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Prima della serie ‘le città e gli occhi’, Valdrada tematizza uno degli aspetti più pervasivi dell’opera di Calvino, il procedere per binarismi oppositivi per meglio riflettere sulle modalità e sulla fallacia delle nostre percezioni del reale. È solo una delle molte città speculari presenti nelle pagine delle Città invisibili (e i lavori successivi: basti pensare alla Foresta Radice-Labirinto, elaborata cinque anni più tardi, che evoca al contempo l’incatturabile Bauci e Sofronia, smontabile per metà). Ma se Eusapia è strutturata in forma apertamente binaria – con la necropoli che fa da ideale contraltare alla città dei vivi –, l’architettura e l’ethos di Valdrada non rispondono ai principi della simmetria, piuttosto a quelli della specularità: in questo più simile a Betsabea, città al contempo angelica e fecale. Come nei riflessi speculari delle stampe di Escher, tra le principali fonti visive dello scrittore, Valdrada è costituita dalla somma tra la città sopra il lago e quella «sulle rive d’un lago con case tutte verande una sopra all’altra e vie alte che affacciano sull’acqua i parapetti a balaustra» (CI, p. 399).

In molti, oltre a tentare di identificare i riferimenti teorici che hanno orientato l’immaginario di questa città doppia, si sono chiesti a quale specifica città Calvino si fosse ispirato, senza però ottenere risposte pienamente soddisfacenti. Certo è che, come per molti aspetti della sua opera, anche le scelte onomastiche sono state accuratamente vagliate tra una serie di alternative presenti negli abbozzi preparatori (Terrusi 2012). In questo caso il nome richiama una delle tante località di villeggiatura dei laghi lombardi (Valdrada è, inoltre, una principessa longobarda citata da Paolo Diacono), ma la duplicità stessa dell’architettura strizza l’occhio a Venezia – evocata a più riprese da Marco Polo – e alla natura della città più amata da Calvino, New York, continuamente riflessa nelle superfici specchianti dei grattacieli. Per paradosso, pur appartenendo alla serie più apertamente legata alla visualità, Valdrada appare tra le città meno chiaramente rappresentate all’interno di questo «inimitabile libro di figure senza illustrazioni» (Ravazzoli 1991, p. 147). Del resto, la struttura stessa dell’evocazione pare essere basata sul dispositivo retorico della correctio: se all’inizio viene accentuata l’idea della ripetizione dei gesti riflessi, la seconda buona metà dello scritto tende a sottolineare la radicale differenza che separa in modo irrimediabile le due metà, che pur «vivendo l’una per l’altra non si amano» (CI, p. 400).

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Il saggio prende in analisi il caso di Juno Calypso, giovane fotografa britannica specializzata in serie autoritrattistiche. Gli scatti, estremamente omogenei, ricreano un immaginario vintage zuccheroso e barocco abitato dal suo alter ego Joyce, una donna intrappolata in un estenuante processo di femminilizzazione e perfezionamento. Nelle diverse serie analizzate, un ruolo centrale è ricoperto dagli spazi domestici, in particolare camere da letto e bagni, scelti e utilizzati con estrema cura. Attraverso l’obiettivo di Calypso le stanze, dalla casa della nonna alla suite matrimoniale dei Love Hotel fino al bunker del patron dei cosmetici Avon, rivelano la sua natura artificiosa di set ipertrofico che ospita la rigida messa in scena di Sé della donna e allude all’intimità virtuale e posticcia della cultura dei bedroom selfie.

The essay examines the case of Juno Calypso, a young British photographer who specializes in self-portrait series. The highly homogeneous shots recreate sugary, baroque vintage imagery inhabited by her alter ego Joyce, a woman trapped in a laborious process of feminization and refinement. In the different series analyzed, domestic spaces, particularly bedrooms and bathrooms, chosen and used with extreme care, are played a central role. Through Calypso's lens, each room, from the grandmother's house to the Love Hotel's bridal suite to the Avon cosmetics patron's bunker, reveals its contrived nature as a hypertrophic set that accommodates the rigid enactment of selves performed by the woman. In her work, she alludes to the virtual, posturing intimacy of bedroom selfie culture.

