Il 14 novembre 2015 è andato in scena al Teatro delle Briciole di Parma Trincea, lo spettacolo teatrale scritto e interpretato da Marco Baliani, per la regia di Maria Maglietta. Appartenente al genere del teatro di narrazione, Trincea mette in scena il corpo di un soldato semplice a contatto con la brutale matericità della Grande Guerra. Lontano da ogni didascalismo o nozionismo scolastico, lo spettacolo inchioda lo sguardo attonito dello spettatore dinanzi a un grottesco campionario degli effetti che il conflitto produsse su corpi ridotti, costretti e annichiliti negli angusti spazi di trincea.

Lo spazio scenico è costituito da una piattaforma leggermente inclinata, dietro la quale si innalza un fondale di eguale superficie, che presenta due botole. Da una di queste entra in scena il soldato-Baliani, che incarna nel corso dello spettacolo diverse figure di coscritto: i pensieri a cui dà voce non appartengono a una sola coscienza, ma a una polifonica molteplicità di punti di vista resa attraverso una struttura narrativa a episodi (ne abbiamo individuati sei), brevi trucioli di vita inframmezzati dall’intensificarsi del martellante tappeto musicale e dall’alternarsi delle immagini sullo sfondo (musica e immagini sono a firma di Mirto Baliani).

L’attore-narratore si muove entro un ristretto spazio scenico e gli oggetti con cui interagisce sono un fucile-baionetta (simile a un Carcano mod. 91), una vanga, e il suo interlocutore, un cadavere di soldato ormai mummificato incarnato da un manichino, al quale confida le proprie angosce, evidente allusione a Veglia di Giuseppe Ungaretti. Plurimi sono i riferimenti a capolavori letterari di ambientazione bellica: non solo il soldato attaccato alla vita nel primo Ungaretti di Allegra di naufragi (1916), ma anche il clima nauseabondo della trincea testimoniato in Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque (1929), il pacifismo di cui si fa portatore Soldato Schlump (1928) di Hans Herbert Grimm, l’ingenua euforia a favore della guerra de La paura di Chevallier, il variegato affresco militare tracciato da Federico De Roberto in La paura e altri racconti della Grande Guerra (1921) e da Carlo Salsa in Trincee – confidenze di un fante (1924). Non solo. Come ha sostenuto Baliani nel post-spettacolo, questo progetto segue sette anni di intenso lavoro su documentari e fonti d’archivio raccolti prevalentemente nel Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto. Inoltre, alla base di Trincea è impossibile non percepire le teorizzazioni sulla Grande Guerra magistralmente condotte da George Lachmann Mosse nella Nazionalizzazione delle masse (1975), ma Baliani e Maglietta preferiscono un approccio pratico: nessuna astrazione, niente teorie, assenza di nozioni storiche. Si porta in scena solamente la concretezza del corpo a contatto con una guerra di logoramento.

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Questo appunto, datato giugno 1987 e icasticamente intitolato Quando prendiamo un appuntamento al buio con la consunzione, è solo uno dei tanti in cui compare il nome di Pasolini. Per Jarman il poeta bolognese rappresenta una sorta di feticcio, il modello di un’audacia letteraria ed erotica che fin dalla giovinezza assurge a paradigma, declinandosi poi in vari modi.

Provando a pedinare le diverse forme di contatto fra i due, è possibile individuare almeno tre livelli di convergenza. Il livello più immediato è quello biografico-artistico, che si traduce in una serie di analogie dai risvolti interessanti. Sul piano delle relazioni parentali di Jarman si segnala il rapporto contrastato col padre – uomo d’ordine di una severità esemplare – e di contro il rapporto privilegiato con la madre, di cui egli ammira la dedizione e il carattere. La rigidità dell’educazione ricevuta condizionerà molto l’orientamento emotivo di Jarman, come emerge da numerosi passaggi dei suoi diari in pubblico dedicati al ricordo della durezza paterna e, insieme, al rimpianto per la figura della madre. Alla luce di tale rapido quadro familiare è facile intuire le somiglianze con la vita di Pasolini, che però non si limitano al dato meramente biografico ma si traducono presto in una sorta di reciprocità di destino e di sentimenti, come lascia intendere in fondo lo stesso Jarman:

