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  • 'Paesaggi di vita'. Mito e racconto nel cinema documentario italiano (1948-1968) →
Abstract: ITA | ENG

Dalle indagini antropologiche di Annabella Rossi, selezionando una serie di scatti dal suo corpus fotografico, emergono episodi e rappresentazioni di specifici microcosmi che l’antropologa romana ha saputo raccontare anche per mezzo della sua macchina fotografica. Dentro il campo di tensioni visuali a cui si è sempre esposta, si schiude con pregnante vitalità un universo femminile capace di narrare un misticismo religioso e laico insieme. La donna assurge a soggetto-chiave capace di interpretare, al di là del ruolo di custode del focolare, una dimensione religiosa necessaria per la sopravvivenza sua e della comunità rurale a cui appartiene. La ricostruzione di questa particolare iconosfera, dentro quella che la studiosa definiva una cultura della miseria, mette insieme quindi, una variegata rappresentatività femminile. Dalle immagini delle invasate, mediatrici e garanti del simbolismo magico-rituale e dell’efficacia delle formule di guarigione collettiva, giunge ai ritratti di bambine fotografate durante un pellegrinaggio o un carnevale, dirette discendenti di una religiosità che va sempre più sfumando. Dalle feste religiose, dove le pratiche devozionali ricordano riti rifondati dall’antico, alla vita collettività e al lavoro domestico, il mito e il rito s’incarnano nel femminile scandendo il quotidiano, luogo di un misticismo dentro il quale il ruolo della donna sembra rivalersi dalla società patriarcale.    

Annabella Rossi's anthropological investigations, selecting a series of shots from her photographic corpus, reveal episodes and representations of specific microcosms that the Roman anthropologist has also been able to recount through her camera. Within the field of visual tensions to which she has always exposed herself, a female universe unfolds with pregnant vitality, capable of narrating a religious and secular mysticism at the same time. The woman becomes a key-subject capable of interpreting, beyond the role of guardian of the hearth, a religious dimension necessary for her survival and that of the rural community to which she belongs. The reconstruction of this particular iconosphere, within what the scholar defined as a culture of misery, thus brings together a variegated female representation. From the images of the invaders, mediators and guarantors of magic-ritual symbolism and the efficacy of collective healing formulas, she arrives at portraits of little girls photographed during a pilgrimage or a carnival, direct descendants of a religiosity that is increasingly fading. From religious festivals, where devotional practices recall rituals re-founded from the ancient, to community life and domestic work, myth and ritual are embodied in the feminine, punctuating the everyday, the site of a mysticism within which the role of women seems to be retaliating against patriarchal society.    

 

Lo sguardo dell’antropologa Annabella Rossi (1933-1984) tiene acceso il dibattito sulle scienze umane, l’etnografia e la demologia offrendo spunti di riflessione e prospettive epistemologiche che contemplano anche l’universo delle immagini. Riaprire il caso Rossi, come avviene già da qualche anno, significa, infatti, riconsiderarla nel mestiere di antropologa e fotografa insieme, ricordarla come pioniera tra le studiose italiane nell’utilizzo dei dispositivi visuali durante le sue indagini.

Nelle mani di Annabella Rossi la fotografia – da sempre capace di rafforzare la veridicità scientifica delle indagini antropologiche (Chiozzi 2000, pp. 18-19) – non corrobora solo l’impianto metodologico ma diviene linguaggio indispensabile all’inefficacia delle parole. Se nel ruolo di sceneggiatrice il suo scrivere è stato considerato retorico, come ha dichiarato in un’intervista Luigi Di Gianni, riferendosi alla realizzazione di documentari che portavano la sua firma e la collaborazione della studiosa (Di Gianni 2014), è la stessa Rossi a dichiararsi consapevole di quanto le parole, in forma di ecfrasi e seppur calibrate, siano rese vane davanti alla cultura della miseria, incapaci di esprimere con interezza gli aspetti esistenziali che si manifestano ai suoi occhi. La condizione umana entro cui si immerge e l’impossibilità di raccontarla a parole sembrano obbligare Rossi all’utilizzo della fotografia a tal punto da farne una consuetudine: «mi sono abituata ad usare ‘naturalmente’ la macchina fotografica anche perché, a mio parere, spesso una intera pagina non riesce a documentare, né a trasmettere ciò che può una sola immagine» (Rossi 1971, pp. 26-29). Se l’impronta demartiniana rimane la cifra metodologica riconoscibile all’interno del suo lavoro, è munirsi di un ‘terzo occhio’ che le permette di leggere il senso profondo della realtà, di intuire in primis che è dallo sguardo che l’immagine trae forza e significato. Interposto tra lei e quel mondo, quindi, il dispositivo fotografico diventa un medium che mantiene a debita distanza di sicurezza l’antropologa, pur consentendole allo stesso tempo di avvicinarsi fino ad entrare in contatto con quell’umanità stigmatizzata dal dolore, dalla quale lei stessa non vorrà mai allontanarsi.

