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Dare un quadro complessivo del volume Cultura visuale in Italia. Immagini, sguardi, dispositivi, a cura di Michele Cometa, Roberta Coglitore e Valeria Cammarata (Meltemi, 2022), non è un compito facile, visto l’ampio spettro di questioni che le oltre quattrocento pagine di questa raccolta di saggi contengono al loro interno. Si potrebbe iniziare dicendo che Cultura visuale in Italia non è una ricapitolazione o un’introduzione al tema che il titolo annuncia: piuttosto si tratta di dar conto della ricchezza (e della vitalità) di un campo di studi relativamente giovane (o, almeno, così è in Italia), attraverso la presentazione delle ricerche o della discussione di nodi teorici ancora irrisolti e che stanno al centro delle riflessioni di studiosi e studiose che a questo libro partecipano. Al netto della ricercata eterogeneità degli argomenti, ci sono alcuni interrogativi che continuamente ritornano, e che non a caso sono in parte esplicitamente richiamati, in apertura, dal saggio di Mitchell e che sono quasi sempre di natura relazionale: il rapporto fra parola e immagine, quello fra immagini e eventi storici, fra sguardi e dispositivi, fra arte e vita, fra media, circolazione e contesti, fra significati culturali e forme espressive e via dicendo.

Sono domande, per certi versi, vecchie, che da sempre si ripropongono a chi si occupi di teoria letteraria o di estetica, ma che qui vengono affrontate da prospettive diverse, in grado di aprire dibattiti pienamente (e positivamente) interdisciplinari, cercando di ragionare su un campo estetico che non può più essere considerato nelle sue singole componenti atomizzate, ma solo come uno spazio, appunto, di forme ‘rappresentazionali’, dispositivi, media, oggetti estetici continuamente in dialogo fra loro: non per obliarne le specificità, evidentemente, ma per meglio metterne a fuoco le caratteristiche distintive, come mostrano, appunto, i casi di studio presentati nel volume.

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Non sto dicendo che riesco costantemente rimanere fedele a questo principio, nel mio lavoro, ma mi sembra che la grossa distinzione fra grande arte e arte mediocre stia nello scopo da cui è mosso il cuore di quell'arte, nei fini che si è proposta la coscienza che sta dietro il testo. Ha qualcosa a che fare con l'amore. Con la disciplina che ti permette di far parlare di te che ama, invece di quella che vuole soltanto essere amata.

David Foster Wallace, Un antidoto contro la solitudine

 

 

 

In occasione dell’anniversario della nascita di Pier Paolo Pasolini, avvenuta un secolo fa, Arabeschi dedica uno spazio tra le sue pagine a Valentina Restivo, illustratrice livornese, classe 1983, che da anni lavora anche sul poeta corsaro e sull’immaginario cinematografico che ci ha lasciato in eredità.

Partendo da frames estrapolati da alcuni film pasoliniani che fanno la storia della cinematografia non solo nostrana, come Teorema, Il Vangelo secondo Matteo e Salò o le 120 giornate di Sodoma, Restivo ricostruisce fotogrammi di memoria in veste grafica, non rinunciando a tradurre i volti e gli sguardi dei personaggi-attori in tutta la loro densa corposità.

Laureata in Cinema e immagine elettronica presso l’Università di Pisa, gli studi di Restivo su Pasolini risalgono proprio agli anni della sua formazione, avvenuta anche presso la Scuola Internazionale di Arte Grafica, e perdurano fino a oggi, condensandosi dentro un milieu visuale da dove l’autrice continua a trarre le trasposizioni figurative dedicate allo scrittore bolognese. La mostra allestita quest’anno a Parigi, presso la Librairie Italienne Tour de Babel, curata da Silvia Pampaloni, ne è un’ulteriore prova.