Nella recente Home Sweet Home 1970-2018. The British Home, A Political History, mostra curata da Isa Bonnet nei Rencontres d’Arles (2019) e dedicata al peculiare rapporto tra i britannici e la loro casa, stupisce trovare un autoscatto di Juno Calypso in un bunker americano. Se avrete la pazienza di leggere le righe seguenti, capirete perché.

Juno Calypso, classe 1989, è una giovane e pluripremiata fotografa britannica che si è affacciata sulla scena internazionale con le serie Joyce I (2012), vincitrice dell’Art Catlin Award, per essere poi consacrata dall’International Photography Award nel 2016. Tutti i suoi lavori artistici sono progetti autoritrattistici che sviluppa in serie, ai quali si sono aggiunte commissioni glamour come quella di Billie Eilish per la copertina di «Garage Magazine» (issue 16), per Stella McCartney (2017), per Burberry (2018). In Italia le sue fotografie sono state esposte allo Studio Giangaleazzo Visconti e alla Fondazione Prada a Milano.

Nel primo e più ampio progetto, Joyce, diviso in due serie, la prima del 2012 e la seconda del 2015, Calypso ha dato vita a un alter ego, Joyce, una sorta di casalinga disperata degli anni Settanta intrappolata in zuccherosi e irraggiungibili ideali di bellezza e femminilità. Ai primi scatti analogici centrati sulla performance dell’autrice che interpreta in mezzo busto frontale una receptionist, un’impiegata, una promoter, un’assistente di volo – per fare solo alcuni esempi – sono seguiti autoritratti intimi situati in camere da letto immaginarie. Al banco e al fondale grigio delle lavoratrici si sono sostituiti spazi più articolati con arredamenti retrò come la casa della nonna o le camere da letto di alcuni amici. L’elemento distintivo della serie Joyce, e più in generale delle opere di Juno Calypso, risiede proprio nella scelta e nell’elaborato allestimento dei set fotografici, patinati e rigorosamente in interni privati, che assegnano all’ambiente domestico un ruolo di comprimario negli autoritratti dell’artista. L’importanza del luogo è testimoniata dalla scelta originale delle ambientazioni delle sue opere e dalla preferenza accordata ai formati ampi, poco comuni negli scatti autoritrattistici.

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Dalle fotografie scattate nelle case e nei ‘catoi’ di Palermo negli anni ’80 fino alle immagini di nudo realizzate soprattutto negli ultimi anni della sua carriera, le fotografie di Letizia Battaglia raccontano di un mondo femminile costantemente in bilico tra l’inabitabilità – della città, della casa, del proprio corpo – e il tentativo di ri-collocarsi al centro della scena. Attraverso l’analisi di alcuni scatti, e provando a ricostruire alcuni eventi che hanno segnato la vita della fotografa palermitana, obiettivo di questa riflessione è quello di ri-tracciare nello sguardo di Letizia Battaglia nuove pratiche di rappresentazione che hanno permesso alle donne di ‘prendere posto’, di ‘essere a casa’ dentro e fuori lo spazio fotografico.

From the photographs taken in the houses and ‘catoi’ of Palermo in the 1980s, to the nude images made especially in the last years of her career, Letizia Battaglia’s photographs tell about a female world constantly poised between uninhabitability – of the city, of the house, of her own body – and the attempt to re-locate herself at the center of the scene. Through the analysis of some shots, and trying to reconstruct some events that marked the life of the photographer, this reflection aims to re-trace in Letizia Battaglia’s gaze new practices of representation that allowed women to ‘take their place’, to ‘be at home’ inside and outside the photographic space.

Non mi veniva di fotografare gli uomini, i politici. Mi venivano male, sfocati, brutti. Nelle fotografie avevo bisogno di fotografare le donne, perché fotografavo me stessa.

