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  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →

Pelle, pellicola, messa in scena del corpo, autorappresentazione. Performatività. Materialità di schermi, superfici. Tempo che consuma e si consuma, tempo da ricostruire. Bellezza della consunzione e dell’imperfezione. Abitare il tempo e abitare il cinema, indossare il tempo, indossare il cinema.

Il percorso di Agnès Varda, oggi novantenne, è un percorso nelle immagini: fortemente ispirata dalla pittura, dalla fotografia (lei stessa è fotografa), protagonista di un cinema noncurante di etichette e steccati, documentitore (Documenteur, 1981) e con una impronta – uso questo termine quasi in senso letterale – fortemente e consapevolmente autobiografica.

«La vecchia cineasta si è trasformata in giovane artista plastica», ha affermato commentando questa fase del suo lavoro. E in effetti non solo Varda ha concepito per le proprie opere percorsi installativi (come del resto hanno fatto altri cineasti della sua generazione, da Godard a Marker), ma si è dedicata a vere e proprie installazioni in cui le immagini in movimento non sono l’unico elemento, perché ne fanno parte oggetti, materiali diversi, fotografie. Inoltre, ha costruito film, in particolare il mirabile Les Plages d’Agnès, 2008, come percorsi installativi. Non solo: Varda ha trasformato se stessa in opera d’arte, con un’attitudine performativa basata in gran parte su costumi e travestimenti, sia nei film (ancora e soprattutto Les Plages d’Agnès) sia in esposizioni d’arte, come quando si è presentata alla 50° Biennale d’arte di Venezia nel 2003 (padiglione Ê»Utopia Stationʼ) trasformata in patata gigante, in occasione della sua prima installazione video Patatutopia. Un trittico (forma che ricorre spesso nelle sue installazioni) in cui si mostrano le patate scartate perché non conformi alle leggi di mercato. Patate difformi, in modo anche poetiche – come quella a forma di cuore – o commoventi (rugose, germoglianti). Imperfette. Patate (e qui si arriva all’elemento tattile, così presente nel cinema di Varda) da accarezzare, ripulire dalle tracce di terra, disporre e preparare per la messa in scena della loro bellezza.

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Per Lucrezio le immagini sono «simulacri dei corpi che qua, che là van volando, quasi membrane staccatesi dal loro involucro esterno, per l’aria». Con questa citazione dal De rerum natura Giuliana Bruno apre il saggio intitolato Superfici, (Johan & Levi, 2016) e partendo da questo assunto si interroga sulla natura delle immagini, rileggendole a partire da ciò che dà loro consistenza: la superficie.

La studiosa napoletana, che alla Harvard University si occupa di Visual and Environmental Studies, tesse una serie di relazioni tra arte, architettura, moda, cinema, fotografia e design e propone di considerare l’oggetto visuale secondo una prospettiva multipla a partire dalla sua specifica concretezza tangibile, spaziale e ambientale. Nelle pagine in cui si articola il suo studio teorizza, pertanto, un nuovo materialismo, convinta pure che «la materialità non riguardi i materiali, bensì la sostanza delle relazioni materiali» (p. 16). Suggerisce pertanto un approccio aptico alle arti visive molto vicino alla percezione tattile già teorizzata da Riegl.

Il saggio di Giuliana Bruno è corposo e stratificato, le parti si assemblano e si intersecano senza tendere a un climax argomentativo. Le quattro sezioni del libro sono concepite come blocchi indipendenti ma finiscono col ripiegarsi l’una sull’altra, si rincorrono tra cuciture e risvolti e non rinunciano a una scrittura dialogica, più empatica che accademica, come dimostra in chiusura la lettera ‘virtuale’ a Sally Potter. L’aspetto tematico che sostiene il discorso, sin dalla prima sezione I. Trame del visuale, è la «tensione di superficie». La superficie, che richiama la texture e la sartorialià, rinvia alla seconda pelle dell’uomo, l’abito, alla pellicola cinematografica e dunque alla pelle di tutte le cose. Correlando i plissè di Issey Miyake alla Piega di Gilles Deleuze, Bruno analizza il cinema di Wong Kar-wai che è una questione di filosofia sartoriale, dove il vestire, oltre il coprire, sa diffondere «atmosfere mentali» (p. 51). Cucire un abito o una striscia di celluloide è un gesto di sartorialità del campo visivo.

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