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Il saggio è un primo stimolo alla riflessione sulle forme e le strategie della museologia d’opera per i musei del XXI secolo attraverso il caso studio del Museo Zeffirelli a Firenze. Esso ripercorre la nascita e gli obiettivi del patrimonio del regista, scenografo e costumista fiorentino, rimessi in ‘opera’ dal 2015 dalla Fondazione Zeffirelli Onlus e dal nascente Centro Internazionale per le Arti e lo Spettacolo realizzato all’interno del Complesso di San Firenze nella città natale. Archivio, museo e scuola, esso lavora oggi in maniera complementare alla trasmissione della sua opera divisa fra cinema, teatro e opera. Partendo dal riconoscimento dei rapporti legati alla cultura visuale dell’artista si analizzano qui le strategie espositive e le attività legate ai percorsi operistici.

This paper aims to stimulate a reflection on the museology of opera during the 21st century through the study case of the Zeffirelli Museum in Florence. The essay analyses the birth and the objectives of the heritage collected by the director, set and costume designer. They are reused since 2015 by the Fondazione Zeffirelli Onlus and the International Centre for the Arts and the Performing Arts, set up inside the Complesso di San Firenze in his hometown. As an integrated archive, museum, and school, it now works on the transmission of his heritage divided between cinema, theatre and opera. For this reason, the analysis starts from the recognition of the visual culture embedded inside the opera paths and exhibition activities of the intermedial museum.

La vita non è che un continuo passaggio di esperienze,

da una generazione all’altra: prima imparare e poi insegnare

a chi viene dopo di noi.

Franco Zeffirelli

1. Dai materiali d’archivio al museo intermediale

Messa in movimento, trasmissione e ricezione di un’esperienza molteplice sono i motivi guida espressi dal regista fiorentino Franco Zeffirelli a proposito della raccolta (durante la sua vita) e della destinazione di una serie di materiali legati alla propria attività e all’arte dello spettacolo in toto. Votandosi a questi principi, ha promosso con forza il riconoscimento di quest’insieme patrimoniale come ‘vivente’, non solo per l’azione di conoscenza storica che esercita nel presente verso il futuro ma, si legge tra le righe del suo pensiero, per la capacità di accogliere e far percepire i caratteri stessi della vita e delle arti.

Dal 2015 parte di questi materiali[1] sono gestiti e rimessi in opera a Firenze dalla Fondazione Zeffirelli Onlus, nata in quell’anno proprio con l’obiettivo di «promuovere la cultura e l’arte, attraverso la tutela e la valorizzazione di beni di interesse artistico e storico».[2] Sulla scorta del pensiero dell’artista, l’istituzione ha destinato i propri spazi all’incontro, lo studio e la produzione artistica attraverso il patrimonio zeffirelliano.

Così nella città natale dell’artista, all’interno del Complesso di San Firenze, nel corso del 2015 è stato istituito il CIAS - Centro Internazionale delle Arti dello Spettacolo,[4] che oggi ospita e anima al suo interno un archivio, una biblioteca, un museo, una sala musica da centocinquanta posti che funge anche da spazio di proiezione ed esposizione (nello splendido ex oratorio dei padri filippini caratterizzato da alcuni palchi laterali che ne fanno quasi un teatro), un bookshop, alcune aule dedicate alla didattica (ma tutti gli spazi sono riutilizzati in tal senso), laboratori e un’area ristorativa. In questi spazi si svolgono un insieme di attività formative, artistiche e di progettazione. Le diverse parti, che includono anche la direzione curatoriale, sono pensate come sezioni complementari di uno stesso corpo, sia per gli scambi tra biblioteca, archivio e museo (anche in termini di visite guidate dedicate), sia e soprattutto per gli ulteriori percorsi che fruitori e studiosi possono attivare autonomamente passando da una parte all’altra.[5]

