8.2. Monica Vitti: per una donna moderna tra moda e comicità

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Una diva fatale avvolta in abito nero e veli che si muovono con il sollevarsi del vento artificiale: così si presenta Monica Vitti al fianco di Lelio Luttazzi nella puntata dello show televisivo Studio Uno del 26 febbraio 1966. Tuttavia, quello che a prima vista potrebbe sembrare un momento di consacrazione per la stella Vitti, si trasforma immediatamente in un siparietto umoristico che ne fa risaltare la natura comica piuttosto che divistica.

La Vitti misteriosa, a tratti ieratica nella postura, dei primi secondi dello show televisivo cede il passo a quella più energica e vitale quando si scatena in uno shake sulle note del motivo Nessuno mi può giudicare, tanto che Luttazzi non può fare a meno di chiederle: «Ma come, tu mi cominci facendo l’attrice comica, mi continui facendo l’attrice impegnata dell’incomunicabilità, mi continui ancora facendo la Monroe in teatro, se così posso esprimermi, mi finisci per fare 007. Monica mia tu devi dirmi: chi sei?» Il dubbio del conduttore è legittimo, l’attrice nel 1966, con i due film in uscita, Modesty Blase. La bellissima che uccide (J. Losey) e l’episodio Fata Sabina (L. Salce) del film Le Fate rivela la capacità di cambiare facilmente registro, passando con disinvoltura dai ruoli drammatici, che l’avevano portata alla notorietà, a quelli comici. Se agli occhi della critica in quegli anni di snodo, non solo perché a cavallo tra il boom economico e i mutamenti che il Sessantotto imporrà ma anche per il momento di transizione nella sua carriera d’attrice, Monica Vitti appare come ʻuna moderna vestaleʼ, è proprio nel rapporto con la moda che il suo corpo riesce a trasferire sullo schermo l’aria di cambiamento e di stravolgimento dei costumi in atto nel Paese e in Europa [figg. 1-2].

Ne è prova il personaggio di Modesty Blase attraverso cui l’attrice propone una tra le interpretazioni più camaleontiche della sua carriera, costituendo una sorta di modello per i ruoli a venire. Vitti sembra sfilare su una passerella per l’intera durata del film, entro la quale si esibisce in una caleidoscopica performance punteggiata di abiti e acconciature sempre diverse, così che si vedono agire allo stesso tempo molteplici donne, sensuali, intelligenti, scaltre, tutte concentrate nel personaggio a fumetti di Modesty Blase. Un corpo esibito secondo le logiche dello pseudo-evento teorizzato da Daniel Boorstin (1964) in cui la versatilità e l’ironia le permettono di dare vita a un personaggio affascinante e sensuale, mantenendo vivi i toni della commedia [fig. 3]. Il corpo estremamente mobile dell’eroina a fumetti, per parafrasare Gundle (2009: 302) si ʻrimaterializzaʼ, offrendo un concentrato di femminilità in chiave pop. Una diva pop (Vacirca, 2016) che in un tripudio visivo di colori e abiti appariscenti, e grazie alle pose che assume, si fa icona di stile (oltre che camp), e da emblema del consumismo iconico quale è stata (verrebbe da definirla una ʻinfluencerʼ), rappresenta ancora oggi un riferimento per molti stilisti: ne è un esempio la collezione autunno-inverno 2018/2019 disegnata da Elisabetta Franchi che si ispira proprio a Monica Vitti e all’immaginario che ha contribuito a definire negli anni Settanta. Qui Vitti si muove tra le ambientazioni moderniste della swinging London e il soleggiato paesaggio mediterraneo, offrendo una gustosa parodia dell’agente 007 in tuta attillata. Proprio negli anni in cui nei film con James Bond i ruoli femminili erano meno centrali, più esibiti come oggetto di sguardo (Mulvey: 1975) che funzionali alla narrazione, Vitti si cala nei panni di una spia astuta che domina la scena, anche per via degli eccentrici abiti che indossa, e che con simpatia sa tenere testa ai partner maschili. La critica ne apprezza la figura sensuale, riconoscendo in lei «un antidoto al mito della donna-fanciulla simboleggiato da Brigit Bardot» (M. Liverani, Momento Sera, 22 settembre 1966). Superando quello che Edgar Morin indicava come un condensato «di erotismo e ingenuità» (Morin 1995, p. 48), Monica Vitti si appresta a farsi portavoce di un discorso sulla femminilità, in dialogo con la libertà sessuale a ridosso del 1968.