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  • 'Paesaggi di vita'. Mito e racconto nel cinema documentario italiano (1948-1968) →
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Esiste una storia del Sud Italia attraverso le sue fotografie. O meglio, esiste un racconto fotografico del Sud Italia fatto di generi e forme molto diverse. A questo crocevia di idee, visioni, ricerche, si colloca Mario Cresci con la sua lunga opera fotografia dedicata al paesaggio lucano tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta. Partendo dalle prime fotografie scattate da Cresci a Tricarico (1966-1967) finalizzate alla realizzazione del piano regolatore cittadino e arrivando alla documentazione di Viaggio in Italia (1984), il saggio si propone di tracciare un fil rouge in questa documentazione fondata su studi multidisciplinari e sulla commistione tra sguardo da outsider e sguardo da insider, dato che il fotografo ligure a un certo punto sceglie di vivere in Basilicata.

There is a history of southern Italy through its photographs. Or rather, there is a photographic narrative of southern Italy made up of very different genres and forms. Mario Cresci can be placed at this crossroads of ideas, visions, and research because of his long photographic work on the Lucanian landscape between the late 1960s and the late 1980s. From his first pictures taken in Tricarico (1966-1967) for the city's urban development plan to the pictures included in Viaggio in Italia (1984), the essay aims to trace a common thread in this photographic work based on multidisciplinary studies and on the combination of an outsider's and both an insider's gaze, since at one point the Ligurian photographer chooses to live in Basilicata.

 

Esiste una storia del Sud Italia attraverso le sue fotografie. O meglio, esiste un racconto fotografico del Sud Italia. Dal Grand Tour alla fotografia contemporanea, il Meridione è stato oggetto di due sguardi: quello dell’osservatore esterno (outsider, il fotografo straniero o italiano non appartenente al luogo) e quello dell’osservatore interno (insider, il fotografo che appartiene al luogo). Nel primo caso rientrano vari protagonisti della storia della fotografia: da Wilhelm von Gloeden a Steve McCurry, passando per i Fratelli Alinari, Henri Cartier-Bresson, David Seymour, Thomas Hoepker, Josef Koudelka, Nino Migliori, Lisetta Carmi, Paolo Monti, ecc.. Il secondo caso si divide tra ricerche territoriali già note (Letizia Battaglia, Mimmo Jodice, Antonio Biasucci, Carmelo Nicosia, ecc.) e altre ancora da scoprire (i fondi fotografici non archiviati e valorizzati). Si tratta di approcci diversi – documentarismo, ricerca etnografica, reportage, concettualismo – e spesso interdisciplinari – scienza e fotografia (Ernesto De Martino), scrittura e immagini (Seymour e Carlo Levi), cooperazione tra fotografi (l’emblematico Viaggio in Italia di Luigi Ghirri).

A questo crocevia di idee, visioni, ricerche si colloca Mario Cresci con la sua lunga opera fotografica dedicata al paesaggio lucano tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta (Quintavalle 2019). Un’opera fondata su «studi multidisciplinari» (Cresci 2024) e sulla commistione tra sguardo da outsider e sguardo da insider, dato che il fotografo ligure (nato a Chiavari nel 1942), formatosi a Venezia (Corso Superiore di Disegno Industriale dal 1964), a un certo punto sceglie di vivere in Basilicata (tra il 1974 e il 1990 circa).

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  • 'Paesaggi di vita'. Mito e racconto nel cinema documentario italiano (1948-1968) →
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Il presente contributo intende prendere in esame il cinema di Michele Gandin riflettendo sulla dinamica performativa del documentario, tra la rimessa in scena di gesti antichi, solenni, senza tempo, atta a restituire una dimensione astorica e ancestrale al rito, e l’azione pratico-politica tesa a sollecitare e promuovere una presa di coscienza, di emancipazione da parte della popolazione del Sud.

This paper aims to examine Michele Gandin's cinema by reflecting on the performative dynamic of the documentary, between reenacting ancient, solemn, timeless gestures, apt to restore an ahistorical and ancestral dimension to the ritual, and the practical-political action aimed at soliciting and promoting an awareness, emancipation on the part of the population of the South.

 

Dopo aver lavorato come assistente di Vittorio De Sica in Teresa Venerdì (1941) e, l’anno seguente, in Un garibaldino al convento (1942), Michele Gandin nel dopoguerra affianca l’attività documentaristica, concentrandosi prevalentemente sulle classi subalterne, gli emarginati, la comunità contadina e i bambini, a quella di critico cinematografico per il periodico «Cinema» (Gandin, 1950). Nel 1950, sulle pagine della rivista, il regista traccia gli elementi portanti della sua poetica, suggerendo ai lettori di cogliere il lato nascosto della realtà, prima con una macchina fotografica e in seguito con la macchina da presa, il dettaglio e tutto ciò che una visione superficiale non permette di vedere (Antichi 2023). Gandin sostiene che la fotografia sia uno strumento più adatto rispetto al cinema per effettuare una prima indagine del reale, sia perché la fotocamera è «enormemente più maneggevole e più rapida nell’uso, meno visibile», in grado di «poter agire in qualsiasi condizione di spazio e di luce», sia perché, sostituendo una realtà in movimento con una realtà immobile, «permette alla macchina da presa un lavoro di analisi – nell’interno dell’inquadratura – altrimenti impossibile. […] Senza contare che un’immagine – se fermata intelligentemente ad un momento X – ha quasi sempre una capacità rivelatrice molto maggiore della stessa immagine in movimento e permette quindi impensati approfondimenti psicologici e sociali» (Gandin, 1950, p. 153).

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14. Colchide (vari ambienti) Interno. Esterno. Giorno Medea. Rito lunare. La luna è legata alle corna delle vacche e alla fecondità. È legata al serpente. È legata alla spirale. È legata soprattutto alle acque. Nell’insieme questo complesso “solidale” rappresenta anch’esso una unità della fecondazione e della morte. Medea sa tutto questo. E officia, ispirata e quasi fanatica, il rito.

Questo è il breve brano del trattamento del film Medea (1969) dove, a pagina 32 dell’edizione Garzanti del 1970 (curata da Giacomo Gambetti), Pier Paolo Pasolini descrive il secondo rituale che la maga della Colchide avrebbe dovuto celebrare dopo quello, di crudele cannibalismo, consacrato al dio Sole che viene mostrato nel film. Il trattamento reca il primitivo titolo del film, Visioni della Medea, appropriato ad un lungometraggio che avrebbe dovuto essere ancora più visionario di quanto non sia la versione definitiva. Infatti da questa sono scomparse numerose sequenze previste nel testo preparatorio: le ‘visioni’ orgiastiche; i sogni ‘regressivi’ di Medea che a Corinto, ormai respinta da Giasone, sogna i sacrifici umani della Colchide; la sua abitazione a Corinto invasa da animali; le apparizioni del dio Sole che ha assunto sembianze antropomorfe e in particolare quella del primitivo finale, dove avrebbe dovuto condurre con sé la maga infanticida. Sono tutte sequenze che Pasolini aveva immaginato e che ha realizzato (con l’eccezione delle orge) ma che ha tagliato dall’edizione definitiva del film, probabilmente perché alcune non lo soddisfacevano e forse anche in seguito alle richieste del produttore Franco Rossellini, presumibilmente preoccupato dall’eventualità che il film superasse le due ore di durata (la versione definitiva dura 111’).

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Il ritorno è lontano di Alessandra Sarchi, pubblicato da Bompiani nel 2024, esplora con coraggio temi contemporanei attraverso la storia di Sara e di sua figlia Nina. La narrazione si concentra sulla separazione della madre da Nina, che lascia la casa per studiare in Germania, provocando in Sara un senso di perdita e destabilizzazione. Nina, attivista ecologista, cerca la propria autonomia, mentre Sara, insieme al marito Paolo, affronta l’arrivo di Pietro, un bambino che sconvolge ulteriormente la loro famiglia. La vicenda evidenzia le complesse dinamiche emotive e relazionali tra madre e figlia, riflettendo anche le tensioni tra l’umanità e la natura. Il presente contributo mira a catturare l’impatto visivo, tipico della poetica di Sarchi, e le ambivalenze che segnano quest’opera, esplorando la maternità, la cura e la lotta per la salvaguardia del pianeta.

Il ritorno è lontano by Alessandra Sarchi (Bompiani 2024) bravely explores contemporary themes through the story of Sara and her daughter Nina. The narrative focuses on Sara’s separation from Nina, who leaves home to study in Germany, causing Sara to experience a sense of loss and destabilization. Nina, an environmental activist, seeks her own autonomy, while Sara, together with her husband Paolo, faces the arrival of Pietro, a child who further disrupts their family. The story highlights the complex emotional and relational dynamics between mother and daughter, also reflecting the tensions between humanity and nature. This paper aims to capture the visual impact, typical of Sarchi’s poetics, and the ambivalences that mark this work, exploring themes of motherhood, care, and the struggle to protect the planet.

Le vicende del tempo presente non si prestano facilmente alla rappresentazione letteraria; la narrazione necessita della mediazione indispensabile della memoria che ne deposita il senso. Il ritorno è lontano, l’ultimo romanzo di Alessandra Sarchi, con grande coraggio non esita a fare di temi attualissimi carne e sangue della propria scrittura, in coerenza con la convinzione, già espressa nelle sue opere precedenti, che «compito della letteratura sia quello di addentrarsi dentro la vita e provare a descriverla, darle una forma, attraverso la lingua e la struttura, che ci permetta di percepirla nella sua prismaticità».[1]

Il romanzo racconta una vicenda scarna di azioni, centrata su Sara, una donna matura, destabilizzata per la separazione dalla giovane figlia Nina che lascia il nido domestico per andare a studiare in Germania. Tale evento è vissuto da Sara come una mutilazione che ne mina l’identità perché le sottrae la dimensione della cura. Nina, militante ecologista, sceglie di frequentare l’università lontano da casa, non solo per i proclamati motivi di studio, ma anche per una ferma volontà di autonomia: «ho bisogno di staccarmi da mia madre. Non è che non andiamo d’accordo, è solo che preferisco stare lontano da lei e da mio padre. Mi fa piacere vederli, ma di tanto in tanto. Qui mi sembra di essere più libera».[2]

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In occasione del centenario della nascita di Italo Calvino, il 28 agosto 2023, presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, la redazione di Arabeschi ha incontrato e intervistato Marco Belpoliti, curatore del volume Guardare. Disegno, cinema, fotografia, arte, paesaggio, visioni e collezioni (Mondadori 2023). Proponendo un insieme eterogeneo di testi saggistici, lo studio mette a fuoco un ampio spettro di questioni legate al rapporto tra Calvino e la visualità, e porta a maturazione un progetto che trova in un lavoro di quasi trent’anni fa – L’occhio di Calvino (Einaudi 1996; nuova edizione ampliata 2006) – il suo punto di partenza. L’incontro si muove dunque lungo l’itinerario rappresentato dagli sconfinamenti figurativi e audiovisivi del macrotesto dello scrittore, con la guida di chi per primo ha mostrato il rilievo del ‘guardare’ calviniano.

Videointervista a cura di: Alessandro Di Costa, Giancarlo Felice, Enrico Riccobene (riprese e montaggio), Maria Rizzarelli, Giovanna Santaera 

 

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  • Seeing Calvino/Vedere 'Le città invisibili' →

 

Prima della serie ‘le città e gli occhi’, Valdrada tematizza uno degli aspetti più pervasivi dell’opera di Calvino, il procedere per binarismi oppositivi per meglio riflettere sulle modalità e sulla fallacia delle nostre percezioni del reale. È solo una delle molte città speculari presenti nelle pagine delle Città invisibili (e i lavori successivi: basti pensare alla Foresta Radice-Labirinto, elaborata cinque anni più tardi, che evoca al contempo l’incatturabile Bauci e Sofronia, smontabile per metà). Ma se Eusapia è strutturata in forma apertamente binaria – con la necropoli che fa da ideale contraltare alla città dei vivi –, l’architettura e l’ethos di Valdrada non rispondono ai principi della simmetria, piuttosto a quelli della specularità: in questo più simile a Betsabea, città al contempo angelica e fecale. Come nei riflessi speculari delle stampe di Escher, tra le principali fonti visive dello scrittore, Valdrada è costituita dalla somma tra la città sopra il lago e quella «sulle rive d’un lago con case tutte verande una sopra all’altra e vie alte che affacciano sull’acqua i parapetti a balaustra» (CI, p. 399).