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La diva Callas, nelle lettere indirizzate a Pier Paolo Pasolini e scritte tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, si firma «Maria (fanciullina)». Pasolini non ebbe un rapporto stretto con quasi nessuno degli attori dei suoi film, esclusi gli amici – poi nel tempo diventati attori-feticcio – come Ninetto Davoli o Franco Citti; forse l’eccezione è rappresentata proprio da Maria Callas, protagonista di Medea (1969), che insieme racchiudeva i ruoli e i caratteri di interprete, amica, confidente. Nel loro periodo di frequentazione, durante le riprese del film (girato a Grado, in Siria, in Turchia e in Piazza dei Miracoli a Pisa), e nei pochi anni successivi, prima dell’omicidio del regista, il rapporto tra i due si fa molto stretto. Negli anni si è vociferato di una sorta di amore non corrisposto da parte della soprano verso Pasolini, complici anche alcuni aneddoti diventati via via emblematici: l’anello regalato alla Callas da Pasolini negli ultimi giorni di lavorazione del film, nella laguna di Grado; le molteplici fotografie che li ritraggono durante le vacanze in Grecia (celebre quella di loro in barca a Skorpios, insieme ai due barboncini della diva) o in Africa, accompagnati da Alberto Moravia e Dacia Maraini; le lettere ritrovate anni dopo, ricche di affetto, confidenze, reciproche consolazioni (in particolare la Callas consola il poeta dopo l’abbandono di Davoli).

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«Mi ringraziò a lungo, salutandomi, per l’occasione che gli avevo dato di ripensarsi ‘dentro’ una sua opera. Era l’intenzione di quel mio atto dal titolo Intellettuale». Riferendosi a Pier Paolo Pasolini, l’artista Fabio Mauri ricorda con queste parole, adesso accolte nel volume Il diaframma di Pasolini, la performance che si tenne il 31 maggio 1975 in occasione dell’inaugurazione della Galleria d’Arte Moderna di Bologna. Quella sera nell’atrio della Galleria, Pasolini, seduto in rigida posa su una sedia, lasciò che gli fosse proiettata sul torace, coperto da una camicia bianca, la prima parte del suo Vangelo secondo Matteo. Lo scrittore si prestò alla realizzazione della performance e divenne – attraverso il proprio corpo – un inconsueto supporto mediale, mezzo di trasmissione delle immagini, stabilendo con l’opera da lui stesso ideata un legame fisico, di suggestiva intimità.

Come era accaduto con il regista Miklós Jancsó, sul quale Mauri aveva proiettato sempre nel 1975 il suo film Salmo rosso nell’ambito dell’azione intitolata Oscuramento, anche Pasolini, già amico dell’artista dai tempi della prima giovinezza, decise di partecipare ad un atto performativo che lo identificò visivamente e senza nessuna mediazione con una delle sue creazioni filmiche. È l’immagine che procede dal piano concettuale e si fa corpo a catalizzare l’attenzione dell’artista e a racchiudere il senso di quella singolare operazione intellettuale:

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Dal romanzo Teorema al film lo strumento della ‘nuova iniziazione’ di Pietro passa dall’osservazione di Wyndham Lewis, fondatore del vorticismo, alla folgorazione visiva di Francis Bacon. Non cambiano solo immagine ed epoca, a cambiare è il senso. Lewis è un esempio fra i tanti della scarnificazione estetica e formalista delle avanguardie in opposizione alla storia dell’arte studiata al liceo; Bacon è invece corpo artistico pulsante, che approda all’invenzione di uno stile innovativo sulla base di una profonda tensione, trovando nella creazione di una nuova forma la risposta a una realtà contemporanea alienante. La cinepresa mostra per primo, e con maggior insistenza, i Tre studi per figure ai piedi di una crocifissione dipinti da Bacon nel 1944, cioè un ‘classico’ trittico, riferito a un ‘classico’ soggetto come la crocifissione, ma plasmato in modo sconvolgente a causa del corto circuito tra la macerazione interiore dell’artista e la distruzione fisica dovuta alla guerra. Pasolini affida a Bacon il compito di essere non la semplice occasione della scoperta di una diversità formale, ma la dimostrazione di un rapporto tra tensione interiore, sguardo sul mondo e forma nuova; complessità che si perde dopo la partenza dell’Ospite e la privazione del sacro, con l’approdo a un inquieto e sofferto ma ormai vuoto avanguardismo.