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Abstract: ITA | ENG

Nombreux sont les artistes visuels qui – ponctuellement ou de manière récurrente –, choisissent de se filmer eux-mêmes et d’en faire œuvre. Françoise Parfait, dans l’ouvrage paru en 2001 Vidéo : un art contemporain, emploie au sujet de ces œuvres l’expression d’«auto-bio-vidéo-graphies», regroupant sous ce terme les pratiques vidéographiques fondées sur le récit de soi-même et l’autoreprésentation. Les autoportraits filmés par des artistes s’inscrivent à la rencontre de deux héritages : autobiographique et portraitique. Si l’autoportrait relève d’une tradition picturale ancienne, celle-ci est profondément renouvelée et transformée grâce à l’apparition de la vidéo dans les années 1970, la technique ajoutant à l’image son et mouvement, apportant au portrait un récit, et au visage une voix. À partir d’exemples puisés dans l’art contemporain, nous nous attacherons à déterminer la singularité du regard des plasticiennes en termes de processus et de représentations. Si la critique à l’encontre de l’art de l’intime a pu être virulente, des autrices s’accordent sur le fait que certaines œuvres échappent à cet écueil, à la condition qu’elles parviennent à dialectiser l’expérience subjective avec le monde extérieur ; dire « je », mais convoquer la présence de l’autre. Nous retiendrons ici dans cette perspective deux stratégies artistiques : la dissimulation (Élodie Pong) et la mise à nue (Justine Pluvinage). De la réticence au dévoilement à l’affirmation de la révélation, nous interrogerons ainsi la manière dont ces pratiques artistiques proposent des espaces de réflexion sur le moi et sa construction.

Many visual artists – occasionally or recurrently – choose to film themselves and to create their own work. Françoise Parfait, in the book published in 2001 Vidéo: un art contemporain, uses the expression «auto-bio-video-graphs» about these works, grouping under this term the videographic practices based on the narrative of oneself and the self-representation. The self-portraits filmed by the artists are part of a meeting of two legacies: autobiographical and portraiture. If the self-portrait is part of an ancient pictorial tradition, it is deeply renewed and transformed thanks to the appearance of video in the 1970s, the technique that adding sound and movement to the image, giving to the portrait a narrative, and to the face a voice. Using examples drawn from contemporary art, we will attempt to determine the singularity of the visual artist’s gaze in terms of processes and representations. While criticism of the art of the intimate have been virulent, some authors agree that certain works escape this pitfall, on the condition that they manage to dialectise the subjective experience with the outside world; saying ‘I’, but evoking the presence of the other. In this perspective, we will consider two artistic strategies: the concealment (Élodie Pong) and the laid bare (Justine Pluvinage). From reticence to unveiling to the affirmation of revelation, we will thus question the way in which these artistic practices offer spaces for reflection on the self and its construction

 

Nombreux sont les artistes visuels qui – ponctuellement ou de manière récurrente –, choisissent de se filmer eux-mêmes et d’en faire œuvre. Françoise Parfait, dans l’ouvrage paru en 2001 Vidéo : un art contemporain, emploie au sujet de ces œuvres l’expression d’« auto-bio-vidéo-graphies »,[1] regroupant sous ce terme les pratiques vidéographiques fondées sur le récit de soi-meÌ‚me et l’autoreprésentation. Les autoportraits filmés par des artistes s’inscrivent ainsi à la rencontre de deux héritages : portraitique et autobiographique.

 

1. Autoportraits filmés : une tradition portraitique

Ces autoportraits se situent dans la droite lignée d’une tradition du genre du portrait en réinvestissant certains codes picturaux. Ces œuvres se caractérisent par leur focalisation sur une personne, convoquant d’emblée le genre portraitique, définit par Jean-Marie Pontévia comme « un tableau qui s’organise autour d’une figure ».[2]