 

 

Il titolo di questa riflessione prende in prestito la didascalia che accompagna una fotografia scattata da Letizia Battaglia, nel 1978, in una casa del quartiere Kalsa di Palermo [fig. 1]. La foto – di certo una delle più famose tra le molte realizzate dalla fotografa recentemente scomparsa – ci mostra una donna distesa sul letto insieme ai suoi due bambini: i tre trascorrono lì le loro giornate. Molto poco dell’ambiente circostante trova posto nello spazio fotografico: ad occupare l’inquadratura sono, infatti, la donna e i bambini uniti dalle povere coperte a loro disposizione, un unico corpo a tre teste fatto di carne (s)formata dalla miseria. È la didascalia a suggerirci, invece, l’interpretazione del contesto, lavorando come indice informativo di geo-localizzazione: «In questa casa non ci sono né luce né acqua». Ciò che questa fotografia immediatamente ci restituisce è, insomma, la visione di una «grande tragedia» – così come la definì la stessa Battaglia durante una delle nostre lunghe chiacchierate, ma anche nel senso di «corpo tragico» della fotografia (Grazioli 1998) – ovvero quello di una donna il cui destino è già tutto racchiuso nell’unica postura concessa dall’inabitabilità della casa in cui è costretta a vivere –.

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Nel 2003 due collezionisti ritrovano, in un flea market di Manhattan, una scatola contenente centinaia di polaroid, scattate nella cittadina di Hunter (NY) e risalenti agli anni Sessanta. È l’inizio della storia pubblica di Casa Susanna. Riemerge un vero e proprio mondo, rimasto sommerso per cinquant’anni: luogo sicuro per donne trans, persone non binarie e travestiti – in anni in cui la rivoluzione sessuale e il primo attivismo queer erano ancora di là da venire –, Casa Susanna trasformava il contesto della casa borghese di una cittadina della provincia americana in un’autentica eterotopia, all’interno della quale poter sperimentare forme di identità non concesse altrove. Adottando una metodologia che si pone a cavallo tra i visual studies, i queer studies e la teoria della fotografia, le autrici intendono esplorare i complessi atti di sovversione che avvengono nel microcosmo-salotto di Casa Susanna, sospeso tra l’assimilazione del modello domestico patriarcale della cultura di massa, e la creazione di un’identità fotografica e performativa che qui disegna e scopre i propri margini di libertà.

In 2003 two collectors found, in a flea market in Manhattan, a box containing hundreds of polaroid, taken in the small town of Hunter (NY) and dating back to the 1960s. This is the beginning of the public history of Casa Susanna. An entire world, remained unknown for fifty years, resurfaces: a safe place for trans women, non-binary people and transvestites – when the sexual revolution and the queer activism were still to come –, Casa Susanna transformed a middle-class house in a small provincial town into an authentic heterotopia, within which one could experiment forms of identity not allowed anywhere else. Employing a methodology that crosses visual studies, queer studies, and theory of photography, the authors aim to explore the acts of subversion that took place in the microcosm-living room of Casa Susanna, suspended between the assimilation of the patriarchal domestic model of mass culture, and the creation of a photographic and performative identity that only there was able to draw and discover its own margins of freedom.

1. La fotografia come pratica identitaria

Nel 2004 Robert Swope e Michael Hurst recuperano in un flea market di New York 340 fotografie realizzate tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Sono foto di donne trans, persone non binarie e cross-dresser, che posano sorridenti davanti a un obiettivo, in abiti femminili. La maggior parte è stata realizzata allo Chevalier d’Eon (1955-1963) e a Casa Susanna (1964-1969), due resort diretti da Susanna Valenti nella periferia dell’Upstate New York. Nello spazio messo a disposizione da Valenti si potevano sperimentare in sicurezza forme di identità non concesse altrove. Se al di fuori del resort i soggetti conducevano vite ordinarie e male-presenting, allo Chevalier d’Eon prima, e a Casa Susanna poi, potevano indossare parrucche e truccarsi, senza imbarazzo né timore. Qui si riuniva la comunità statunitense di cross-dresser, libera di impersonare alter ego femminili, senza cadere vittima dei dispositivi di controllo e regolamentazione del genere che caratterizzavano la società americana (De Leo 2021).

