di fronte alla vista di questo corpo congelato nella sofferenza, fa da correlativo alla fatica e al pudore delle metafore.

In Diario di un imboscato l’associazione tra ferita, eroismo ed erotismo ritorna. L’io che scrive racconta la sua esperienza in un ospedale militare, dove viene ricoverato a causa di forti mal di testa. Il suo corpo, integro e privo di lacerazioni, lo mette in imbarazzo proprio perché non reca alcun segno di violenza subita. Proprio come nell’articolo di Serao, invece, un altro ufficiale con un’evidente ferita alla testa diventa subito oggetto di invidia:

È un bel figliuolo: alto, bruno, con folti capelli nerissimi che egli ha il vezzo di scuotere ad ogni tratto, con bella mossa leonina; spregiudicato, audace, capitano a ventidue anni e con una bella ferita alla fronte. Ed è uomo nato per essere felice, un uomo che deve sbarazzarsi degli ostacoli con dei buoni pugni, tutto solido e ben costrutto, denti aguzzi e la risata larga, piena, di chi non teme e ride con i precordi.[19]

Poche righe sotto si dice che tutti hanno un debole per questo ufficiale bello e ferito: siamo perfettamente sulla linea della prima illustrazione analizzata così come del passo da Serao, se non fosse che il tono ironico del narratore contribuisce ad aumentare l’ambivalenza di questa descrizione. Emerge infatti da una parte un’invidia reale nei confronti di questo corpo eroico e prestante anche perché lacero, e dall’altra la consapevolezza che esso incarni un paradosso insensato. Ora, questo assunto centrale della pedagogia nazionale viene decostruito, all’interno del libro di Frescura, da immagini alternative del corpo ferito, fatte di dettagli ravvicinati delle lacerazioni e accompagnate da una descrizione più realistica della loro fisiologia, come nel passo che segue:

E si avanza verso di noi un tragico uomo. La fasciatura, che egli si è composta, gli forma sulla testa un bizzarro turbante bianco e vermiglio. Cammina eretto, come un automa grottesco. […]
Ha le cervella che gli escono dalla fronte spaccata, raggrumate di sangue. Maschera orribile. Non lo dimenticherò più. Egli trema tutto. Ha lo sguardo che non vede. O vede cose spaventose. Balbetta:
- Non ho fatto niente di male io… - come un bambino che tema di essere percosso.
E si rivolta. Cammina eretto, impettito, col suo bizzarro turbante bianco e vermiglio. Vediamo che ritrova un pagliericcio e vi si accascia e il brivido della morte lo scuote tutto.[20]

Le bende, solitamente ben composte per occultare i segni della violenza sulla carne, sono qui allentate e scoprono brutalmente la spaccatura da cui sangue e cervello escono fuori. La potenza di questa immagine, il suo punctum, sta nel dettaglio del corpo che ancora si muove e trema nonostante la lacerazione orribile. Le associazioni con la virilità e il potere di attrazione sessuale, attive nel passo precedente, scompaiono, mentre le similitudini («come un automa», «come un bambino») tentano di ‘cicatrizzare’ l’evidenza spaventosa dell’integrità fisica violata. Per raccontare quel corpo occorre ʻinfantilizzarloʼ oppure accostarlo a un congegno non umano, come se la soglia tra la vita e la morte fosse già stata superata. Ciò che entrambe queste similitudini implicano è l’idea di un soggetto in stato di minorità, non più in possesso delle proprie facoltà né in controllo dei propri movimenti attraverso lo spazio. Se da una parte questo insieme di figure porta in primo piano un contenuto che nessun oggetto di propaganda avrebbe mai espresso, cioè che chi combatte è, per la natura stessa della guerra di posizione, un soggetto agito e spesso ridotto alla passività vera e propria, dall’altra anche in questo caso per afferrare e dire la ferita occorre trasporla. Una ferita non è mai solo una ferita.

