Categorie



Siamo all’inizio di Uccellacci e uccellini: Totò e Ninetto, comparsi da un’indefinita strada della periferia romana, arrivano in un isolato casolare adibito a bar. Mentre Totò ordina da bere, Ninetto non resiste alla tentazione di aggregarsi ai ragazzi che, di fronte a un juke-box, stanno ballando sulle note di uno scatenato rock. Prima gli rivolge la parola il compare più effeminato, che a un certo punto, senza spiegazioni, si ritirerà dal ballo; poi si unisce anche il capelluto barista, che mostra a Ninetto i quattro passi della disordinata coreografia del gruppo. Nelle inquadrature frontali, come nell’immagine, i ragazzi sembrano muoversi su una sorta di improvvisato palcoscenico, da recita paesana, in cui la tenda a frange della porta funziona da quinta per l’entrata e l’uscita dei personaggi. Ne scaturisce un’accentuazione dell’aspetto iconico-performativo dei corpi nonché del significato ludico del ballo, interrotto soltanto dall’arrivo dalla corriera che riporta i ragazzi alla realtà: mentre la musica continua a suonare, li vediamo – in campo lungo – allontanarsi dal bar e rincorrere a perdifiato il mezzo che li sta lasciando a piedi.

Siamo anche a metà circa degli anni Sessanta; il film, ideato nel 1965 e presentato al Festival di Cannes l’anno dopo, segue di non molto una dichiarazione rilasciata da Pasolini nell’ambito dell’inchiesta sulle canzonette promossa da Vie nuove nel 1964:

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



La sera del 22 settembre del 1962, alla prima romana di Mamma Roma, Pasolini prende a schiaffi un giovane studente di estrema destra che gli urlava «Pasolini, in nome della gioventù nazionale, ti dico che fai schifo». Lo studente reagisce e a sua volta colpisce Pasolini, dando soddisfazione, ad esempio, a Lo Specchio che intitola un articolo (di rara volgarità e tetro godimento) Hanno battuto le mani a “Mamma Roma” sulla faccia di Pasolini. In quelle poche righe, l’anonimo articolista racconta di un Pasolini picchiato, salvato solo dall’intervento di Sergio Citti («che si notava per la particolare distinzione») e infine ritiratosi tra le fila dei suoi sodali «Laura Betti, l’attore dalla faccia di mattone Ettore Garofalo, Pietro Murgia, l’assistente alla regia Banchero, il regista Bertolucci con Adriana Asti e ultimo Alberto Moravia». Vengono pubblicate tre fotografie, due con Pasolini (nell’atto di sferrare il suo colpo e tramortito dal colpo dell’altro) e una con Sergio Citti che si getta a peso morto sullo studente, atterrandolo.

A guardarle oggi, quelle foto, Pasolini non è, come vorrebbero i redattori di quelle pagine, il debole frocio, l’esangue intellettuale, il noioso comunista che poi, dopo averle prese di santa ragione e aver tentato «di reagire con poco profitto», se ne va con gli amici al party offerto da Anna Magnani per festeggiare l’uscita del film (ci sarebbero già abbastanza elementi per uno studio socio-politico-culturale del nostro cinema…). A guardarle oggi, Pasolini è come l’avremmo voluto sempre vedere: teso, pronto a scattare, incapace di porgere l’altra guancia, inadatto alle iconografie da Ecce Homo, servo umile delle verità scomode, concentrato di tutto ciò che di minoritario o contraddittorio può esistere. Non c’è, nella fotografia del Pasolini picchiatore, nessuna voluttà nella sofferenza, nessun nemico nascosto, nessuna conoscenza certa priva di prove, ma c’è la ribellione del corpo, negli occhi semichiusi dietro gli occhiali spessi, nei denti digrignati che cancellano le spigolosità familiari del viso (così evidenti, invece, nell’immagine del Pasolini colpito), nel piccolo pugno fermato lontano dal suo bersaglio.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

Abstract: ITA | ENG

Sulla base di una ricerca d’archivio in corso, il saggio avanza alcune riflessioni preliminari sul trattamento che la censura cinematografica dell’Italia repubblicana ha riservato alla rappresentazione dell’omosessualità, dall’iniziale vagheggiamento di un divieto assoluto al subentrare di più complesse negoziazioni a partire dalla fine degli anni Cinquanta, fino al profilarsi di una possibile riabilitazione del soggetto.

