Michele Cometa, Roberta Coglitore, Valeria Cammarata (a cura di), Cultura visuale in Italia. Immagini, sguardi, dispositivi

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Dare un quadro complessivo del volume Cultura visuale in Italia. Immagini, sguardi, dispositivi, a cura di Michele Cometa, Roberta Coglitore e Valeria Cammarata (Meltemi, 2022), non è un compito facile, visto l’ampio spettro di questioni che le oltre quattrocento pagine di questa raccolta di saggi contengono al loro interno. Si potrebbe iniziare dicendo che Cultura visuale in Italia non è una ricapitolazione o un’introduzione al tema che il titolo annuncia: piuttosto si tratta di dar conto della ricchezza (e della vitalità) di un campo di studi relativamente giovane (o, almeno, così è in Italia), attraverso la presentazione delle ricerche o della discussione di nodi teorici ancora irrisolti e che stanno al centro delle riflessioni di studiosi e studiose che a questo libro partecipano. Al netto della ricercata eterogeneità degli argomenti, ci sono alcuni interrogativi che continuamente ritornano, e che non a caso sono in parte esplicitamente richiamati, in apertura, dal saggio di Mitchell e che sono quasi sempre di natura relazionale: il rapporto fra parola e immagine, quello fra immagini e eventi storici, fra sguardi e dispositivi, fra arte e vita, fra media, circolazione e contesti, fra significati culturali e forme espressive e via dicendo.

Sono domande, per certi versi, vecchie, che da sempre si ripropongono a chi si occupi di teoria letteraria o di estetica, ma che qui vengono affrontate da prospettive diverse, in grado di aprire dibattiti pienamente (e positivamente) interdisciplinari, cercando di ragionare su un campo estetico che non può più essere considerato nelle sue singole componenti atomizzate, ma solo come uno spazio, appunto, di forme ‘rappresentazionali’, dispositivi, media, oggetti estetici continuamente in dialogo fra loro: non per obliarne le specificità, evidentemente, ma per meglio metterne a fuoco le caratteristiche distintive, come mostrano, appunto, i casi di studio presentati nel volume.

È quanto emerge, per esempio, dalla proposta di Emanuele Crescimanno di considerare la fotografia quasi alla stregua del ready made duchampiano per uscire dalla rigida impostazione mimetico-documentaria; o dal saggio di Angela Mengoni, la quale, mettendo in dialogo la Bildwissenschaft di Boehm e la semiotica plastica di Greimas, offre una puntuale analisi di Onkel Rudi di Gerhard Richter, mostrando come gli strumenti dei visual studies possono essere un’utile risorsa per ragionare sulla forma delle immagini e non solo su un indifferenziato regime di visività culturale (alle cui derive culturaliste muove le sue obiezioni, in queste pagine, il saggio di Roberto De Gaetano); allo stesso modo Enrico Carocci, a partire dall’analisi di alcune inquadrature di Barry Lyndon, ragiona sull’innovativo linguaggio di Kubrick sullo sfondo delle riflessioni sulla prospettiva; o ancora Giovanni Careri che riflette su quelle che Warburg chiamava ‘forme intermedie’, soffermandosi su due casi particolarmente interessanti: uno spettacolo di danza che metteva in scena un episodio della Gerusalemme Liberata cui partecipò il re di Francia Luigi XIII e il legame fra gli Antenati di Cristo dipinti da Michelangelo nella Cappella Sistina e il rituale papale del ‘possesso’; non diversamente, la puntuale disamina metodologica di Elisa Bricco sulla fototestualità mette in luce la necessità di strumenti critici che sappiano prestare attenzione alle caratteristiche tecniche del linguaggio verbale e di quello iconico nel loro fondersi nello spazio dell’opera, sottolineando, giustamente, la necessità di una prospettiva che non ragioni solamente in termini di funzioni o ruoli dell’immagine, ma che consideri il fototesto in quanto totalità, e quindi «a partire dalla loro specificità intrinseca» (p. 47).

Le analisi dei fototesti, di Richter, di Kubrick, delle forme intermedie condotte in questi saggi mostrano in maniera implicita anche un’altra questione che torna di continuo nelle pagine di Cultura visuale, vale a dire la continua messa in questione del potere (ma sarebbe meglio dire, come sottolinea più di un capitolo, del potere e della potenza): il potere delle immagini, certo, ma anche le relazioni fra immagini e potere. Sono questioni che emergono esplicitamente nelle revisioni, condotte con gli strumenti dei visual studies, di importanti nodi teorici della filosofia, oltre che dell’arte: come la rilettura femminista di Freud sulla nozione di sguardo proposta da Valeria Cammarata; o il problema del mimetismo affrontato da Roberta Coglitore nello studio metacritico del mimetismo animale, da Caillois al postumanesimo; le riflessioni di Valentina Mignano sull’immagine che prolifera sul web (e sui progetti che rielaborano le pratiche e le estetiche di internet); o il nesso fra il paradigma della visualità con il neoliberismo sottolineato da De Gaetano. Non meno interessanti sono le riflessioni di respiro storiografico, come il bellissimo saggio di Alessandra Violi (Re)incantare il visuale: l’opera d’arte all’epoca della sua riproducibilità medianica che, da una prospettiva complementare agli studi sulla spettralità, riflette sull’importanza dell’esoterismo e della magia per indagare alcune manifestazioni culturali fra Otto e Novecento, mostrando così come il dialogo fra discipline letterarie e cultura visuale può essere un utile strumento per ragionare e reinquadrare la nostra concettualizzazione della modernità fuori dai paradigmi della ‘serietà’. Mostrando, così, l’efficacia di una prospettiva davvero multidisciplinare, che non si limiti a essere semplice accostamento o guazzabuglio di metodi o oggetti di studio.

Tutti i saggi che compongono il volume, d’altronde, fanno dell’interdisciplinarità uno dei punti focali attraverso cui ragionare criticamente sui propri oggetti di studio: così Michele Cometa, nella sua riflessione sulla «materialità delle immagini» a partire dalle miniature preistoriche, mette in dialogo antropologia, etnografia e scienze cognitive per «lavorare sulle ‘storie di vita delle cose’» (p. 190). Antropologia e neuroscienze cognitive, non a caso, tornano in più di un saggio del volume (la prima, per esempio, nello studio di Carlo Severi sul primitivismo, le seconde nel testo di Vittorio Gallese); e non mancano di certo riflessioni che affrontano direttamente problemi di tipo epistemologico: è quanto si può leggere nelle pagine sull’archi-schermo di Mauro Carbone o nella proposta di Federico Pierotti e Alessandra Ronetti sui color studies.

Possiamo forse tornare alla difficoltà di partenza, per ribaltarla, un po’ alla maniera di chi si è occupato di cultura visuale, per dire non più cos’è questo libro, ma cosa fa. Cultura visuale in Italia ha infatti il grande merito di mostrare, oltre a una serie di risultati già raggiunti, una pluralità di strade che possono ancora essere percorse, evidenziando come le categorie che pure da questa disciplina ci vengono offerte, come quelle di regime scopico, immagine, sguardo, dispositivo, non sono inermi concetti da applicare, ma problemi teorici e strumenti metodologici da ridiscutere continuamente nella prassi analitica: a far fronte all’indisciplinata eterogeneità dei contributi, oltre alle costanti appena ricordate, sta infatti questa sorta di predisposizione comune a autori e autrici di rimettere sempre in questione i principi e i concetti che stanno mettendo alla prova. E a noi rimane la curiosità di volerle percorrere tutte queste strade; e la frustrazione, in fondo, di non poterlo fare: perché se c’è un’ultima cosa che Cultura visuale in Italia mostra chiaramente è che, sempre più, per un’esplorazione geograficamente e storicamente espansa, da prospettive multiple, non può che servire un lavoro di gruppo.