Resta comunque il fatto che in entrambi questi esempi il nesso tra corpo ferito e sopravvivenza del corpo della nazione crolla, non ci sono raccordi con l’etica del sacrificio patriottico e nonostante le strategie retoriche di sublimazione nel caso di Salsa, e straniamento in quello di Frescura, questi corpi doloranti non subiscono spossessamenti e violenze ideologiche che ne cancellino l’individualità. Ciò che risulta più interessante è che questo rifiuto di uno dei principi fondanti del nazionalismo moderno, che rende il corpo maschile un materiale destinato alla distruzione in nome di un bene superiore, è espresso all’interno di testi che non sono, su un piano ideologico, anti-militaristi.[21] La guerra, se così si può dire, è criticata dall’interno ma non è mai messa integralmente in questione. Soprattutto nella sfera dei legami di amicizia e affetto che si instaurano tra i commilitoni l’esperienza del fronte viene ‘salvata’ come rito di passaggio all’età adulta o compimento dell’identità maschile.[22]

Cosa succede invece in quei testi letterari che esibiscono i propri fondamenti patriottici e nazionalisti? Come trattano il nesso tra distruzione del corpo e sopravvivenza del corpo della nazione?

 

4. La patria!

Il cuore di Pinocchio di Paolo Lorenzini, nipote di Carlo, è, nel panorama della letteratura per l’infanzia a tema bellico,[23] un testo di grandissimo interesse. Pubblicato nel 1917 da Bemporad, esso è chiaramente innervato da un intento propagandistico diretto al destinatario primario, cioè i lettori bambini, ma intenzionato a parlare a un pubblico più ampio a proposito di un aspetto centrale dell’esperienza al fronte, cioè la mutilazione. Già nel 1916, nel trattato-pamphlet Come si seducono le donne, Marinetti aveva rivolto un appassionato appello alle donne ad amare i corpi dei soldati mutilati. Nel suo romanzo autobiografico L’alcova d’acciaio, uscito dopo la guerra, un intero capitolo è dedicato a degli ufficiali mutilati che si scambiano effusioni con donne attratte proprio dai loro corpi integrati di parti metalliche artificiali.[24] In nessuno di questi casi si tratta di tentativi di normalizzare il fenomeno analoghi a quelli fatti attraverso cartoline o documentazioni fotografiche delle menomazioni fisiche dei reduci, che spesso appaiono intenti in attività quotidiane come il giardinaggio o lo studio.[25] L’interesse di questi testi, di natura molto diversa, sta nel fatto che pur inserendo la mutilazione e le lacerazioni fisiche all’interno di un discorso saldamente coerente con la pedagogia nazionale, essi producono un effetto perturbante e dimostrano una capacità non comune di osservare il corpo deformato dalla violenza del combattimento. Mi soffermerò solo sull’esempio di Pinocchio proprio perché, da opera liminare alla propaganda vera e propria, consente di mettere in discussione l’assunto che la sostanza della violenza bellica risulti, almeno nella cultura della prima guerra mondiale, irriducibile al linguaggio e alla rappresentazione.

L’idea di una riscrittura di Pinocchio in chiave patriottica non nasce probabilmente solo dall’incredibile popolarità del personaggio inventato da Collodi. L’ex burattino che ritroviamo ormai in carne e ossa conserva uno statuto umano e non umano al tempo stesso: è un bambino con un corpo originariamente modellato dal legno che ha raggiunto lo stadio umano solo dopo diverse trasformazioni e, dunque, si presta a rappresentare didascalicamente il dovere di prestare il proprio corpo alla causa nazionale ed esporlo alla violenza e alla deformazione. Se nel sistema morale manifesto del capolavoro di Collodi si considera l’esistenza da burattino come un percorso segnato dalla devianza e dall’errore, di cui il corpo artificiale costituisce un correlativo abitato da numerose ambivalenze e da una morale latente alternativa, Il cuore di Pinocchio rovescia questo assetto e ricodifica il soma del protagonista come laboratorio entro cui la perdita della carne e l’acquisizione di parti meccaniche testimoniano dell’adesione assoluta alla morale della nazione in guerra. Le avventure dell’ex burattino al fronte, infatti, sono scandite da una serie di episodi di combattimento che innescano una metamorfosi al rovescio da bambino a corpo meccanico.