This essay presents first results of an ongoing archival research on homosexuality and Italian cinema in the after war period. It analyses how film censorship dealt with the representation of homosexuality, first trying to interdict it and then, from the late 1950s, negotiating its depiction in more refined manners, eventually envisaging the possibility of withdrawing it from the list of forbidden topics since the early 1970s.

 

A partire dal secondo dopoguerra, lo sforzo della censura di contrastare la diffusione di contenuti cui viene applicata la terminologia sinonimica oscenità/pornografia/immoralità investe un territorio esteso di soggetti e di materiali, in cui il cinema rappresenta un tassello centrale ma non esclusivo. Si può ricavare un’idea di tale estensione da un fascicolo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, intestato «Pubblicazioni immorali»,[1] in cui sono inclusi incartamenti relativi al primo decennio del dopoguerra: riviste illustrate, teatro, televisione, arte (sotto accusa i disegni di Salvador Dalì per la Divina Commedia commissionati nel 1949 dal Poligrafico dello Stato) e persino decalcomanie da «applicare a moto-scooter e calendarietti». E ovviamente il cinema: un sottofascicolo riguarda il divieto d’importazione della rivista Paris-Hollywood (che tra il 1947 e il 1973 con il cinema intrattiene per la verità un rapporto piuttosto pretestuoso, sfruttando quali pin-up per le sue copertine attrici americane frammiste a una miriade di modelle anonime); un secondo riguarda invece la proiezione di film propriamente pornografici, nel corso di serate clandestine organizzate da privati in casa propria (ma anche nella sala di una gelateria, dopo l’orario di chiusura) grazie alla compiacenza di un operatore che prestava competenze e pellicole, a sua detta senza scopo di lucro. L’irruzione della polizia, organizzata a seguito della segnalazione di un quotidiano romano, ha esiti tragicomici: si scontra infatti con l’impossibilità di procedere al preventivato arresto di tutti i convenuti (uomini e donne), a causa della presenza fra il pubblico di «membri del Corpo Diplomatico e personalità politiche».[2]

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

Abstract: ITA | ENG

L’articolo analizza i rapporti tra il mondo cattolico e la censura del cinema osceno nei primi due decenni dell’Italia repubblicana. Dopo aver sottolineato l’importanza che il tema ha rivestito per il mondo cattolico, ricostruisce attraverso documentazione d’archivio inedita l’azione censoria messa in atto dai cattolici nel contesto della censura amministrativa statale e nell’ambito della revisione dei film da essi operata per le sale parrocchiali.

The article deals with the relationship between the Catholic world and the censorship of the obscene movie in Italy during the first two decades of Italian Republic. It stresses the importance that the theme of obscenity has had for the Italian Catholics, and then it sheds light on censorship exercised by Catholics on the one hand in the context of the State Censorship Office and on the other reviewing movies for the church halls. 

1. Il tema dell’osceno

Alla fine del 1961 (nel bel mezzo del dibattito intorno alla nuova legge sul cinema) viene pubblicato La porpora e il nero nel quale Aristarco mette a punto un argomento polemico cui Brunetta darà quindici anni dopo dignità scientifica: «si punisce Rocco e L’avventura mentre si lascia libero corso a tanti altri film non solo d’ignobile livello artistico, ma, questi sì, profondamente volgari, immorali, allusivamente lascivi, diseducatori»;[1] o ancora: «come mai si prendono provvedimenti […] contro film artistici» e «si indulge nei confronti di film pornografici?».[2]

Nel 1976, in uno dei primi scritti di Brunetta sui cattolici e il cinema, viene ripresa e approfondita questa tesi, che ha influenzato in profondità gli studi sulla censura cattolica dell’osceno. Sulla scia di Aristarco, anche Brunetta ritiene infatti la censura dell’osceno pretestuosa riconoscendo le reali intenzioni della macchina censoria cattolica nella difesa dal film politico: «La crociata in difesa della morale, l’allineamento ai programmi della Legion of Decency […] tradiscono […] altre intenzioni, tra cui […] proteggersi dalle aggressioni del film bolscevico».[3]

Nel 2001, in uno studio per molti aspetti ingenuo ma dalla collocazione prestigiosa, indicativo dello stato dell’arte, Franco Vigni rispolvera la vecchia tesi secondo cui è «impercettibile e labile […] la linea di confine tra la (presunta) difesa della morale e della pubblica decenza e il fine politico e ideologico, che sovente si confondono».[4]

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

1 2 3