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La fotografia familiare ha largo impiego all’interno dei testi autobiografici, assumendo di volta in volta significati specifici: spesso è la fotografia di infanzia a essere vettore di attivazione della memoria, in grado come è di sospendere il racconto e di sfaldare i limiti della rappresentazione. La foto di infanzia rimanda in modo diretto alla famiglia: essa è infatti in primo luogo una rappresentazione eterodiretta del soggetto che in essa si percepisce, sostanzialmente, come altro da sé. Non è un caso, forse, che nei first persondocumentary, la messa in discussione dell’universo familiare e del territorio dell’infanzia passi in primo luogo dalla negazione della sua rappresentazione, che si esprime nell’archivio privato e mettendo deliberatamente in discussione anche le figure genitoriali. La rilevanza centrale della famiglia è presente in numerosi lavori, come Daughter Rite (1980) di Michelle Citron, esperienze maggiormente sperimentali come Fatheraudition (2019) di Mike Hoolboom, infine testi più recenti che riflettono sull’autorappresentazione nei contesti digitali, come avviene in Be right Back (2013), episodio della serie televisiva Black Mirror, in cui la componente narrativo-autobiografica è esplorata in relazione ai fenomeni delle identità digitali e all’utilizzo dell’intelligenza artificiale. In ognuno di questi casi si mette in discussione la presunta veridicità dell’immagine fotografica, mentre si verifica una mancanza di corrispondenza fra esperienza soggettiva e materiali prodotti nel contesto intimo. Questi ultimi sono il risultato di una selezione della realtà familiare edi scelte che esulano dalla volontà del soggetto autobiografico e che, retrospettivamente, gli appaiono imposte.

Family photography is widely used within autobiographical texts, assuming specific meanings: it is especially childhood photography that acts as a vector for activating memory, as it is capable of suspending the story of the film and breaking down the limits of representation. Childhood images refer directly to the family: it is first of all a representation of the subject as view from the outside. It is perhaps no coincidence that in first person documentaries, the visitto the family universe and to the territory of childhood passes from the negation of the representation of childhood as it is preserved in the private archive. The central relevance of family and childhood is present in numerous works, such asDaughter Rite (1980) by Michelle Citron, or in more experimental films such as Father audition (2019) by Mike Hoolboom, and in recent texts that in various forms reflect on self-representation in digital contexts, as it happens in Be right Back (2013), episode of the Black Mirror television series, in which the narrative-autobiographical component is explored in relation to the phenomena of digital identities and the use of artificial intelligence. In each of these case studies, the presumed truthfulness of the photographic image is doubted, while there is a lack of correspondence between subjective experience and the materials produced in the intimate context. The latter are the result of a selection of the family reality and, in any case, a result of imposed choices that the autobiographical subject, retrospectively, seems to refuse.

 

 

