C’è stato un momento nella produzione di Pasolini in cui i corpi dei giovani e il sesso hanno cessato di custodire e di rivendicare una propria sacrale incorruttibilità. L’autore, che nella vita e nelle opere aveva incarnato e trasfigurato in forma di poesia le tensioni più puramente progressiste degli anni Cinquanta e del decennio successivo, rintraccia nella liberalizzazione dei costumi avviata tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta una bieca imposizione, tanto più sinistra e pervasiva quanto più coperta dalla maschera di una falsa tollerabilità. La natura incontaminata dei corpi e l’amplesso come atto di ribellione al potere, ultimi baluardi ancora pieni della loro fisica espressione nell’ambientazione al passato della Trilogia della vita, nelle riflessioni mature di Pasolini subiscono anch’essi un’inesorabile trasformazione:
L’orizzonte poetico dell’autore si proietta, dunque, verso toni più gelidi e disincantati, che spianano il terreno a un’ultima, disarmante prova cinematografica:
Alle soglie della sua scomparsa, Pasolini lascia in eredità ai giovani le sequenze di un film insopportabile, chiuso com’è tra lo scorrere di una rara eleganza estetica e l’efferatezza degli atti violenti che vengono compiuti. Salò o le 120 giornate di Sodoma, adesso restaurato grazie all’intervento del laboratorio L’immagine ritrovata della Cineteca di Bologna e prossimamente presentato nella sezione Venezia Classici nell’ambito della 72/a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, è l’emblema della mercificazione dell’uomo perpetrata dal potere consumistico; il romanzo di Sade e l’ambientazione nei tempi e nei luoghi della Repubblica Sociale Italiana si pongono come pregnante metafora della riduzione del corpo a cosa causata dal dilagare del sistema neocapitalistico. È lo stesso Pasolini a darne conto in occasione di una autointervista: