3.2. «La donna e i suoi bambini stanno sempre a letto. In casa non ci sono né luce né acqua». Su alcune fotografie di Letizia, in ricordo di una ‘battaglia’

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Dalle fotografie scattate nelle case e nei ‘catoi’ di Palermo negli anni ’80 fino alle immagini di nudo realizzate soprattutto negli ultimi anni della sua carriera, le fotografie di Letizia Battaglia raccontano di un mondo femminile costantemente in bilico tra l’inabitabilità – della città, della casa, del proprio corpo – e il tentativo di ri-collocarsi al centro della scena. Attraverso l’analisi di alcuni scatti, e provando a ricostruire alcuni eventi che hanno segnato la vita della fotografa palermitana, obiettivo di questa riflessione è quello di ri-tracciare nello sguardo di Letizia Battaglia nuove pratiche di rappresentazione che hanno permesso alle donne di ‘prendere posto’, di ‘essere a casa’ dentro e fuori lo spazio fotografico.

From the photographs taken in the houses and ‘catoi’ of Palermo in the 1980s, to the nude images made especially in the last years of her career, Letizia Battaglia’s photographs tell about a female world constantly poised between uninhabitability – of the city, of the house, of her own body – and the attempt to re-locate herself at the center of the scene. Through the analysis of some shots, and trying to reconstruct some events that marked the life of the photographer, this reflection aims to re-trace in Letizia Battaglia’s gaze new practices of representation that allowed women to ‘take their place’, to ‘be at home’ inside and outside the photographic space.

Non mi veniva di fotografare gli uomini, i politici. Mi venivano male, sfocati, brutti. Nelle fotografie avevo bisogno di fotografare le donne, perché fotografavo me stessa.

 

 

Il titolo di questa riflessione prende in prestito la didascalia che accompagna una fotografia scattata da Letizia Battaglia, nel 1978, in una casa del quartiere Kalsa di Palermo [fig. 1]. La foto – di certo una delle più famose tra le molte realizzate dalla fotografa recentemente scomparsa – ci mostra una donna distesa sul letto insieme ai suoi due bambini: i tre trascorrono lì le loro giornate. Molto poco dell’ambiente circostante trova posto nello spazio fotografico: ad occupare l’inquadratura sono, infatti, la donna e i bambini uniti dalle povere coperte a loro disposizione, un unico corpo a tre teste fatto di carne (s)formata dalla miseria. È la didascalia a suggerirci, invece, l’interpretazione del contesto, lavorando come indice informativo di geo-localizzazione: «In questa casa non ci sono né luce né acqua». Ciò che questa fotografia immediatamente ci restituisce è, insomma, la visione di una «grande tragedia» – così come la definì la stessa Battaglia durante una delle nostre lunghe chiacchierate, ma anche nel senso di «corpo tragico» della fotografia (Grazioli 1998) – ovvero quello di una donna il cui destino è già tutto racchiuso nell’unica postura concessa dall’inabitabilità della casa in cui è costretta a vivere –.

Interrogare l’archivio di Letizia Battaglia significa, prima di tutto, ri-tracciare la forma di una impossibilità dell’abitare incarnata nelle storie di donne, madri, bambine, ma che è, allo stesso tempo, profondamente embricata alla storia della stessa Palermo, ossia radicata nello spazio di una città che ha fatto proprio della precarietà dell’abitare, della sua transitorietà, un suo dato strutturale. Le donne fotografate da Letizia emergono dalle macerie dello scellerato piano di urbanizzazione, così come dal ‘sacco’ che, dagli anni Cinquanta, ha fatto di gran parte di Palermo una waste land. È possibile distinguere, dunque, una prima forma di ‘inabitabilità’ che è certo materiale, generata tanto dalla cruda fisicità di strade e palazzi nobiliari che – ancora oggi – sovrastano vecchi ‘catoi’ e baracche, quanto dalla seconda guerra di mafia che, negli anni in cui Battaglia inizia a fotografare, si abbatte sulla città lacerandola; ma questa impossibilità geo-fisica dell’abitare – letteralmente di ‘avere luogo’ – si propaga oltrepassando le mura domestiche, trasformando la casa in luogo – per le donne – inospitale. Ancora Palermo, ancora 1978: una fotografia mostra una donna seduta in quella che sembra essere una cucina; tiene in braccio un neonato mentre altri due bambini, nudi, le stanno intorno. Lo sguardo della donna è assente, tradisce un’immobilità che scarta dal muto ‘congelamento’ proprio di ogni atto fotografico per risuonare nel tempo del reale, nella sua traccia. Ad aprire ulteriormente l’immagine è però, ancora una volta, la didascalia: «La notte il neonato piangeva disperatamente. La madre, troppo stanca, non si era svegliata, mentre un topo gli stava rosicchiando un dito della mano sinistra». Immobilità radicale. Still life, letteralmente.

 

1. «La fotografia è stata la mia salvezza»

 

A Palermo studiavo, ero libera e avevo tanti sogni ma un giorno tutto è precipitato: camminavo per strada quando un uomo, improvvisamente, mi venne vicino aprendosi il cappotto […] raccontai cosa mi era successo ai miei genitori. Mio padre decise di chiudermi in casa, di non farmi più uscire da sola […] da questa chiusura è nata tutta la mia storia, io da quel momento ho perso la spensieratezza, il sogno di un mondo bello, di essere libera (Battaglia 2020).

 

Ritornare al dato biografico, alla storia e alle parole di Letizia Battaglia, consente di tessere quel filo che lega la vita personale della fotografa al suo lavoro. Meglio: di ri-leggere le sue fotografie attraverso quel peculiare modo di guardare alle storie e ai corpi delle donne che, nel corso della sua lunghissima carriera, la fotografa ha cercato senza sosta. Se, in questo senso, nei volti delle sue famose ‘bambine’ Battaglia ha provato a rintracciare una sé costretta a rinunciare troppo presto alla sua spensieratezza – «Cerco gli occhi profondi e sognanti delle bambine: mi ricordano me stessa a dieci anni, quando mi resi conto, di colpo, che il mondo non era poi così bello […] ecco perché le bimbe che ritraggo non ridono mai: le voglio serie nei confronti del mondo, come lo sono stata io» (Battaglia 2019) – ugualmente, il gesto di fotografare le donne è soprattutto un atto di riconoscimento, un modo precipuo di essere solidale verso l’universo femminile. Letizia Battaglia ha, di fatto, sperimentato sulla propria pelle quell’impossibilità di abitare fin qui delineata quando, per uscire dalla casa del padre, ha sposato un uomo nel tentativo di ritrovare una libertà che le è stata, tuttavia, ancora una volta negata – «La società era fatta dagli uomini e noi dovevamo dipendere dagli uomini», dirà nel documentario Shooting the Mafia (Kim Longinotto, 2019) [fig. 2] che la vede protagonista. È solo nell’incontro con la fotografia che Battaglia ha ritrovato il modo per esprimere sé stessa, per sentirsi, insomma, ‘a casa’ persino in una Palermo che ha continuato a richiamare a sé la fotografa impedendole di allontanarsi per sempre; ed è attraverso la sua ‘macchinetta’ – che fino alla fine ha portato al collo – che ha cercato di dare rifugio a tutte quelle ‘vite perse’ incontrate sulla propria strada, incamerando su di sé tutto il dolore possibile. Ritorniamo, allora, alle fotografie. San Vito Lo Capo, 1980: due scatti ci mostrano il volto di una donna fotografato in primo piano. Ha il viso rigato dalle lacrime: piange la sua miseria, così come ci suggerisce la didascalia. Alle sue spalle una figura non ben definita: è il marito violento, qui ridotto a sagoma sfuocata, fuori fuoco e poi – ma forse soprattutto – spinto fuori campo. Quando nel 1993 fotografa Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani morto nell’attentato in cui persero la vita il giudice Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, la cesura tra ciò che può stare dentro e fuori la fotografia diventa radicale. L’immagine è scattata ancora una volta in primo piano: Rosaria Costa ha gli occhi chiusi, è appena illuminata dalla luce che filtra dalle persiane; la donna aveva già bandito il mondo ‘al maschile’ della mafia un anno prima quando, durante i funerali del marito e degli altri caduti durante l’attentato di Capaci, aveva chiesto ai mandanti di inginocchiarsi per chiedere perdono [fig. 3]; Battaglia, allora, non può fare altro che escluderli a sua volta dalla fotografia, cancellandone l’immagine.