Cette figure est ici la seule fin de la représentation, les autres enjeux en étant exclus. Ce qui l’entoure est relégué au second plan – sinon éliminé – et subordonné à son élément principal : l’artiste se trouvant seul à l’écran et occupant le cadre de manière centrale. Par conséquent, le décor de ces vidéos est souvent réduit à un fond neutre en arrière-plan, la mise en scène est dépouillée, sinon abstraite. La figure du sujet filmé se découpe sur une forme de non-lieu visuel, un arrière-plan qui le décontextualise et focalise l’attention sur ses attitudes, son corps et son visage. La mise en cadre du portrait est en outre traditionnellement réglée par des conventions qui apparaissent dès l’entrée du genre à l’académie et perdurent dans les images des plasticiens contemporains. Le point de vue choisi est établi dans un rapport de frontalité avec le spectateur à venir ; les sujets filmés sont présentés de face, assis ou debout, le visage tendu vers l’objectif. Le visage est le plus souvent le point nodal des autoportraits filmés. Les sujets sont filmés en plans serrés, parfois cadrés en gros plans qui mettent en valeur leur physionomie.

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  • «Noi leggiavamo…». Fortuna iconografica e rimediazioni visuali dell’episodio di Paolo e Francesca fra XIX e XXI secolo →

 

«Non ho voluto raccontare la tragedia […] ma improvvisare e cogliere, in punta di matita, i movimenti, le battute e le espressioni che mi venivano alla mente pensando a questi due ragazzi che si innamorano, si guardano, si sfiorano, si baciano e finalmente realizzano il loro sogno d’amore» (Mattotti 2021, quarta di copertina). A parlare è Lorenzo Mattotti (Brescia, 1954), artista a tutto tondo, i cui interessi spaziano dalla pittura al fumetto, dalla musica al cinema, e questa sua riflessione sembra ritagliata perfettamente su Paolo e Francesca, ma si riferisce invece ad altri due celebri amanti, Romeo e Giulietta [fig. 1], cui l’artista ha recentemente dedicato un prezioso e raffinato, eppur potentissimo, piccolo quaderno in bianco e nero (14 cm di altezza per 18 di base, edizioni Logos). Dunque, Romeo e Giulietta e non Paolo e Francesca, ma la tematica resta la stessa, un amore contrastato e impossibile reso eterno dalla letteratura. E dalle immagini. In questo quaderno è come se Mattotti riprendesse idealmente un dialogo iniziato nel 1999 con l’illustrazione dell’Inferno dantesco per Nuages. In quell’occasione a essere rappresentati erano stati ovviamente i cognati di Rimini [fig. 2], colti al margine del vortice dei corpi, con Francesca in atto di allentare l’abbraccio di Paolo per protendersi verso Dante, serrato nell’angolo in basso a destra dell’immagine. I colori piatti ma vibranti riflettevano le passioni dei due amanti, rossi in volto per la colpa. Una passione giocata sul ritmo coloristico e visivo di forme intrecciate l’una all’altra, spirali morbidamente geometriche in grado di trascendere il riferimento diretto al testo per farsi messaggio universale. Un’immagine singola, capace di sintetizzare la narrazione assolutizzandola, che rivela un metodo di interpretazione visiva del testo che è complementare a quella evidenziata da Mattotti nella citazione d’apertura: in Romeo & Giulietta raccontare vuol dire inventare una storia partendo da uno spunto letterario, traducendolo in immagini che definiscono per certi versi una sequenza filmica, un susseguirsi di baci cercati e abbracci trovati. Sono due concetti di illustrazione, come detto, complementari, che nel presente contributo saranno presi in esame attraverso casi emblematici di artisti contemporanei, assai diversi tra loro sia a livello delle tecniche impiegate sia a livello teorico-concettuale.

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  • «Noi leggiavamo…». Fortuna iconografica e rimediazioni visuali dell’episodio di Paolo e Francesca fra XIX e XXI secolo →
  • Arabeschi n. 17→

 

 

Il rapporto che lega testo e illustrazioni e l’interazione tra icona e parola nella Divina commedia hanno da sempre interessato gli studiosi, i quali hanno prestato attenzione sia alla precoce fortuna iconografica del poema dantesco, sia al «visibile parlare» del suo autore. La capacità, quasi naturale, della poesia della Commedia di evocare immagini reali e mentali trova dunque, a ragione, ampio spazio nelle celebrazioni dantesche.

Questa Galleria si inserisce nel solco delle molte iniziative legate alla fortuna visuale di Dante, focalizzando però l’attenzione non soltanto sulle prime traduzioni iconiche del poema dantesco, ma spingendosi a esplorare la ricezione visiva della Commedia attraverso un arco cronologico ampio: prendendo le mosse dalle prime illustrazioni trecentesche, la Galleria si concentra poi sulla fiorente produzione artistica legata al poema che si sviluppa a partire dall’Ottocento, fino a giungere alle transcodificazioni (iper)contemporanee. Insieme al desiderio di mappare la vitalità della ricezione per immagini del capolavoro di Dante nel corso dei secoli, si è voluto esplorare anche territori meno indagati della fortuna iconica del poema, dal fumetto al cinema, dal teatro ai videoclip musicali. È apparso opportuno, dunque, in occasione delle celebrazioni dantesche, riflettere sulla lunga durata della fortuna visiva, e transmediale, della Commedia attraverso una prospettiva pluridisciplinare che ha coinvolto studiose e studiosi dalle competenze diverse, ma uniti dalla comune attenzione alla visualità.

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Nella forma breve, tra il film saggio e l’elaborazione poetica, dei cortometraggi realizzati da Agnès Varda, ritroviamo un dialogo con la collettività degli spettatori a partire da uno sguardo che rintraccia quanto si nasconde dietro il visibile, mettendo a nudo, per sovvertirli, i meccanismi di una rappresentazione di tipo mimetico e spesso stereotipata. Seguendo la lezione delle avanguardie, Varda osserva per rovesciare l’ottica, filtra soggettivamente la realtà per rendere la sua esperienza d’artista un’esperienza collettiva e usa spesso la sua voce per guidare lo spettatore in una visione emotiva e critica insieme, che potremmo anche definire, sulla scia di ormai antichi umoristi, sentimentale. In particolare, si propone qui l’analisi di Les dites cariatides (1984) e di Elsa la rose (1966), accomunati dal fatto che in essi una certa idea della donna (in architettura, in amore, in poesia, ma anche nella società) viene indagata e sottoposta a una visione insolita e straniata. Un percorso nella città, nel primo caso, che le riflessioni di Giuliana Bruno sul site-seeing come dispiegamento aptico della prassi e della visione cinematografica aiutano a comprendere in tutta la sua complessità. La messa in discussione, nel secondo, dello schema occidentale del rapporto tra il poeta e la sua musa, in cui l’eterno femminino sorregge l’ideale di sé maschile e la realtà della donna scompare dentro l’immagine poetica.

The poetic elaboration of short films by Agnès Varda and her personal interpretation of the essay film build a close dialogue with the audience, while subverting the canons of a mimetic and stereotyped representation. The lesson of the avant-gardes teaches her to reverse the perspective and to provide an unusual, even estranging vision of the represented world. In so doing, she uses her voice to guide the viewer through an emotional and critical experience that we could also define, in the wake of ancient humorists, sentimental. The paper focuses in particular on Les dites cariatides (1984) and Elsa la rose (1966), two short films in which a certain idea of woman (in architecture, love, poetry, but also in society) is investigated and represented in an unusual form. In the first case, we can experience a journey through the city of Paris that Giuliana Bruno’s reflections on site-seeing help to understand in all its complexity. In the second, we can question the western scheme of the relationship between the poet and his muse.

 

 

1. Visioni parigine: Panorama pendant l’ascension...

Come la conferenziera di viaggio Esther Lyons a cui fa riferimento Giuliana Bruno nel suo Atlante delle emozioni,[1] Agnès Varda è stata una voyageuse coraggiosa. L’atto di filmare ha significato per lei abitare lo spazio attraversando un «terreno aptico, emotivo».[2] Come altre registe, estensioni nel tempo delle conferenziere per immagini che le hanno precedute, anche Varda ha esplorato il mondo per conoscere e definire se stessa in quanto artista e donna: Parigi, ma anche città e luoghi (più o meno) lontani, hanno nutrito quei paysages avec figures che compongono il suo cinema e nei quali ha riscritto il suo fare esperienza del mondo.