In questo contesto, la fotografia svolge un ruolo cruciale. Non si tratta della semplice documentazione di momenti all’interno della casa, ma di un attestato di esistenza per le identità femminili, che potevano essere esibite solo in quello spazio. Il medium fotografico appare lo strumento perfetto per la negoziazione identitaria (Hackett 2018), offrendo consistenza alle esperienze limitate ai fine settimana nel resort. I soggetti fotografati posavano esplorando con consapevolezza gli stereotipi femminili, adottando precise strategie estetiche per alimentare la narrazione della loro quotidianità. È la stessa Susanna a confermare la centralità della fotografia come garanzia di naturale femminilità, al pari – se non di più – di trucco e abiti (Valenti 1962). Valenti attribuiva il merito di un simile risultato a Edith Eden, ospite frequente dello Chevalier d’Eon, e fotografa amatoriale. All’interno della raccolta in analisi, nove stampe ai sali d’argento sono opera di Eden, denotando anche una certa ricerca stilistica, seppure dilettantesca. L’unica altra autrice identificata degli scatti è Andrea Susan. Come riporta il «New York Times», Susan disponeva di una camera oscura all’interno del resort, per evitare di far circolare i negativi all’esterno (Green 2006). Le restanti foto (280) non sono riconducibili a un’unica mano: le ospiti si passavano l’apparecchio, giocando davanti e dietro l’obiettivo. Eppure, come già Swope segnalava, senza conoscere molto delle foto rinvenute, uno spirito comune le informa: «Il senso della comunità, la tenerezza, la giocosità e molto spesso uno sguardo franco rivolto alla camera, come a dire: sì, questa sono io. Sono come te» (Swope 2005, p. 1) [fig. 1].

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Questo breve saggio tiene come punto di partenza implicito la considerazione dello spazio domestico, delle relazioni che storicamente lì si sono strutturate – e ancora si strutturano – e del lavoro che lì si consumava e si consuma, come uno dei centri della critica alla produzione capitalistica da parte di posizionamenti femministi considerati, a ragione, anche molto distanti tra loro. La casa, dunque, come spazio generatore di conflitto politico, la casa come luogo dal quale, paradossalmente, partire per una critica alla privatezza e per tornare, rilanciandola, sulla differenza tra personale e privato (Fraire 2002; Pasquinelli 1977). Nell’agosto del 1974 Carla Lonzi scrive, nel suo Taci, anzi parla. Diario di una femminista (1978), di star progettando la realizzazione di alcuni «filmini sui gesti delle donne che provvedono al sostentamento dell’umanità: rigovernare, accudire i bambini, i malati, ecc.». Questo piano, mai realizzato, ma al quale Lonzi si cura di dare anche un titolo (‘Cultura femminile del sostentamento dell’umanità’) sarà l’oggetto al centro del saggio, analizzato in relazione alla serie di fotografie che Lonzi inserisce nello stesso Diario (Bertelli 2021a, Bertelli 2021b; Cardone 2014). Il saggio studia questi progetti lonziani, al di là della loro modalità di realizzazione, come compiuti atti espressivi, leggendoli come uscita possibile alla critica dell’atto artistico e del mito dell’artista sulla quale Lonzi insiste già a partire dalla metà degli anni Sessanta, e che diventerà, come già ampiamente studiato, un tema ricorrente ed esemplare del suo femminismo (Conte, Fiorino, Martini 2011; Iamurri 2016).

This short essay holds as an implicit point of departure the consideration of domestic space, of the relationships that historically have been structured there – and even still are structured there – and of the labor that was and still is consumed there, as one of the centers of critique of capitalist production by feminist positionings considered, with good reason, also very distant from each other. The home, then, as a space that generates political conflict, the home as a place from which, paradoxically, to start for a critique of privateness and to return, relaunching it, to the difference between the personal and the private (Fraire 2002; Pasquinelli 1977). In August 1974 Carla Lonzi wrote, in her Taci, anzi parla. Diario di una femminista (1978), that she was planning to make some «short films on the gestures of women who provide for the sustenance of humanity: cleaning up, caring for children, for the sick, etc.». This plan, which was never realized, but to which Lonzi also takes care to give a title (‘Female culture of humanity sustenance’) will be the object at the center of the essay, analyzed in relation to the series of photographs that Lonzi includes in the same diary (Bertelli 2021a, Bertelli 2021b; Cardone 2014). The essay studies these projects, beyond their mode of realization, as accomplished acts of expression, reading them as a possible exit to the critique of the artistic act and the myth of the artist on which Lonzi already insists since the mid-1960s, and which will become, as already extensively studied, a recurring and exemplary theme of her feminism (Conte, Fiorino, Martini 2011; Iamurri 2016).