In molti, oltre a tentare di identificare i riferimenti teorici che hanno orientato l’immaginario di questa città doppia, si sono chiesti a quale specifica città Calvino si fosse ispirato, senza però ottenere risposte pienamente soddisfacenti. Certo è che, come per molti aspetti della sua opera, anche le scelte onomastiche sono state accuratamente vagliate tra una serie di alternative presenti negli abbozzi preparatori (Terrusi 2012). In questo caso il nome richiama una delle tante località di villeggiatura dei laghi lombardi (Valdrada è, inoltre, una principessa longobarda citata da Paolo Diacono), ma la duplicità stessa dell’architettura strizza l’occhio a Venezia – evocata a più riprese da Marco Polo – e alla natura della città più amata da Calvino, New York, continuamente riflessa nelle superfici specchianti dei grattacieli. Per paradosso, pur appartenendo alla serie più apertamente legata alla visualità, Valdrada appare tra le città meno chiaramente rappresentate all’interno di questo «inimitabile libro di figure senza illustrazioni» (Ravazzoli 1991, p. 147). Del resto, la struttura stessa dell’evocazione pare essere basata sul dispositivo retorico della correctio: se all’inizio viene accentuata l’idea della ripetizione dei gesti riflessi, la seconda buona metà dello scritto tende a sottolineare la radicale differenza che separa in modo irrimediabile le due metà, che pur «vivendo l’una per l’altra non si amano» (CI, p. 400).

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Il saggio prende in analisi il caso di Juno Calypso, giovane fotografa britannica specializzata in serie autoritrattistiche. Gli scatti, estremamente omogenei, ricreano un immaginario vintage zuccheroso e barocco abitato dal suo alter ego Joyce, una donna intrappolata in un estenuante processo di femminilizzazione e perfezionamento. Nelle diverse serie analizzate, un ruolo centrale è ricoperto dagli spazi domestici, in particolare camere da letto e bagni, scelti e utilizzati con estrema cura. Attraverso l’obiettivo di Calypso le stanze, dalla casa della nonna alla suite matrimoniale dei Love Hotel fino al bunker del patron dei cosmetici Avon, rivelano la sua natura artificiosa di set ipertrofico che ospita la rigida messa in scena di Sé della donna e allude all’intimità virtuale e posticcia della cultura dei bedroom selfie.

The essay examines the case of Juno Calypso, a young British photographer who specializes in self-portrait series. The highly homogeneous shots recreate sugary, baroque vintage imagery inhabited by her alter ego Joyce, a woman trapped in a laborious process of feminization and refinement. In the different series analyzed, domestic spaces, particularly bedrooms and bathrooms, chosen and used with extreme care, are played a central role. Through Calypso's lens, each room, from the grandmother's house to the Love Hotel's bridal suite to the Avon cosmetics patron's bunker, reveals its contrived nature as a hypertrophic set that accommodates the rigid enactment of selves performed by the woman. In her work, she alludes to the virtual, posturing intimacy of bedroom selfie culture.

Nella recente Home Sweet Home 1970-2018. The British Home, A Political History, mostra curata da Isa Bonnet nei Rencontres d’Arles (2019) e dedicata al peculiare rapporto tra i britannici e la loro casa, stupisce trovare un autoscatto di Juno Calypso in un bunker americano. Se avrete la pazienza di leggere le righe seguenti, capirete perché.

Juno Calypso, classe 1989, è una giovane e pluripremiata fotografa britannica che si è affacciata sulla scena internazionale con le serie Joyce I (2012), vincitrice dell’Art Catlin Award, per essere poi consacrata dall’International Photography Award nel 2016. Tutti i suoi lavori artistici sono progetti autoritrattistici che sviluppa in serie, ai quali si sono aggiunte commissioni glamour come quella di Billie Eilish per la copertina di «Garage Magazine» (issue 16), per Stella McCartney (2017), per Burberry (2018). In Italia le sue fotografie sono state esposte allo Studio Giangaleazzo Visconti e alla Fondazione Prada a Milano.