Quando Pinocchio riporta la prima grave ferita e viene sottoposto all’amputazione di una delle gambe, poi sostituita da una protesi in legno, la descrizione della sua condizione fisica, pronunciata dal maggiore chirurgo che ha effettuato l’operazione, è estremamente asciutta e precisa:

La tua zampina?! Avevi il femore rotto, la tibia maciullata, la rotula in schegge… febbre a trentanove e mezzo, delirio, minaccia di cancrena gassosa… non potevo aspettare che tu fossi andato al diavolo per chiederti il permesso di amputarti… E poi, meno discorsi, io taglio quando ho il diritto di tagliare. Se, nonostante l’operazione la cancrena proseguisse, potrei amputarti anche l’altra gamba.[26]

Sintomi, stato delle ossa e analisi dei rischi sono elencati in maniera puntuale e strettamente referenziale, senza metafore o avverbi che intervengano a mediare o enfatizzare la rappresentazione della carne lacerata. L’espressione «meno discorsi» segnala, a livello metadiscorsivo, la necessità di ridurre il linguaggio a una sorta di grado zero, così come l’affermazione brutale «io taglio quando ho il diritto di tagliare» rende manifesto, senza censure, il potere sovrano che la patria esercita, attraverso la figura di un ufficiale, sui corpi dei singoli, spossessati e ridotti alla passività non solo dalla violenza nemica ma anche, soprattutto, dal patto implicito col corpo superiore della nazione.

Gli episodi di mutilazione nel libro non riguardano solo Pinocchio ma anche il personaggio del Bersaglierino, cui viene amputato un braccio. Come nel passo precedente, la descrizione del corpo del soldato segnato dalla violenza, pronunciata davanti al re, è referenziale e dettagliata:

Maestà, era uno dei più gravi. Il braccio sinistro asportato da una scheggia di granata, ferita da taglio alla fronte con minaccia di lesione all’occhio, ferita di arma da fuoco al terzo medio superiore, altra all’inguine con lesione dell’intestino. Operato di laparotomia, di amputazione dei residui del braccio, sutura della regione occipitale.[27]

Anche qui lesioni e fasi dell’intervento chirurgico vengono riferite con uno stile nominale e tecnico, proprio come se si trattasse di un referto. A differenza del caso di Pinocchio, però, il narratore tratta l’episodio di mutilazione del Bersaglierino con un registro patetico:

Dopo mi manderanno via di qui, e tornerò a viver solo come un cane… a lottare per la vita di tutti i giorni. Chi godrà del premio che la Patria mi conferisce per mano del Re? Nessuno. Un giorno, forse, dovrò appuntarmi quella medaglia sul petto, per evitare il dileggio dei ragazzi di strada, al povero storpio che andrà suonando l’organetto per le vie.[28]

Mentre sul corpo dell’ex burattino, umano e già non umano, il narratore può esercitare una maggiore libertà creativa e stilistica, su quello del soldato in carne e ossa si pratica una evidente cautela e si calca con più decisione il pedale didascalico. Due sono i contenuti che, attraverso le vicende di questa figura, si vogliono convogliare: la difficoltà per i reduci mutilati di tornare alle proprie vite civili e il senso di inutilità che la mutilazione produce rispetto ai propri doveri di fronte alla patria. Mentre il primo contenuto ha un fondamento reale, il secondo è manipolato in direzione propagandistica: al Bersaglierino, ormai in congedo, è infatti affidata una sintesi delle ragioni dell’intervento italiano,[29] che condensa tutti i principali nuclei del discorso nazional-patriottico ed è reso più efficace proprio perché pronunciato da chi ha ceduto pienamente il proprio corpo, fino alla fine, al bene astratto della comunità nazionale.

Il fascino di questo testo, che pure indulge a stucchevoli tirate di celebrazione della patria e dell’esercito e a una rappresentazione ultra-idealizzata dell’eroismo guerriero, sta nel fatto che, nonostante la manipolazione evidente, alcuni dei contenuti meno potabili della pedagogia nazionale vengano fuori privi di troppe edulcorazioni. La dimensione biopolitica della partecipazione al conflitto, dunque, emerge nel suo aspetto più brutale: l’idea che il corpo sia un materiale liquidabile e interamente appartenente a un’entità astratta che può disporne come meglio crede è presente più o meno esplicitamente in ogni pagina del libro ed è proprio il corpo di Pinocchio, che progressivamente si trasforma in un congegno meccanico, a diventare allegoria di questo spossessamento.

