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La presenza di alcuni pittori indipendenti nello studio fotografico di Nadar nel 1874 a Parigi inaugura una nuova storia dello sguardo. In quella stessa occasione monsieur Manet presenta al Salon ufficiale La ferrovia, cercando più un dialogo con la tradizione che uno scontro accademico. Quest’opera tanto chiacchierata apre il saggio-racconto di Victor Stoichita, Effetto Sherlock (il Saggiatore, 2017).

Quello che il critico rumeno presenta nelle duecentoquarantatré pagine del suo ultimo lavoro è in parte suggerito dal sottotitolo all’edizione italiana: Occhi che osservano, occhi che spiano, occhi che indagano.

La copertina ospita un’enigmatica elaborazione grafica: una lente d’ingrandimento quasi sovrapposta a un’altra contiene il teleobiettivo del voyeur Jeff che dalla finestra sul cortile di Hitchcock (1954-55) è intento a spiare un ‘uomo alla finestra’, affacciato da una pittura di Caillebotte (1875). Questo incontro/scontro produce la sagoma di un terzo occhio che sembra spiarci, interrogare l’osservatore. L’invito dell’autore è chiaro: ci suggerisce di dare uno sguardo. Con stile impeccabile, con rigore logico e leggerezza immaginativa, Stoichita ci aiuta a indossare i panni dell’investigatore di immagini, accompagnandoci verso una storia dello sguardo da Manet a Hitchcock.

Nel quadro La ferrovia (1872-73) accade che non ci sia nessuna ferrovia. La cancellata nera elimina la possibilità della bambina (e la nostra) di scorgerne un solo frammento. L’opera sembra essere la cronaca di un oggetto fantasma che ci interroga sul possibile senso nascosto. Dialogando con la tradizione pittorica europea Stoichita trova nuove disquisizioni semantiche per indagare sull’accaduto. Profila sin da subito un leitmotiv che accompagna l’intero saggio: «lo sguardo ostacolato». Partendo dalla ferrovia di Manet, lo ritrova già nella pittura medievale, disegnando così, è il caso di dirlo, una strada ferrata che attraversa la tradizione del Seicento per giungere al cinema degli anni Sessanta. In questa lettura di viaggio, finestrini d’immagini della storia dell’arte e del cinema scorrono come paesaggi, sempre vari e contrastanti, accomunati dallo stesso tragitto semantico. Muovendosi dalle «figure-filtro» che nelle pitture impressioniste imitano la direzione dei nostri occhi, ostacolandola, Stoichita analizza un «sistema di filtri» (tende, umidità, alberi, e persone) che costringono a un continuo e frustrante «esercizio intellettuale della rivelazione». Il visibile non è più rassicurante: ostacolato perché opaco, singolare perché soggettivo, perde il punto di vista centrale e guarda da un’altra ‘prospettiva’.

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Le mie madri (2003) di Nada Malanima è un libro composito, ibrido, che alterna brevi paragrafi in prosa a fitti passaggi in versi: un esperimento ben calibrato di autofiction, che si chiude con una rivelazione per certi aspetti spiazzante:

La cantante-scrittrice nell’ultimo capitolo – che non a caso dà il titolo all’intera opera – confessa l’invenzione di un doppio materno, figura indispensabile per colmare le intermittenze affettive di un’infanzia segnata dalla malattia di colei che con grande tenacia l’aveva messa al mondo. In poche righe emerge il dramma di un’intera vita («adesso che la vita ti ha rimpicciolita io ti guardo e ti odio, perché ho ancora bisogno di te»), e allo stesso tempo si rende manifesta tutta la fragilità di una appassionata donna-bambina. Si tratta di un brano cruciale per intendere il denso groviglio di sentimenti da cui scaturisce l’immaginario biografico e musicale dell’autrice, attraversato da alcuni motivi cardine e da una ‘ossessione’ materna mai banale. Il fantasma di una madre finalmente presente, attenta e dolce («che vive dentro di lei») non è una finzione letteraria ma la proiezione di un desiderio reale, destinato a diventare ritmo, grido, silenzio. E di nuovo letteratura. Nel 2008 Nada pubblica, infatti, Il mio cuore umano, un romanzo in cui quel cupo grumo di illusioni e strappi condensato ne Le mie madri si scioglie in racconto, distillando fatti, memorie, occasioni di una fanciullezza a suo modo felice, prima del brusco ingresso nel mondo dello spettacolo. La storia si arresta lungo i binari del treno che porta Nada a Roma, in vista dell’audizione che avrebbe invertito il senso di marcia della sua esistenza; i lampi abbaglianti dei fotografi, gli studi televisivi, il profumo di celebrità della kermesse sanremese sono ancora lontani: contano solo i battiti di una famiglia un po’ sghemba, le fibrillazioni di una bambina a cui basterebbe qualche carezza in più. Lo stile di Nada è semplice e avvolgente, sa di terra e pianto, a tratti può sembrare scoperto ma conserva una fibra autenticamente poetica, che incanta e commuove.