La ʻvestale in minigonnaʼ, così definita da Ugo Salvatore sulle pagine del quotidiano La Stampa Sera (8 dicembre 1966) si avvale di una performance calibrata su toni brillanti per raccontare la rivoluzione che è in atto nella rappresentazione dell’immagine femminile, mostrando una sensualità in chiave comica che ironizza sulla donna-oggetto. Negli anni di riflessione attorno al femminile, preceduti dall’importante contributo di Gabriella Parca (1959) cui fanno seguito le riflessioni sul Soggetto imprevisto di Carla Lonzi (1970), Monica Vitti lamenta la mancanza nelle produzioni italiane di storie che raccontino il reale vissuto delle donne, mettendo in luce i loro desideri e problemi (B/N n.1/2 1972). In particolare, sottolinea lo stato di solitudine in cui si trova di fronte a registi e sceneggiatori che le affidano parti monocromatiche, che poco approfondiscono la sfera femminile e i cambiamenti che vedono le donne coinvolte in quegli anni di stravolgimento sociale. In un altro passaggio, poi, Vitti parla del rapporto tra la donna in quanto attrice e la recitazione che passa in secondo piano, mettendo al centro la bellezza, unica vera attrazione del corpo attoriale femminile.

Le donne che la Vitti incarna in questi anni sono una sintesi di un discorso sull’emancipazione femminile che l’attrice caratterizza grazie alla capacità di ironizzare sul concetto di donna-oggetto. Ecco che la moda diventa lo strumento necessario per inscenare tale parodia della donna che guarda e si fa guardare [fig. 4]. Ne offre un valido esempio il personaggio di Giuliana nel successivo film di Luciano Salce, Ti ho sposato per allegria (1967).