Nelle ultime pagine del testo, che sembrano riscrivere e rovesciare consapevolmente il finale delle Avventure di Pinocchio, abitate sinistramente dal burattino ormai inanimato, il corpo di Pinocchio, letteralmente fatto a pezzi e riassemblato con parti artificiali, viene restituito a Geppetto in una cassetta di legno foderata all’interno da una imbottitura di raso. Ancora prima di aprire questo sostituto della bara, il vecchio esprime delusione, perché crede che sia stato il cattivo comportamento di Pinocchio a farlo regredire a uno stadio non più umano: «Lo dicevo io che quel birbante non sarebbe mai stato capace di mantenersi un ragazzino perbene!».[30] Una volta aperta la cassetta-bara, Geppetto si rende conto che il problema di Pinocchio non è più l’aver perso le fattezze da bambino ma l’essere ridotto a un insieme di parti meccaniche che non hanno niente a che vedere con la sua creazione artigianale in legno. Si produce dunque uno spostamento significativo: non è più il confine tra umano e non umano a valere ma quello tra artigianale e industriale:

Su di una soffice imbottitura di raso celeste era disteso Pinocchio, che le lunghe sofferenze avevan ridotto secco e piccino come quando…. c’era una volta. Aveva gli occhi chiusi come se dormisse, ma la sua bocca sorrideva di un risolino fine fine, e pareva che le sue labbruzze fossero leggermente scosse da uno strano convulso.
- Ah! Fatina, Fatina!! Ma chi l’ha ridotto in questo modo il mio povero burattino? Che diamine sono tutti questi meccanismi, e queste diavolerie? Io l’avevo fatto di legno, tutto di legno…. e così bene che nessuno era stato mai capace di imitarlo…. Perché hai lasciato che me lo conciassero in questo modo? Non era meglio che tu l’avessi lasciato UN RAGAZZINO PERBENE piuttosto di riportarmelo in questa maniera?[31]

Non solo dunque la transizione del corpo verso una condizione postumana viene presentata come conseguenza inevitabile della partecipazione al conflitto, ma emerge anche la natura industriale e anonima del combattimento, che produce corpi seriali, modificati e privi di singolarità. Il legno si oppone pertanto a tutti i materiali ‘freddi’ elencati nella descrizione che segue:

E vide le gambe meccaniche articolate, vide le braccia snodate con l’anima di acciaio e le mani a tenaglia, vide le larghe piastre d’argento che sostituivano le costole del petto…. ammirò tutta quella meccanica moderna, ma non era punto soddisfatto. A lui, povero vecchio, gli piaceva più il su burattino di legno, tutto di legno fin nel midollo…. In quello non riconosceva più il suo Pinocchio.[32]

Il fatto che Geppetto non riconosca la sua creatura, deformata dall’acciaio, l’argento e le tenaglie, esprime il senso di straniamento di fronte alle mutilazioni inedite che la guerra aveva prodotto. La risposta della fatina alla domanda di Geppetto su chi abbia ridotto così Pinocchio – «La patria, vecchietto mio» – è, nella sua evidenza, disarmante: è letteralmente la patria ad averlo fatto a pezzi. Il cerchio si chiude e la pedagogia della nazione qui convocata svela apertamente il suo contenuto primario: non si muore semplicemente in nome della patria, ma è la patria, prima ancora che il nemico, che lacera, distrugge e uccide i corpi dei propri cittadini maschi. L’immagine finale di Geppetto che si commuove sentendo che dentro quell’ammasso di pezzi metallici batte ancora un cuore umano edulcora in maniera sinistra questo assunto.

In un testo che aderisce perfettamente al credo nazional-patriottico, si prefigge una finalità didattica e, dato il suo destinatario, annulla le sfumature e opta per una comunicazione il più possibile diretta del suo messaggio principale, l’immagine del corpo sofferente assume contorni spiazzanti. Le scritture propagandistiche o comunque impegnate attivamente sul fronte della mobilitazione culturale non sono semplicemente il luogo dove il dolore del corpo lacero è rimosso o estetizzato, ma possono anche diventare sede di una enunciazione diretta del principio della sovranità assoluta che la nazione esercita sul corpo dei soldati.