1. Immagini private e scrittura di sé

La fotografia ha largo impiego all’interno dei testi autobiografici, assumendo di volta in volta significati specifici: spesso è la fotografia di infanzia a essere vettore di attivazione della memoria, in grado come è di sospendere il racconto e di sfaldare i limiti della rappresentazione. La foto di infanzia rimanda in modo diretto alla famiglia: essa è infatti in primo luogo una rappresentazione eterodiretta del soggetto che in essa si percepisce, sostanzialmente, come altro da sé. Non è un caso, forse, che nei first person documentary, la messa in discussione dell’universo familiare e del territorio dell’infanzia passi in primo luogo dalla negazione della sua rappresentazione, che si esprime nell’archivio privato e mettendo deliberatamente in discussione anche le figure genitoriali. L’immagine dovrebbe instaurare con il soggetto una relazione referenziale, simile a quella della presunta ‘verità’ di ogni autobiografia; come scrive Douglas «le fotografie, come la scrittura autobiografica, sono comunemente associate alla verità e all’autenticità: un mezzo per accedere al passato e per costruire narrazioni su storie personali e collettive».[1] La rilevanza centrale di tali storie collettive, e in particolare della famiglia è presente in numerosi lavori, come Daughter Rite (1980) di Michelle Citron, esperienze maggiormente sperimentali come Father audition (2019) di Mike Hoolboom, infine testi più recenti che in varie forme riflettono sull’autorappresentazione nei contesti digitali, come avviene in Beright Back (2013), episodio della serie televisiva Black Mirror, in cui la componente narrativo-autobiografica è esplorata in relazione ai fenomeni delle identità digitali e all’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Nei primi due casi citati, tutti declinati dal cineasta alla prima persona, il film opera l’apertura di un album familiare, servendosi del recupero e del riutilizzo di materiali prodotti all’interno del contesto domestico, come fotografie e home movies. Nell’ultimo esempio, diversamente, la riflessione sull’autorappresentazione prende le forme del racconto di finzione, interrogandosi sulla relazione fra inattendibilità dell’immagine fotografica e nuovo scenario digitale. In ognuno di essi, in ogni modo, si mette in discussione la presunta veridicità dell’immagine fotografica, mentre si verifica una mancanza di corrispondenza fra esperienza soggettiva e materiali prodotti nel contesto intimo. Questi ultimi sono il risultato di una selezione della realtà familiare e, in ogni caso, di scelte e opportunità che esulano dalla volontà del soggetto autobiografico e che, retrospettivamente, gli appaiono imposte. La visione delle immagini di infanzia diviene così occasione per rivalutare il legame filiale, imprimendo su di essa la propria soggettività adulta.

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  • Arabeschi n. 15→

 

Il proposito di questo libro è di iniziare nel mezzo

nel groviglio tra passato e presente; e accettare la complessità che tale decisione comporta

in ogni analisi della moderna cultura dei media.

Jussi Parikka

 

A sette anni dall’edizione inglese arriva in Italia, grazie alla traduzione di Enrico Campo e Simone Dotto, il volume Media Archeology del teorico finlandese Jussi Parikka, che, insieme a Media Archeology: Approaches, Applications, and Implications pubblicato nel 2011 con Erkki Huhtamo, prova a sintetizzare il retroterra, le costanti tematiche e i nuovi metodi che da questa area di ricerca emergono.

Il volume costituisce un utile avviamento agli studi media-archeologici che, come spiega l’autore nell’introduzione, analizzano la dimensione ‘materiale’ dei media riletta, seguendo Kittler, dal punto di vista tecnologico ed empirico. Sembrerebbe un ritorno al determinismo, ma, come mostra anche la prefazione di Ruggero Eugeni, i capitoli propongono da diversi punti di vista un riesame dei media nell’accezione ampia e meno visibile di ‘dispositivi’: termine che ricorre nel libro indicando i media come device, cioè apparecchi fisici, ‘artefatti’, costruzioni prodotte da un intreccio di saperi e poteri che mutano nello spazio e nel tempo, ‘apparati’, che plasmano il nostro modo di sentire e pensare, e ‘situazioni’ cioè atti, momenti di interazione comunicativa (pp. 18-20). L’oggetto di studio media-archeologico, scrive Parikka, non è rappresentato solo dalle ‘cose’ ma anche dai discorsi, dalle pratiche e dalle rappresentazioni che rivelano i modi con cui elaboriamo i nostri «sistemi mediali» sotto forma di «relazioni sociali» e «reti di comunicazione» (p. 100). Di qui il sottotitolo della traduzione italiana.

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Pubblichiamo il primo di una serie di approfondimenti dedicati agli archivi e alle biblioteche d’autore, che raccolgono documenti eterogenei, appartenenti a codici e linguaggi differenti e chiamano in causa competenze multidisciplinari e conoscenze integrate.