1. Spazio domestico e ‘gesti fatti di aria’

Al di là dell’apparente, presunta immediatezza del genere diaristico, Taci, anzi parla. Diario di una femminista (1978) di Carla Lonzi è un libro ostico: ci lascia continuamente nell’apertura, quando non nelle contraddizioni – a dire il vero ovvie, se pensiamo al fatto che copre, a cadenza più o meno quotidiana, le trasformazioni di un periodo lungo quattro anni e mezzo (agosto 1972-gennaio 1977) – e, nello stesso tempo, nel continuo ribattere errante sulla stessa questione irrisolvibile, non chiudibile: l’autocoscienza.

In una pagina dell’agosto 1974, formulando l’ipotesi relativa a un progetto documentario sul gesto femminile, Lonzi scrive alcune righe, già al centro del mio ragionamento in altri scritti (Bertelli 2021a; Bertelli 2021b), che risultano un importante punto di attacco per una riflessione sullo spazio domestico:

 

Questo passo pone la questione del senso dell’operazione documentaria come mediazione estetica rimasta incompiuta, e della sua rimediazione nel diario. Tale rimediazione permette di cogliere l’intera operazione come operazione critica di ‘visibilizzazione’ di prassi, relazioni e oggetti altrimenti relegati ai margini, nell’insignificanza dal punto di vista del loro apporto culturale. Partire dalla visibilità di quei gesti è un modo per «mettersi intorno quella casa che lei è» (Irigaray 1984, p. 55) e riguarda allora il processo opposto, quanto al suo significato, rispetto a un’estetizzazione della tradizione che situa la donna nella casa, facendo di quest’ultima l’elemento protettivo e, insieme, imprigionante (un «esilio interno», ancora con le parole di Irigaray). In primo luogo, dunque, è evidente che a questi gesti è assegnata una nuova iscrizione simbolica che ne fa emergere tutta la loro rilevanza politica nella misura in cui essi, attraverso la radicale revisione critica del femminismo, sono decisamente sottratti alla dimensione privata, intesa come sfera separata da quella pubblica, che sarebbe figlia di un altro ordine. Non si tratta soltanto di smascherare la natura economica del privato e di porre l’attenzione sui rapporti sociali che nascono all’interno dello spazio domestico, ma si tratta di ripercorrere e risignificare tale spazio. Ciò riguarda, ovviamente, tanto una parte del modo in cui le donne sono state nella storia quanto una parte delle ragioni dalle quali, storicamente, ha preso avvio la presa di parola femminile: «L’autocoscienza diventa il metodo di politicizzazione del privato» (Pasquinelli 1977; Cfr. Fraire 2002, pp. 71-83), politicizzazione che è stata, com’è ampiamente noto, tradotta nella formulazione ‘il personale è politico’, laddove nell’adozione del termine ‘personale’ si consuma la demistificazione della separazione delle due sfere, della donna come soggetto naturale e impolitico, e della politica come amministrazione del potere. Nelle parole di Lonzi appare, allora, anche un senso ulteriore, punto che costituisce il centro della mia riflessione in queste pagine.

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Il 23 marzo 2022 la redazione di Arabeschi ha incontrato e intervistato Marco Antonio Bazzocchi per discutere di Alfabeto Pasolini, pubblicato da Carocci (2022), seconda edizione rivista di "Pier Paolo Pasolini" (Mondadori, 1998). L'incontro si è svolto in occasione del convegno Lampeggiare nello sguardo: attrici e attori nel cinema di Pasolini, tenutosi il 24 marzo 2022 presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università di Catania per celebrare il centenario della nascita dello scrittore. La nuova edizione dello studio rappresenta l'occasione per tornare ad attraversare alcuni nodi essenziali della poetica pasoliniana, sintetizzati nel volume in forma di lemmi, secondo la formula già rodata dell'alfabeto-atlante. La conversazione si è mossa a partire da alcune considerazioni relative al processo di aggiornamento del vocabolario e ha poi affrontato diverse questioni cruciali per intendere l'itinerario artistico di Pasolini.