Nel mistero delle figure di Bacon uscite da un tragico incubo (o macerate nella sofferenza del corpo desiderante, come nelle Two figures in the grass, che rappresentano un rapporto omosessuale, su cui la cinepresa insiste), Pasolini spia i riverberi dei propri incubi, riconoscendo la consonanza lontana di un pittore-fratello, così come da poco aveva riconosciuto in poesia la sintonia col ‘fratello’ Ginsberg. Una fratellanza istintiva, evidente anche nell’opera pittorica di Pasolini, come ha notato per primo Fabien Gerard, quando per l’Autoritratto col fiore in bocca del 1947 ha parlato esplicitamente di «sconcertante [...] anticipazione del tocco distorto di Francis Bacon». Gli autoritratti dei due artisti mostrano, infatti, una speculare consonanza di volti deformati da campiture cromatiche che riflettono passioni inesprimibili, fra sensualità e sofferenza.

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Riprese audio-video: Simona Scattina; Montaggio e grafica: Gaetano Tribulato.

Qui di seguito la trascrizione dell'intervista. Si ringrazia Roberta Gandolfi per aver coordinato il progetto.

 

D: Cosa vi ha spinto a fondare la compagnia? Cosa vi ha spinto a dire: questa è la nostra identità?

 

Marco: Nanou nasce ufficialmente il 13 luglio del 2004, dopo che nel ’99 avevo conosciuto Rhuena, a Ravenna. A quel tempo stavo studiando a Milano e lavoravo con una compagnia che si chiamava Mes cabre. Invece con Roberto ci siamo conosciuti nel 2001 durante l’allestimento dell’Iliade con Teatro Clandestino. Nel 2003 – loro due non si conoscevano ancora – dissi: vogliamo fare un progetto assieme? Abbiamo fondato l’associazione e abbiamo partecipato con il nostro primo vero progetto al concorso Giovane Danza d’Autore per l’Emilia Romagna. Ci piaceva molto quella tipologia di concorso perché era suddiviso in quattro tappe, e in ogni tappa bisognava proporre un minutaggio e un’elaborazione diversa. Ricordo che la prima tappa era un abstract del progetto in versione urbana: una vetrina. Oltretutto il discorso ci tornava molto perché noi stavamo lavorando a Namoro. «Namoro» è una parola che Fernando Pessoa inizia a introdurre nella lingua portoghese parlando di quell’innamoramento che si ha rispetto a una persona prima di conoscerla. Non è esattamente il colpo di fulmine italiano, è più l’essere attratti da una figura che sta facendo altro. Per comprenderci tra di noi si diceva: una persona che allestisce una vetrina, che quindi è esposta ma non sul piano comunicativo. Sta compiendo un’azione per se stessa, sta allestendo una vetrina. Io ne sono rapito, in quel momento capisco che quell’attrazione è, per me, fondamentale.

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La stagione cinematografica si è aperta nel segno della letteratura con due film dedicati a Pasolini e Leopardi, che tanto hanno fatto discutere data la peculiarità dei personaggi e il punto di vista attraverso cui la loro opera (e il loro destino) vengono raccontati. A distanza di qualche mese, ma ancora nel vivo del dibattito, dedichiamo ai film di Ferrara e Martone una serie di zoom nel tentativo di ‘distillare’ la temperatura emotiva e le direzioni di sguardo di due opere controverse ed espressive.

 

Scoppia la voce della Callas (l’aria di Rosina, dal Barbiere: «Una voce poco fa») e sale, su nel cielo piombo, sale sopra il cadavere, sul fango, sul sangue, sugli stracci. Pasolini è morto. Abel Ferrara decide di riscattare l’atrocità del cadavere con la voce della Callas. E forse conosce i versi meravigliosi di Trasumanar: «La lietezza esplode / contro quei vetri sul buio / Ma tale lietezza, che ti fa cantare in voce / è un ritorno dalla morte». Così quella morte sembra avvolta da molteplice pietas femminile: Callas, fuori, la cugina Graziella, la madre Susanna, l’amica Laura in casa. Quella voce della Callas potrebbe riscattare la morte. Sale nel cielo. Non capiamo bene il perché dell’aria di Rosina: casualità? allusività («lo giurai, la vincerò!»)?, ma quel che importa è la voce: c’è la voce della Callas, non c’è, nel film, la voce di Pasolini. Ci manca. Era forse inevitabile: sarebbe stato caricaturale, fasullo, kitsch, riprodurre quella voce un po’ strozzata, dolce, educatissima, con il lieve accento emiliano. Dafoe parla con un’altra voce. E qui Pasolini ‘ci’ manca. Ma non basta la voce della Callas per confortare gli amabili resti. Segue poi l’inquadratura azzurra del cielo dell’EUR, il palazzo fascista, la statua virile dello Stadio (già comparsa all’inizio del film). Uno squarcio di azzurro nel buio piombo dell’ultima notte e dell’alba successiva. Il cielo azzurro e le nuvole. Come Totò e Ninetto, che vedono le nuvole nel cielo, capitombolati nei rifiuti (Che cosa sono le nuvole?) e scoprono la «ineguagliabile bellezza del creato». Le nuvole e il cielo, guardati però da terra, in mezzo ai rifiuti, nella discarica: e così Ferrara fa vedere il cielo (a noi spettatori) mentre il cadavere di Pasolini, rivolto a terra, il braccio di traverso sul petto, non può vederlo. Cielo azzurro, marmo bianco, EUR: cioè fascismo. In un gioco perverso, il regista lega insieme virilità e luce. Come a dire che anche Pasolini (e in effetti fu così) si era confrontato col fascismo, lo aveva vissuto, attraversato, riassunto nell’ultimo anno di vita come metafora del Nuovo Potere (Salò).