 

1. Le biblioteche d’autore

Le criticità e le questioni connesse alla gestione degli archivi e delle biblioteche d’autore sono ormai da tempo al centro delle riflessioni della Commissione nazionale biblioteche speciali, archivi e biblioteche d’autore dell’Associazione italiana biblioteche.[1]

Fin dalle prime iniziative promosse dalla Commissione nazionale, l’attenzione è stata focalizzata sulla ricerca di una definizione unitaria di biblioteca d’autore; nel corso degli anni Attilio Caproni ha proposto diverse riflessioni sul tema, avviando di fatto il dibattito,[2] ma recentemente è stata Giuliana Zagra a evidenziare e a sottolineare, in diverse sedi, le specificità di queste raccolte.[3]

Nella seconda metà del Novecento si è iniziato a registrare un interesse nei confronti delle raccolte moderne e contemporanee appartenute agli autori, soprattutto letterati, e l’interesse per le biblioteche si è sviluppato insieme alla consapevolezza che ogni raccolta, se adeguatamente studiata e analizzata, riesce a restituire non solo la personalità, le attività di studio e quelle di ricerca del suo possessore, ma anche l’intero contesto culturale nel quale egli è vissuto e ha operato. La biblioteca d’autore consente, quindi, di offrire materiali vari a chi sia interessato ad approfondire l’intero quadro di riferimento in cui si è formato il suo possessore.

L’interesse per questa tipologia di biblioteche, collezioni inizialmente private, ha fatto emergere, oltre alle specificità e alle possibilità offerte dallo studio, anche le numerose criticità a esse connesse, relative soprattutto alla gestione e alla valorizzazione in chiave archivistica, bibliografica e biblioteconomica, museale.

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Dario Fo, premio Nobel per la letteratura nel 1997, se n’è andato lo scorso 13 ottobre, proprio nel giorno in cui veniva assegnata l’onorificenza per l'edizione 2016. La rivista Arabeschi attraverso la recensione del volume Il teatro a disegni di Dario Fo con Franca Rame vuole ricordare il rapporto teatro-pittura che contraddistingue, in un continuo gioco di rimandi, l’itinerario poliedrico e creativo di Fo, capace di inventare una lingua per ogni Arte.

Il bel volume edito da Scalpendi nel 2016, Il teatro a disegni di Dario Fo con Franca Rame, documenta e analizza un aspetto importante e innovativo del lavoro artistico di Dario Fo: la progettazione degli spettacoli teatrali e televisivi mediante sequenze di disegni che riguardano anche le situazioni sceniche e le azioni dei personaggi. Una sorta di storyboard, un canovaccio visivo, che racconta lo sviluppo drammaturgico dei suoi spettacoli e che serve per costruire il testo teatrale. Il volume presenta un ricco corredo iconografico e scientifico: le bellissime foto di scena, dello studio meneghino e non solo, i contributi di Franco Marrocco, Jacopo Fo, Stefano Benni, oltre che di Marisa Pizza (responsabile dell’Archivio Franca Rame - Dario Fo) e del regista e drammaturgo Andrea Balzola, e si offre pertanto come un viaggio appassionante all’interno del mondo dell’autore. Tra i materiali di accompagnamento si segnala anche un video che presenta un montaggio tra il dialogo insieme a Rame con Balzola, una lezione-performance artistica a Brera, un dialogo con Benni nella grande mostra al Palazzo Reale, il dettaglio dei bozzetti e i brani degli spettacoli corrispondenti, e due contributi sulla dimensione sonora e musicale dell’atto scenico contenuta nei disegni (Roberto Favaro) e sul lavoro della Sartoria Pia Rame per la realizzazione dei costumi teatrali dai bozzetti di Fo (Sara Mancinelli).