 

Riprese audio-video: Alessandro Di Costa

Montaggio: Alessandro Di Costa, Giovanna Santaera

 

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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
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Partendo da alcune osservazioni sull’attorialità nel teatro contenute nel Manifesto per un nuovo teatro di Pasolini, il contributo approfondisce, in particolare, la distanza che intercorre fra le idee pasoliniane sulla natura dell’attorialità cinematografica e le riflessioni relative a funzione e pratica dell’attore teatrale.

Starting from some observations on theatrical actorship contained in Manifesto per un nuovo teatro of Pasolini, the article explores, in particular, the difference between Pasolini’s ideas on the nature of cinematographic actorship and the thoughts related to the function and the practice of theater actor. 

 

Benché non abbia mai trattato il tema in maniera sistematica, Pasolini ha elaborato una serie di riflessioni sulla sua pur limitata esperienza di attore, di spettatore che assiste a differenti performance attoriali sia in sede teatrale sia cinematografica, e soprattutto sulla sua pratica di direttore di attori nonché di responsabile del casting dei propri film, dalle quali è possibile estrapolare una vera e propria teoria dell’attore. È quanto hanno dimostrato ampiamente Stefania Rimini e Maria Rizzarelli in un loro recente saggio (2021), riccamente documentato e articolato.

Le considerazioni che seguono, in certi casi, ne riprendono le suggestioni, cercando di integrarle approfondendo, in particolare, la distanza che intercorre fra le idee pasoliniane sulla natura dell’attorialità cinematografica e quelle relative a funzione e pratica dell’attore teatrale. La vastità del tema e l’estemporaneità delle considerazioni di Pasolini, recuperate da una pluralità di fonti eterogenee, rendono impossibile qualsiasi pretesa di sistematicità, che può essere invece recuperata in interventi specifici sul rapporto con particolari figure di attori ai quali Pasolini era particolarmente legato. Ci auguriamo che le riflessioni proposte possano essere considerate una sorta di ‘secondi sondaggi’ per una doppia teoria pasoliniana dell’attore, il cui valore euristico consiste principalmente nel far affiorare con maggiore evidenza la distanza che separa, nella sua concezione, il cinema dal teatro, non solo sotto il profilo semiologico e culturale ma – verrebbe da dire – ontologico ed esistenziale.

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«La sera, quando vado a dormire, mi raggomitolo in fondo al letto per fare spazio ai corpi della foto, e parlo loro sotto le lenzuola» (p. 28). Così si conclude Primo amore, il secondo dei brevi testi che compongono L’immagine fantasma di Hervé Guibert (Contrasto, 2021), instaurando, fin da subito, una serie di coordinate all’interno delle quali la scrittura fotografica si fa corpo attraverso una dinamica che trascende l’attestazione di realtà o la dinamica memoriale. Emerge, piuttosto, in queste pagine, dalla forma quasi di brevi istantanee, flash, scatti fotografici che oscillano dall’aneddotica alla riflessione, un continua tensione verso un effetto contraddittorio che si esplica nella metafora di Pigmalione e, contemporaneamente, nel suo rovescio: il rapporto soggettivo, finanche fisico, che Guibert istaura con le immagini fotografiche sta a testimoniare di una tensione di vivificazione di ciò su cui lo sguardo si posa (i corpi a cui fare spazio sotto le lenzuola) e, insieme, di un desiderio di bloccare la realtà, farla immagine, osservarla come se fosse (o perché potrebbe essere) una fotografia; o, anche, come surrogato, traslato di un atto interdetto: lo scatto fotografico come sublimazione di un abbraccio, come trasfigurazione di una sessione vissuta «con la potenza sorda di un incesto» (p. 24).