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Monica, Valeria e le loro personagge. Cinema d’autore e cinema di attrici. Attrici autrici, dalla regia alla scrittura. Figlie che hanno saputo confrontarsi con l’‘ombra’ delle madri ma che spesso non sanno essere madri. Donne alla finestra, come nei melodrammi hollywoodiani, ma qui le finestre si schiudono su paesaggi inconsueti, su scenari di alterità, spazi che appartengono al perturbante, aperti, come direbbe Lacan, all’irruzione del Reale, su una scena che, scrive Graziella Berto (2002), separa il soggetto dal proprio desiderio lasciando sorgere la beanza di uno sguardo stupito di fronte a un mondo che è il luogo dell’Altro. Claudia, di spalle, apre la finestra a Lisca Bianca sul mistero dell’amica scomparsa [fig. 1]; Vittoria, ancora di spalle, contempla il fungo dell’Eur, fuori della modernità e della minaccia atomica ma anche di una libertà tutta da esplorare, mentre la finestrella nella vecchia casa di Piero, forse abitata da fantasmi, è un’ulteriore figura di raddoppiamento – la fugace comparsa di un volto femminile nella finestra di fronte [fig. 2] – che ci fa slittare dalla presenza del mimo, tanto cara ad Antonioni, a quella unheimlich del sosia e alla dimensione fantastica di molta letteratura femminile (l’eco di un gotico che rimane in film come Il Castello in Svezia [R. Vadim, 1963] o in Il mistero di Oberwald [M. Antonioni, 1980] o, ancora, Un castello in Italia [V. Bruni Tedeschi, 2013] dove il passato è il vissuto dell’attrice-autrice); Giuliana guarda dalla camera di Corrado la notte nella quale fuggirà quando è «riuscita a essere una moglie infedele» (Il deserto rosso, M. Antonioni, 1964); Lisa decrea il suo mondo dalle sbarre della prigione perché possa esserci per lei una ‘seconda volta’ [fig. 3]; Carmen osserva con agire protettivo e amoroso gli uomini a cui è legata dalle vetrine del bar in cui lavora [fig. 4]; Angela scopre il suono di un violino che la allontanerà dalla esattezza rassicurante dei numeri ma solo dopo aver conosciuto Sara e il suo per ora non rimediabile dolore (La parola amore esiste, M. Calopresti, 1998); Carla, ma solo per caso, il ‘suo’ teatro (Il capitale umano, P. Virzì, 2013); Beatrice il ritorno sperato di Donatella quando la cura nasce dalla relazione (La pazza gioia, P. Virzì, 2016). Finestre che non sono più figure che imprigionano il desiderio ma passaggi attraverso i quali si dispiega un nuovo sentire sia pure segnato dall’incertezza e al di là dei quali si delineano, come scrivono Treder e Chiti, spazi di libertà e di divenire. Se nel volume curato da Treder, Chiti, Farnetti (2002), al quale il titolo del nostro saggio si ispira, oggetto dell’analisi è il rovesciamento simbolico del concetto freudiano operato dalle scritture femminili, dove il perturbante appare quale occasione ‘imprevista’ per tentare quelle che Farnetti definisce forme inaudite di rappresentazione di sé e del proprio desiderio, il perturbante che due attrici come Monica Vitti e Valeria Bruni Tedeschi, più volte avvicinate dalla critica, iscrivono nei film che le vedono protagoniste non si conclude appunto nel consueto paradigma dell’angoscia, generando piuttosto, come scrive ancora Farnetti, gentilezza, compassione, affetti, amore e persino il sorriso.

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