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«Theatre it’s the medium of the between»:[1] per Rebecca Schneider il teatro è un luogo di sovrapposizioni, di scarti, di intersezioni. Questa dimensione del ‘tra’ fa sì che ogni atto teatrale dischiuda un varco fra presente e passato, fra istanze espressive differenti, giungendo infine a disseminare tracce, memorie (im)palpabili. Gli amabili resti conservati negli archivi, lungi dall’essere oggetti inerti, sono scorie performabili, capaci di «sussurrare storie», di «dar vita a interpretazioni e sentieri».[2]

Basta sfogliare il volume Giovanni Testori e Luchino Visconti. L’Arialda 1960 (Scalpendi 2015) per capire quanto il racconto di uno spettacolo sia insieme una testimonianza e un’opera di re-invenzione. Federica Mazzocchi ricostruisce con meticolosa precisione e piglio filologico le vicende dell’Arialda di Testori per la regia di Visconti, vero e proprio ‘caso’ nel cuore dell’Italia del boom economico. A far notizia è innanzitutto la collaborazione fra lo ‘scrivano lombardo’ e il regista aristocratico; il loro fu uno scambio intellettuale di grande spessore, fatto di incontri, di lettere, di strappi violenti ma sempre sostenuto da una fervida passione. Mazzocchi dedica il primo capitolo del suo studio alla ricomposizione delle «tracce di lavoro» (p. 15) tra i due: la fitta interrogazione dei documenti consente alla studiosa di restituire l’intensità del loro modus operandi, la vocazione per un’idea di arte come scandalo, la reciprocità di intenti – almeno fino al 1972. Poco prima della frattura, dovuta a incomprensioni sul piano professionale e personale, Testori scrive un dattiloscritto di cinquantaquattro pagine, rimasto inedito, dedicato alla vita e alle ragioni dell’arte del regista;[3] si tratta di «una sorta di biografia poetica» (p. 16), il cui fascino risiede «nell’edificazione, potremmo dire in diretta, del monumento-Visconti» (p. 17). I densi brani citati danno prova non solo dell’intrinseca qualità della parola testoriana, ma anche della peculiare disposizione del suo sguardo, capace di cogliere – per singolare esercizio di autoriflessione – i nessi tra matrici stilistiche e «affetti segreti».

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In occasione della giornata di studi La memoria dell'effimero pubblichiamo una densa testimonianza di Andrés Neumann.

Trovarsi nel posto giusto al momento giusto può essere questione di fortuna, ma saper sfruttare l'occasione richiede intuito, talento imprenditoriale e molta curiosità.

In questa intervista Andrés Neumann racconta gli inizi della sua carriera in Uruguay, la formidabile esplosione creativa del Festival di Nancy negli anni Settanta e la sua collaborazione con i più importanti artisti della scena del novecento: Peter Brook, Pina Bausch, Tadeusz Kantor, Bob Wilson, ma anche Mastroianni, Fo e Gassman di cui propone un ritratto inedito.

D: Parlami un po' di te: come ti sei avvicinato al teatro negli anni in cui vivevi a Montevideo?

R: In realtà io non ho deciso niente, penso che sia stato il teatro in un certo senso a decidere che potevo essere utile. Queste cose hanno normalmente un inizio molto pratico: io avevo un grande interesse soprattutto per il cinema, ma a vent'anni avevo una fidanzata (con la quale poi mi sono sposato) che era maestra di francese e faceva parte di una compagnia teatrale che metteva in scena spettacoli in lingua francese... in Uruguay. Quindi quanto di più improbabile ci potesse essere! Il professore della Alliance Francaise di Montevideo che animava questa compagnia, visto che io andavo sempre a prenderla alle prove ma arrivavo un po' prima e stavo lì a guardare, ad un certo punto mi ha detto: «Scusa, invece di stare seduto lì, vieni a darci una mano anche tu!». Mi ha messo in mano uno di questi registratori dell'epoca, quelli con i nastri, e mi ha dato istruzioni: «Guarda, c'è una scena dove ad un certo punto entra qualcuno e c'è un nastro dove si sente il rumore di una porta che fa "gniiiiiiee" e tu al momento giusto lo mandi» e così ho cominciato.

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