 

2. Corpi fotografici

 

Quella di mettere le donne al centro è una scelta creativa che credo nasca da un sentimento di solidarietà che mi lega a loro: quelle che sono vicine, affini a me. Spero che dalle mie fotografie traspaia questo sentimento di amore, complicità e afflato. L’esclusione degli uomini dal mio mondo – fotografico – è, forse, anche una forma di ‘vendetta’ nei loro confronti, a causa della mia esperienza personale. Nelle donne percepisco una bellezza che negli uomini non riesco a vedere o che non mi interessa da un punto di vista fotografico. Nella maggior parte delle mie immagini, a parte coraggiosi magistrati come Roberto Scarpinato, gli uomini sono arrestati o morti, indissolubilmente legati alla violenza (Battaglia 2020).

 

C’è stato un momento, nel corso della propria carriera, in cui Battaglia ha pensato di dar fuoco al suo archivio, di cancellare dalle pellicole tutta la violenza che – malgrado tutto – aveva sentito il dovere di fotografare, per lasciarsi così alle spalle quell’odore di sangue che, a volte, continuava ancora a sentire. Ma ridurre in cenere i propri negativi avrebbe significato arrendersi proprio a quella violenza capace di infettare tutta la bellezza che, ugualmente, quell’archivio conteneva. Era necessario, allora, ri-elaborare lo sporco per rendere quelle immagini nuovamente ‘visibili’. Attraverso un’operazione di montaggio, Battaglia ha così costruito una diversa narrazione, sottraendo quelle immagini all’immediata associazione con la mafia. Ed è proprio al corpo delle donne che viene consegnato il compito di depotenziare quella violenza: Battaglia si riappropria di linguaggi diversi, mette in gioco forme di collage ri-fotografando donne – spesso nude – accanto alle immagini di morti, di sangue, di mattanza. Se così ri-montate le immagini vengono inserite in un diverso flusso di significato, i corpi (s)velati delle donne – ai quali la fotografa si è dedicata soprattutto negli ultimi anni della sua vita – vengono sottratti allo sguardo maschile, non ne sono richiamo: ‘ninfe moderne’ – nel senso individuato da Georges Didi-Huberman (2013) – le donne nude di Battaglia sono letteralmente forma della ‘sopravvivenza’. Alla loro bellezza imperfetta Letizia consegna un ruolo ‘salvifico’, di redenzione.

Nel ripensare il lavoro di Letizia Battaglia si è certo travolti da una vertigine: fotografa, certo, ma anche regista, scrittrice, editrice; il suo impegno morale – più che professionale – si è tradotto in un ‘dover essere lì’ per raccontare, testimoniare, lottare. Alle donne, Battaglia ha dedicato molto della sua stessa vita, offrendo loro casa metaforicamente e non: tra le pagine di Mezzocielo, negli spazi del Centro Internazionale di Fotografia, fino ad aprire la sua stessa abitazione. E poi, certo, nelle sue fotografie. Di questa ‘battaglia’, Letizia ha fatto una ragione di vita. Un impegno già tutto racchiuso nel suo nome; un destino al quale la fotografa non si è mai sottratta.

 

Bibliografia

F. Alfano Miglietti (a cura di), Letizia Battaglia. Fotografia come scelta di vita, Venezia, Marsilio, 2019.

L. Battaglia, S. Pisu, Mi prendo il mondo ovunque sia. Una vita tra impegno civile e bellezza, Tornio, Einaudi, 2020.

G. Didi-Huberman, Ninfa moderna. Saggi sul panneggio caduto, Milano, Abscondita, 2013.

E. Grazioli, Corpo e figura umana nella fotografia, Milano, Bruno Mondadori, 1998.