Nel primo e più ampio progetto, Joyce, diviso in due serie, la prima del 2012 e la seconda del 2015, Calypso ha dato vita a un alter ego, Joyce, una sorta di casalinga disperata degli anni Settanta intrappolata in zuccherosi e irraggiungibili ideali di bellezza e femminilità. Ai primi scatti analogici centrati sulla performance dell’autrice che interpreta in mezzo busto frontale una receptionist, un’impiegata, una promoter, un’assistente di volo – per fare solo alcuni esempi – sono seguiti autoritratti intimi situati in camere da letto immaginarie. Al banco e al fondale grigio delle lavoratrici si sono sostituiti spazi più articolati con arredamenti retrò come la casa della nonna o le camere da letto di alcuni amici. L’elemento distintivo della serie Joyce, e più in generale delle opere di Juno Calypso, risiede proprio nella scelta e nell’elaborato allestimento dei set fotografici, patinati e rigorosamente in interni privati, che assegnano all’ambiente domestico un ruolo di comprimario negli autoritratti dell’artista. L’importanza del luogo è testimoniata dalla scelta originale delle ambientazioni delle sue opere e dalla preferenza accordata ai formati ampi, poco comuni negli scatti autoritrattistici.

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Dalle fotografie scattate nelle case e nei ‘catoi’ di Palermo negli anni ’80 fino alle immagini di nudo realizzate soprattutto negli ultimi anni della sua carriera, le fotografie di Letizia Battaglia raccontano di un mondo femminile costantemente in bilico tra l’inabitabilità – della città, della casa, del proprio corpo – e il tentativo di ri-collocarsi al centro della scena. Attraverso l’analisi di alcuni scatti, e provando a ricostruire alcuni eventi che hanno segnato la vita della fotografa palermitana, obiettivo di questa riflessione è quello di ri-tracciare nello sguardo di Letizia Battaglia nuove pratiche di rappresentazione che hanno permesso alle donne di ‘prendere posto’, di ‘essere a casa’ dentro e fuori lo spazio fotografico.

From the photographs taken in the houses and ‘catoi’ of Palermo in the 1980s, to the nude images made especially in the last years of her career, Letizia Battaglia’s photographs tell about a female world constantly poised between uninhabitability – of the city, of the house, of her own body – and the attempt to re-locate herself at the center of the scene. Through the analysis of some shots, and trying to reconstruct some events that marked the life of the photographer, this reflection aims to re-trace in Letizia Battaglia’s gaze new practices of representation that allowed women to ‘take their place’, to ‘be at home’ inside and outside the photographic space.

Non mi veniva di fotografare gli uomini, i politici. Mi venivano male, sfocati, brutti. Nelle fotografie avevo bisogno di fotografare le donne, perché fotografavo me stessa.

 

 

Il titolo di questa riflessione prende in prestito la didascalia che accompagna una fotografia scattata da Letizia Battaglia, nel 1978, in una casa del quartiere Kalsa di Palermo [fig. 1]. La foto – di certo una delle più famose tra le molte realizzate dalla fotografa recentemente scomparsa – ci mostra una donna distesa sul letto insieme ai suoi due bambini: i tre trascorrono lì le loro giornate. Molto poco dell’ambiente circostante trova posto nello spazio fotografico: ad occupare l’inquadratura sono, infatti, la donna e i bambini uniti dalle povere coperte a loro disposizione, un unico corpo a tre teste fatto di carne (s)formata dalla miseria. È la didascalia a suggerirci, invece, l’interpretazione del contesto, lavorando come indice informativo di geo-localizzazione: «In questa casa non ci sono né luce né acqua». Ciò che questa fotografia immediatamente ci restituisce è, insomma, la visione di una «grande tragedia» – così come la definì la stessa Battaglia durante una delle nostre lunghe chiacchierate, ma anche nel senso di «corpo tragico» della fotografia (Grazioli 1998) – ovvero quello di una donna il cui destino è già tutto racchiuso nell’unica postura concessa dall’inabitabilità della casa in cui è costretta a vivere –.

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