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Negli ultimi anni l’Europa ospita sempre più frequentemente le creazioni di Saburo Teshigawara, l’artista che qualche anno fa suscitò un certo scalpore e curiosità per una sua coreografia danzata su frammenti di vetro (Glass Tooth, 2006, vista a Romeuropa Festival nel 2009). Non si trattava di un facile effetto giocato sul filo del rischio, ma della tappa di un percorso di ricerca perseguito con coerenza, nell’instancabile rimessa in questione degli esiti raggiunti. Lo dimostrano le ultime creazioni presentate nel nostro paese, in Francia (Parigi ha visto le sue coreografie danzate dall’Opéra – Darkness is hiding black horses –, nel novembre 2013, mentre a maggio il tour francese ha toccato Chaillot, La maison du Japon de Paris, La maison de la Culture, Nîmes, il Festival di Marsiglia) in Germania, con una performance, di cui diremo, alla Ruhrtriennale di Heiner Goebbels. Partecipazioni significative non solo per una semplice questione di risonanza internazionale, ma perché quasi sempre si tratta di nuove creazioni, dunque di progetti ad hoc, quando non pensati (o ri-pensati) specificamente per il luogo. E spesso inseriti in contesti aperti alle interazioni tra le arti, piuttosto che strettamente legati al mondo della danza. È questo il paesaggio in cui si inserisce anche l’iniziativa “Sculture d’aria”, un seminario previsto a Padova il 19 ottobre, durante il quale il coreografo dialogherà col pubblico, esplicitando le intime correlazioni fra materie e linguaggi diversi alla base dei suoi ‘testi’.

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«Quello che mi interessa – sostiene Paolo Gioli – è la formidabile capacità che la materia fotosensibile ha nel manomettere e immaginare, quasi sempre drammaticamente, ogni cosa tocchi. Prima dell’immagine c’è la materia».

Ridurre, sgretolare, trasformare la fotografia in materia fotografica, in qualcosa di malleabile per poi manipolarla: la metodologia di ricerca di Paolo Gioli percorre da sempre questo binario. La mostra Abuses. Il corpo delle immagini (Villa Pignatelli – Casa della fotografia, Napoli 12 aprile-1 giugno 2014, a cura di Giuliano Sergio), una selezione di oltre cento immagini dell’artista veneto, affronta alcuni dei temi attorno i quali ruota l’intero lavoro e il percorso artistico di Paolo Gioli: l’indagine sul corpo, in tutte le sue sfaccettature, e sulla natura morta.

In un’epoca nella quale la tecnologia ha reso difficile rintracciare la specificità del mezzo fotografico, avvicinando la fotografia stessa a quella «condizione postmediale» descritta da Rosalind Krauss, Paolo Gioli riesce a fermare l’istante sottraendolo all’effimero dell’esperienza ordinaria attraverso la costruzione di immagini fatte di innesti, suture e artifici.

L’artista oltrepassa, in tal modo, i confini strutturali dell’immagine restituendola all’osservatore in tutta la sua drammaticità. Quella di Gioli è un’operazione che oserei definire di archeologia visuale, caratterizzata dall’esplorazione incessante dell’intero universo dei processi fotografici proto-storici, storici e moderni: dal foro stenopeico, al classico procedimento positivo/negativo, al positivo diretto su diversi formati polaroid. La fotografia di Gioli (e le opere in mostra ne sono una prova) porta, dunque, alle estreme conseguenze l’intera parabola evolutiva di quella riproducibilità tecnica postulata da Benjamin, estremizzandone dinamiche e processi, e rendendo palesi i meccanismi ad essa interni e le difficoltà e incertezze da essa derivanti.

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