 

 


1 La Ghirba, 10, 9 giugno 1918, p. 6, ˂http://www.14-18.it/periodico/LO10385855/1918/n.10/87˃.

2 Ho analizzato l’idea della maschilità che si compie sul campo di battaglia in C. Savettieri, ‘Maschile plurale: genere e nazione nella letteratura della Grande Guerra’, Allegoria, XXVIII, 74, luglio/dicembre, 2016, pp. 9-40. Ho tenuto conto inoltre di A. G. Ricca, ‘Figure della mascolinità nell’immaginario della Grande Guerra’, in L. Guidi (a cura di), Vivere la guerra. Percorsi biografici e ruoli di genere tra Risorgimento e primo conflitto mondiale, Napoli, ClioPress, 2007; M. Mondini, ‘The Construction of a Masculine Warrior Ideal in the Italian Narratives of the First World War, 1915-68’, Contemporary European History, 23, 3, 2014, pp. 307-327; Id., La guerra italiana. Partire, raccontare, ritornare 1914-18, Bologna, il Mulino, 2014, pp. 161-268; L. Benadusi, Ufficiale e gentiluomo. Virtù civili e valori militari in Italia, 1896-1918, Milano, Feltrinelli, 2015. Ho inoltre tenuto conto del fondamentale studio di J. Bourke, Dismembering the Male: Men’s Bodies, Britain and the Great War, London, Reaktion, 1996, che però è centrato unicamente sul contesto britannico.

3 Su questo si veda A. M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2011. Per un quadro transnazionale si vedano almeno G. Mosse, L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Torino, Einaudi, 1997 e Id., Sessualità e nazionalismo. Mentalità borghese e rispettabilità, Roma-Bari, Laterza, 2011; I. Blom, K. Hagemann, C. Hall, Gendered Nations. Nationalism and Gender Order in the Long Nineteenth Century, Oxford e New York, Berg, 2000; S. Dudink, K. Hagemann, J. Tosh (a cura di), Masculinities in Politics and War. Gendering Modern History, Manchester e New York, Manchester University Press, 2004; A. M. Banti L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra, Torino, Einaudi, 2005.

4 Sui giornali di trincea si veda lo studio di M. Isnenghi, Giornali di trincea (1915-1918), Torino, Einaudi, 1977. Il più completo archivio digitale che conserva giornali di trincea si trova nel sito www.1914-1918.it al seguente url: ˂http://www.14-18.it/giornali-di-trincea˃.

5 Sulle disposizioni estremamente repressive dell’esercito italiano si veda lo studio monumentale di G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella prima guerra mondiale, Torino, Bollati Boringhieri, 2000. Fornisce un quadro sintetico M. Mondini, La guerra italiana, pp. 144-160.

6 Sulla gestione del morale dell’esercito durante la prima guerra mondiale si veda W. Wilcox, Morale and the Italian Army during the First World War, Cambridge, Cambridge University Press, 2016.

7 Cfr. E. Scarry, The Body in Pain. The Making and Unmaking of the World, Oxford e New York, Oxford University Press, 1985.

8 Barbara Bracco parla di «costruzione polisemica del corpo mutilato» nel suo bel saggio ʻIl mutilato di guerra in Italia: polisemie di un luogo crudeleʼ, Memoria e ricerca, n. 38, settembre-dicembre 2011, pp. 9-24 (p. 11). Un analogo principio di polisemia può essere utilmente riferito al corpo ferito.

9 Cfr. P. Fifield, ‘The Body, Pain and Violence’, in D. Hillman, U. Maude (eds.), The Cambridge Companio to the Body in Literature, Cambridge, Cambridge University Press, 2015, p. 129: «Rather than antithetical to language, as Woolf and Scarry have influentially argued, it emerges from and is constituted by a form of representation. As such, it is, I suggest, an experience particularly suited to literary depiction. It can, in certain cases, offer a challenge to writers who would aim to find a language in and for pain, and can also catalyse developments in plot, character and interpersonal relations».

10 Sul tema del corpo nella cultura della Grande Guerra si veda il fascicolo monografico Il corpo violato. Sguardi e rappresentazioni nella Grande Guerra, a cura di T. Bertilotti, B. Bracco, Memoria e ricerca, n. 38, settembre-dicembre, 2011, in particolare il già citato saggio di B. Bracco, ‘Il mutilato di guerra’, pp. 9-24 e quello di V. Wilcox, ‘Tra testo e corpo: l’esperienza fisica della Prima guerra mondiale negli scritti dei soldati’, pp. 25-40. Si veda inoltre il recente T. Artico (a cura di), Essere corpo. La prima guerra mondiale tra storia e letteratura, Padova, Lint, 2016.