L’immagine fantasma è un testo di difficile definizione, una raccolta di scritti brevi o brevissimi che ruotano tutti attorno a un’‘esperienza’ dell’immagine fotografica, nei registri discorsivi più diversi: in uno spettro che va dal mimetismo dell’articolo di giornale all’appunto sul diario fino al racconto familiare. Il desiderio è il principale prisma percettivo e la mano che guida la scrittura de L’immagine fantasma: la fotografia è «una pratica d’amore» (p. 18), un’emozione, «una forma di possesso meno violenta di un crimine» (p. 116), «un rimpianto» (p. 29), o un atto liberatorio (anche da uno sguardo vincolante, come nel caso del testo eponimo in cui sotto la guida del figlio la madre esce dallo sguardo costrittivo del marito); o ancora può essere il ricordo di un’emozione, che, tuttavia, è in grado di sopravvivere solamente se riattivato dalla scrittura (e infatti, e contro una tradizione consolidata, la fotografia, come atto di memoria, è impossibile). Se non è riappropriata attraverso lo sguardo desiderante della scrittura, l’immagine resta inattingibile: le stesse foto di famiglia, uno dei luoghi più fecondi dell’inventio letteraria almeno da mezzo secolo a questa parte (e che pure lo stesso Guibert ha sfruttato, per esempio in Suzanne et Louise, seppur facendone una storia di fantasmi), non dicono nulla, rimangono estranee, come «per un amnesico» (p. 31). Si dispiegano così le trame del controfattuale, della ricerca di un legame viscerale e erotico con la foto, nelle forme del voyeurismo, dell’eccitazione, dell’angoscia per l’attestazione di una scomparsa che è quella, in primo luogo, della vitalità corporea, della crudeltà della storia della degradazione dei corpi: «l’immagine è l’essenza del desiderio e desessualizzare l’immagine sarebbe ridurla alla teoria» (p. 97). E non si tratta di un desiderio neutrale, le riflessioni e i micro-récits di Guibert recitano il copione di un romanzo di formazione omosessuale: il desiderio incestuoso nei confronti della figura giovanile (e ormai sfiorita) del padre che si mescola alla volontà (simbolica) di uccisione, l’attaccamento alla madre, la pederastia, l’ossessione per i giovani corpi maschili, il voyeurismo, l’attenzione al feticismo (immagini come reliquie seppur conservate in una umile scatola di cartone perché il desiderio, in una linea che dal Vautrin balzachiano passa per Jean Genet fino a arrivare a Walter Siti mescola continuamente banalità, degrado e sublimazione).

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Parrebbe databile all’ultimo decennio un’attenzione finalmente costante a un fenomeno invece assai più di lunga durata qual è il fototesto, sia in quanto oggetto di studio che come definizione, e più annosa la cosa che la parola, se è vero che la prima risale a Georges Rodenbach, Bruges-la-morte (1892), e la seconda a Wright Morris, The Inhabitants (1974). Più di ottant’anni. Il fatto è che per la resistenza teorica diffusa verso gli oggetti ibridi e non classificabili, si è dovuto attendere che il fototesto venisse derubricato da genere letterario a oggetto nella gamma dei mixed media.

Ora il fototesto riceve in Italia una sistemazione teorica in questo volume di Giuseppe Carrara, Storie a vista. Retorica e poetiche del fototesto (Mimesis, 2020), destinato a essere maneggiato a lungo dagli studiosi e dagli studenti, per la completezza e l’apertura dell’informazione sulle teorie, per l’originalità con cui affronta i nodi e propone (provvisorie) soluzioni e definizioni (la ‘retorica’ del sottotitolo), ma pensiamo soprattutto per l’efficacia con cui le teorie e i metodi servono alla lettura di testi disparati (le ‘poetiche’), con l’ambizione di designare un canone del fototesto ma più efficacemente – riconosce infine lo stesso autore – di tracciare percorsi. E testi si dice qui per comodità, non intendendo un ‘enunciato scritto’, perché deve abbandonarsi ormai l’idea gerarchica per cui l’immagine debba servire alla parola. Ed è anzi questo, poi, il dubbio: funzionerebbero i fototesti anche senza immagini? Come mai la parola letteraria ha bisogno delle immagini? Non ha più nel mondo in cui viviamo l’energia di produrre autonomamente immagini (le images, le immagini immateriali che si formano nella mente del lettore, di cui parla W.J.T. Mitchell), che sarebbe poi il mestiere della letteratura?

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