Giuliana sostituisce il concetto di donna-oggetto con quello di donna-mannequin: anche in questo caso, come nella commedia di Francesco Maselli dello stesso anno (Fai in fretta ad uccidermi…ho freddo), il modello Mode ha fatto scuola. Colori e tessuti sempre diversi ricoprono il corpo di Giuliana che si esibisce in danze scatenate sulle note di motivi moderni, raccontando gli interessi di una ragazza degli anni Sessanta: la moda, la musica, i fumetti. Si muove per la stanza sfilando e parlando di stile, quello che gli uomini le hanno sempre detto di non avere ma che, invece, agli occhi dello spettatore è evidente che abbia. Eccentrica, capricciosa, volubile, Giuliana veste miniabiti succinti o lunghe camice che lasciano intravedere le gambe scoperte, in anni in cui come afferma Fabio Cleto: «la donna scopre potere e piaceri del corpo esibito» (2013, p. 28) ma non manca di vestirsi da sera per entrare nella vasca da bagno, vive la vita secondo le sue regole e rifugge la noia della routine. Il suo modo di mostrarsi alla macchina da presa supera l’idea di donna-oggetto, per proporre una donna fuori dagli schemi, un’idea alternativa della casalinga che sfugge allo stereotipo. La performance di Vitti è caratterizzata da estrema libertà, sia espressiva che gestuale, dove il corpo è spesso colto in movimento; benché il personaggio non sia quello di una normale casalinga, la vediamo sempre assorta in qualche attività, dal passeggiare per la stanza (che spesso si trasforma in una sfilata), allo sbattere un uovo mentre si racconta alla governante Vittoria, o discutere con il marito Pietro passando da un ambiente all’altro. L’euforia e vivacità del personaggio è trasmessa quindi anche dai gesti che compie. Giuliana è una donna che trascorre a letto molte ore della giornata, concentrata su stessa e la sua necessità di essere amata, però non è incline all’immobilità, quasi a rimarcare attraverso i movimenti la sua incapacità a fermarsi e mettere radici. La libertà che esprime Giuliana sovverte l’immagine della moglie tradizionale ed è in linea con quanto, proprio alla fine degli anni Sessanta, nella società occidentale si andava proponendo: una figura femminile meno materna che si riappropria della sfera sessuale e che non ne fa mistero (Boneschi: 1996: 120). Giuliana corrisponde all’idea della ʻunruly womanʼ (donna ribelle, insubordinata) teorizzata da Kathleen Rowe (1995): una femminilità che rompe gli schemi e che si ribella attraverso atteggiamenti non convenzionali e stravaganti rispetto al modello femminile tradizionale. Attenendosi ai toni leggeri della commedia brillante Vitti esprime con questo personaggio l’idea di una donna moderna, complice del marito con cui inscena divertenti siparietti, ma che nella parte della moglie casalinga diventa goffa, pasticciona, lavorando proprio su queste imperfezioni per suscitare simpatia nel pubblico. La commedia è lo strumento di cui Vitti si serve per esplorare il femminile e raccontarne il lato che fino ad allora era rimasto celato, per riprendere quanto poc’anzi da lei detto nell’intervista su B/N, Vitti è la donna che recita la donna (Grespi: 2009: 131). Come afferma Marcia Landy, la commedia «è l’arma che rende ammissibile, e dunque pubblico, quanto prima era tenuto nascosto dallo status quo» (2008: 158), e i personaggi di Vitti, in particolare nella commedia brillante (ma in alcuni casi anche in quella all’italiana), rivelano desideri sopiti e idealizzanti dell’amore sincero (Colombo: 2008: 148), da sognatrici sospirose, che prendono le distanze dalla normatività. Le angosce della tetralogia dell’incomunicabilità non vengono abbandonate, Vitti se le porta dietro come bagaglio dell’attore, ma le declina nei toni più leggeri della commedia, indice del fatto che anche del malessere interiore si possa ridere, raccontando il processo di emancipazione femminile e la presa di coscienza della propria individualità. La donna è non solo parte della coppia ma un essere che pensa, desidera, agisce, in un percorso in cui è la moda a renderla individuo.

 

 

Bibliografia

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M. Boneschi, La grande illusione. I nostri anni Sessanta, Milano, Mondadori, 1996, p.120.

D. Boorstin, The Image: A Guide to Pseudo-events in America, New York, New York Harper & Row, 1964.

F. Cleto, Intrigo internazionale. Pop, chic, spie degli anni sessanta, Roma, Il saggiatore, 2013, p. 28.

S. Colombo, ʻLa comicità al femminile: Mariangela Melato e Monica Vittiʼ, in F. De Bernardinis (a cura di), Storia del cinema italiano, 1970-1976, vol. XII, Venezia, Scuola Nazionale di Cinema/Marsilio, 2009, p. 148.

G. Crainz, L’Italia Repubblicana, Firenze, Giunti, 2000.

B. Grespi, ʻCine-femmina. Quell’oscuro oggetto del desiderioʼ, in F. De Bernardinis (a cura di), Storia del cinema italiano, 1970-1976, vol. XII, Venezia, Scuola Nazionale di cinema/Marsilio, 2009, p. 131.

S. Gundle, Figure del desiderio. Storia della bellezza femminile italiana, Roma, Laterza, 2009, p. 302.

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M. Liverani, Momento Sera, 22 settembre 1966.

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L. Mulvey, ʻVisual Pleasure and Narrative Cinemaʼ, Screen, vol. 16, issue 3, 1975, pp. 6-18.

G. Parca, Le italiane si confessano, Firenze, Parenti, 1959.

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S. Vacirca, Monica Vitti, a Pop Diva, in R. Menarini (a cura di), Cultures, Fashion and Society’s Notebook 2016, Milan-Turin, Pearson Italia-Bruno Mondadori, 2016.