11 G. Papini, ‘Amiamo la guerra!’, Lacerba, II, 7, 1914, p. 274.

12 G. d’Annunzio, Orazione per la sagra dei mille, in Per la più grande Italia. Orazioni e messaggi, Milano, Treves, 1920, pp. 13-33, p. 17.

13 La bibliografia sulla centralità del culto dei morti nella cultura risorgimentale e oltre è molto vasta. Mi limito a segnalare, oltre al già ricordato Sublime madre nostra di Banti, R. Balzani, ‘La ricerca della morte utile’, in O. Janz, L. Klinkhammer (eds.), La morte per la patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Repubblica, Roma, Donzelli, 2008.

14 Cfr. L. Benadusi, Ufficiale e gentiluomo, pp. 171-173.

15 Si veda a questo proposito il libro fondamentale di J. Bourke, An Intimate History of Killing. Face to Face Killing in 20th Century Warfare, New York, Basic Books, 2000. Inoltre, sulla violenza nella prima guerra mondiale si vedano J. Keegan, The Face of Battle, London, Jonathan Cape, 1976; S. Audoin-Rouzeau, A. Becker, La violenza, la crociata, il lutto. La Grande Guerra e la storia del Novecento, Torino, Einaudi, 2000; A. Kramer, Dynamic of Destruction: Culture and Mass Killing in the First World War, Oxford, Oxford University Press, 2009.

16 M. Serao, Parla una donna. Diario femminile di guerra. Maggio 1915-Marzo 1916, Milano, Treves , 1916, p. 63. Su Parla una donna si veda S. Zangrandi, ʻUna donna che parla alle donne: la prima guerra mondiale vista da Matilde Serao in «Parla una donna»ʼ, Cuadernos de Filología Italiana, 22, 2015, pp. 195-214.

17 M. Serao, Parla una donna, p. 65.

18 C. Salsa, Trincee. Confidenze di un fante [1924], Milano, Mursia, 2013, p. 21.

19 A. Frescura, Diario di un imboscato, Vicenza, Galla Editore, 1919, p. 52.

20 Ivi, pp. 73-74.

21 Per una discussione delle molteplici sfaccettature del rapporto tra pedagogia nazionale e maschilità nella letteratura di guerra rimando al mio saggio Maschile plurale, già citato sopra, in particolare alle pp. 20-25.

22 Individua nella valorizzazione del male-bonding uno dei tratti dominanti della memorialistica di guerra M. Mondini che, in La guerra italiana, definisce quella del fronte come «un’esperienza etica» di «scoperta (o riscoperta dei canonici valori del guerriero: coraggio e forza, certamente, misura del proprio essere (o divenire) uomini (cioè maschi) veri, ma soprattutto lealtà, amicizia, spirito di sacrificio, in una parola cameratismo» (p. 178).

23 Si è occupato del fenomeno, tra gli altri, A. Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Torino, Einaudi, 2005. Il caso del Cuore di Pinocchio è analizzato alle pp. 58-59. Si vedano inoltre W. Fochesato, Raccontare la guerra. Libri per bambini e ragazzi, Milano, Interlinea, 2011 (alle pp. 53-55 dedicate al Cuore di Pinocchio) e F. Caffarena, ʻ25 dicembre 1917. All’armi siam burattiniʼ, in Atlante della letteratura italiana, a cura di S. Luzzatto e G. Pedullà, vol. III, Dal Risorgimento a oggi, Torino, Einaudi, 2012, pp. 490-493.

24 Ho analizzato questo aspetto dell’Alcova d’acciaio e di Come si seducono le donne in Maschile plurale, pp. 29-32.

25 Cfr. A. Gibelli, ʻLa nazione in armi. Grande Guerra e organizzazione del consensoʼ, in L’Italia del Novecento. Le fotografie e la storia, I: Il potere da Giolitti a Mussolini (1900-1945), Torino, Einaudi, 2005, pp. 38 sgg. Esempi come quelli ricordati si trovano nell’archivio digitale ˂www.14-18.it˃.

26 P. Lorenzini, Il cuore di Pinocchio [1917], Firenze, Bemporad, 1923, p. 83.

27 Ivi, p. 104.

28 Ivi, p. 95.

29 Ivi, pp. 177-178.

30 Ivi, p. 229.

31 Ivi, pp. 229-230.

32 Ivi, p. 232.