Nel tempo, Varda è arrivata a ‘specchiarsi’ in senso proprio all’interno dei suoi film – come nel caso di Les glaneurs et la glaneuse (2001) e poi, più radicalmente, in Les plages d’Agnès (2008), in cui «lo stesso schermo finisce per funzionare da specchio mobile – superficie sulla quale la regista-attrice si presenta come l’altro da sé».[3] In realtà, è sempre stata dentro e fuori i suoi paesaggi, le fotografie e i fotogrammi realizzati: vuoi attraverso porzioni del suo corpo inquadrate (ad esempio in L’Opéra-Mouffe, 1954, e in Réponse de femmes, 1975), vuoi grazie ad un elemento centrale della sua relazione con gli spazi fisici e mentali che ha attraversato, cioè la voce, questo suono al tempo stesso corporeo e incorporeo, materiale e fantasmatico che spesso accompagna i suoi itinerari geografici e culturali dentro Parigi, oppure in lidi più lontani (Cuba, gli Stati Uniti).[4] Una voce in prima persona, a metà tra un raisonneur e un io umorista di letteraria memoria, che filtra l’esperienza del momento mettendola in prospettiva e facendola risuonare come dentro una cassa armonica.

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A partire dalla celeberrima quartina sulla fotografia di Paul Valéry (1924), in cui il pensatore francese si interroga sull’ambiguità del ritratto fotografico quale strumento per determinare la reale personalità del soggetto rappresentato, il contributo analizza il ruolo che il rapporto tra volto e la sua rappresentazione fotografica svolge per la costituzione dell’identità. Infatti la difficoltà (sino quasi all’impossibilità) di riconoscersi nel ritratto fotografico, notata dal pensatore francese, dipende dalla inesauribilità dell’io che caratterizza radicalmente l’uomo: il ritratto fotografico non fa altro che manifestare in maniera efficace la situazione di alterità che ogni narrazione autobiografica necessariamente produce. Ripercorrendo la riflessione di Valéry sul tema del ritratto fotografico e sulla natura plurale dell’io, il contributo evidenzia il ruolo che svolge la fotografia nella determinazione della soggettività: tra sguardo e rappresentazione identitaria infatti si gioca la possibilità di narrare il proprio io e di giungere a una sua comprensione superando, senza tuttavia annullarlo, l’ineliminabile scarto tra immagine, parola e realtà, e sfruttando così sino in fondo il potere della fotografia.

In the Quatrain on Photography (1924) Paul Valéry reflects on ambiguity of the photographic portrait and on its power to determine subjectivity. This paper examines how the photographic portrait can define the self: it shows the situation of otherness that every autobiographical narration produces. Valéry’s reflection is useful to understand how photography can show the gap among image, word and reality between gaze and self-representation.

 

 

Tutta la filosofia e la scrittura di Paul Valéry sono leggibili sotto il segno della ricerca dell’io al fine di comprenderne e dispiegarne le potenzialità attraverso una serie di ‘esercizi’: esse sono un laboratorio, una palestra, un continuo addestramento dell’io che si svolge attraverso l’universo dei Cahiers, l’attività poetica e la riflessione su di essa e gli innumerevoli scritti d’occasione che compongono il corpus vivo della riflessione di Valéry.

Questa scepsi ha luogo per mezzo di strumenti che pongono l’io e le sue raffigurazioni faccia a faccia con il pensatore stesso: i Cahiers innanzitutto ma anche l’immagine, in prima istanza quella riflessa dallo specchio, ma subito dopo anche il ritratto fotografico. L’immagine fotografica infatti rispetto a quella dello specchio ha una dimensione sociale ed è concreta manifestazione dell’io come altro da sé, come tentativo di oggettivizzazione della soggettività, come tentativo di messa in forma ‘oggettiva’, chiara e condivisa, dell’io.

Il ritratto fotografico, l’immagine del volto – il volto è ciò che ci definisce e ci identifica ma al contempo è escluso dalla nostra vista se non attraverso l’artificio del ritratto o di uno specchio – è necessariamente sotto il segno dell’ambiguità e ha sempre dato luogo a fondamentali riflessioni sia per la definizione dell’io stesso sia per la comprensione del ruolo e della funzione che la fotografia svolge.

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Sono centoundici i volumi monografici che compongono la collana I Classici dell’arte, editi dalla casa editrice Rizzoli tra il 1966 e il 1985. Ognuno di essi reca in apertura una presentazione dell’opera e dell’artista che in molti casi reca la firma di celebri autori della nostra letteratura contemporanea. Questo contributo si pone come un primo tentativo di classificazione delle differenti modalità di approccio messe in atto da letterati e poeti alle prese con la scrittura critica: partendo dall’individuazione di tre macrocategorie testuali si è proceduto con l’analisi degli aspetti micro-stilistici (dunque retorici, sintattici e grammaticali) e contemporaneamente sono state rilevate le analogie tematiche e formali riscontrabili tra scrittore e artista trattato.

The series I Classici dell’arte is composed by one hundred and eleven monographics, published by the publishing house Rizzoli, between 1966 and 1985. Each of them opens with a presentation of the the artist and his work, that in many cases bears the signature of famous authors of our contemporary literature. This contribution is a first attempt to classify the different methods of approach implemented by writers and poets dealing with critical writing. Starting from the identification of three textual macro-categories, we procedeed with the analysis of the micro-stylistic aspects (such as rethorical, syntactic and grammatical) and at the same time we observed the thematic and formal analogies found between the writer and the artist.

 

Tra il 1966 e il 1985 la casa editrice Rizzoli pubblica nella collana I Classici dell’Arte centoundici volumi monografici dedicati ad una selezione dei nomi più importanti della pittura europea, dai prodromi del Rinascimento italiano (Duccio, Giotto, Martini) sino ad artisti quali Toulouse-Lautrec, Schiele, De Chirico.

Particolarmente felice la scelta editoriale per cui in apertura di ogni volume la presentazione dell’artista e delle opere è affidata, talvolta sì a critici d’arte di professione, ma molto spesso a firme celebri della letteratura italiana del Novecento, istituendo una sorta di parallelo tra i grandi classici delle due arti. Oltre agli esempi indagati dal presente contributo (Flaiano e Paolo Uccello, Buzzati e Bosch, Ungaretti e Vermeer, Testori e Grünewald, Morante e Beato Angelico, Volponi e Masaccio) si citino, a titolo esemplificativo, le prefazioni di Luzi su Matisse, quella di Palazzeschi su Boccioni, di Sciascia su Antonello, di Moravia sul Picasso del periodo blu e rosa e ancora di Quasimodo su Michelangelo.

Nonostante la varietà degli esiti le tipologie testuali censite appaiono classificabili entro categorie che, sebbene non riescano a rendere conto di tutte le possibilità espressive attuate ed attuabili, funzionano comunque da utili linee guida per un approccio di tipo finalmente sistematico all’argomento. Le formule saggistiche qui individuate mostrano tre modalità differenti tramite cui questi scrittori-critici hanno affrontato il fatto artistico: si va dall’adozione di generi dichiaratamente eterodossi, come la drammatizzazione e la novella fantastica (Flaiano e Buzzati), alla più tradizionale forma saggistica, connotata però in senso fortemente personale: se in alcuni casi l’autore interpreta l’artista a partire dal proprio universo poetico-simbolico ed esistenziale in qualche modo appropriandosene (Testori e Ungaretti), in altri preferisce invece porre l’accento sugli aspetti biografici e sulla contestualizzazione storico-culturale alla ricerca di possibili punti di contatto con la contemporaneità (Volponi e Morante).

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