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Il ritorno è lontano di Alessandra Sarchi, pubblicato da Bompiani nel 2024, esplora con coraggio temi contemporanei attraverso la storia di Sara e di sua figlia Nina. La narrazione si concentra sulla separazione della madre da Nina, che lascia la casa per studiare in Germania, provocando in Sara un senso di perdita e destabilizzazione. Nina, attivista ecologista, cerca la propria autonomia, mentre Sara, insieme al marito Paolo, affronta l’arrivo di Pietro, un bambino che sconvolge ulteriormente la loro famiglia. La vicenda evidenzia le complesse dinamiche emotive e relazionali tra madre e figlia, riflettendo anche le tensioni tra l’umanità e la natura. Il presente contributo mira a catturare l’impatto visivo, tipico della poetica di Sarchi, e le ambivalenze che segnano quest’opera, esplorando la maternità, la cura e la lotta per la salvaguardia del pianeta.

Il ritorno è lontano by Alessandra Sarchi (Bompiani 2024) bravely explores contemporary themes through the story of Sara and her daughter Nina. The narrative focuses on Sara’s separation from Nina, who leaves home to study in Germany, causing Sara to experience a sense of loss and destabilization. Nina, an environmental activist, seeks her own autonomy, while Sara, together with her husband Paolo, faces the arrival of Pietro, a child who further disrupts their family. The story highlights the complex emotional and relational dynamics between mother and daughter, also reflecting the tensions between humanity and nature. This paper aims to capture the visual impact, typical of Sarchi’s poetics, and the ambivalences that mark this work, exploring themes of motherhood, care, and the struggle to protect the planet.

Le vicende del tempo presente non si prestano facilmente alla rappresentazione letteraria; la narrazione necessita della mediazione indispensabile della memoria che ne deposita il senso. Il ritorno è lontano, l’ultimo romanzo di Alessandra Sarchi, con grande coraggio non esita a fare di temi attualissimi carne e sangue della propria scrittura, in coerenza con la convinzione, già espressa nelle sue opere precedenti, che «compito della letteratura sia quello di addentrarsi dentro la vita e provare a descriverla, darle una forma, attraverso la lingua e la struttura, che ci permetta di percepirla nella sua prismaticità».[1]

Il romanzo racconta una vicenda scarna di azioni, centrata su Sara, una donna matura, destabilizzata per la separazione dalla giovane figlia Nina che lascia il nido domestico per andare a studiare in Germania. Tale evento è vissuto da Sara come una mutilazione che ne mina l’identità perché le sottrae la dimensione della cura. Nina, militante ecologista, sceglie di frequentare l’università lontano da casa, non solo per i proclamati motivi di studio, ma anche per una ferma volontà di autonomia: «ho bisogno di staccarmi da mia madre. Non è che non andiamo d’accordo, è solo che preferisco stare lontano da lei e da mio padre. Mi fa piacere vederli, ma di tanto in tanto. Qui mi sembra di essere più libera».[2]

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In occasione del centenario della nascita di Italo Calvino, il 28 agosto 2023, presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, la redazione di Arabeschi ha incontrato e intervistato Marco Belpoliti, curatore del volume Guardare. Disegno, cinema, fotografia, arte, paesaggio, visioni e collezioni (Mondadori 2023). Proponendo un insieme eterogeneo di testi saggistici, lo studio mette a fuoco un ampio spettro di questioni legate al rapporto tra Calvino e la visualità, e porta a maturazione un progetto che trova in un lavoro di quasi trent’anni fa – L’occhio di Calvino (Einaudi 1996; nuova edizione ampliata 2006) – il suo punto di partenza. L’incontro si muove dunque lungo l’itinerario rappresentato dagli sconfinamenti figurativi e audiovisivi del macrotesto dello scrittore, con la guida di chi per primo ha mostrato il rilievo del ‘guardare’ calviniano.

Videointervista a cura di: Alessandro Di Costa, Giancarlo Felice, Enrico Riccobene (riprese e montaggio), Maria Rizzarelli, Giovanna Santaera 

 

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Nel percorso letterario di Elsa de’ Giorgi, arte e vita si fondono e si sovrappongono continuamente. Tenendo in considerazione tale parallelismo, il contributo indaga il nesso tra attorialità e autorialità nella figura di de’ Giorgi e propone, in particolare, una lettura della sua attività letteraria e autobiografica in relazione ad alcuni nuclei tematici fondamentali, come la libertà, la verità e la memoria.

In Elsa de’ Giorgi’s literary production, art and life continually merge and overlap. Taking this parallelism into consideration, the contribution focuses on the relationship between actorhood and authorship in the figure of de’ Giorgi and proposes, in particular, a reading of his literary and autobiographical activity in relation to some fundamental themes: freedom, truth and memory.

Qualsivoglia discorso critico intorno alla figura di Elsa de’ Giorgi non può prescindere da una considerazione preliminare: nella vicenda biografica e artistica di quest’attrice e scrittrice, attorialità e autorialità appaiono come due dimensioni contigue, complementari, profondamente intrecciate tra loro. È quindi un grave errore prospettico pensare che vi sia stato un passaggio, un cedere il testimone dal cinema al teatro alla scrittura: si allestirebbe, in questa direzione, una cornice interpretativa inadeguata che condurrebbe a ricostruzioni falsate. Si potrebbe piuttosto concepire tutta la vita di Elsa de’ Giorgi come un teatro della scrittura, talvolta un po’ eccessivo o folle, com’era nel suo temperamento.

La sua figura fu segnata fin da subito da due valori, destinati a diventare due veri e propri vettori fondamentali, che da soli già spiegherebbero molto di quel temperamento. Mi riferisco ai concetti di verità e di libertà. Il lettore li ritrova in uno snodo essenziale del percorso espressivo di quest’autrice, ovvero il saggio su Shakespeare e l’attore, edito nel 1950 come un opuscolo della sede fiorentina dell’Electa. In realtà il saggio prende avvio in forma di recensione, invero assai critica, al libro di Valentina Capocci, Genio e mestiere, pubblicato da Laterza l’anno prima. De’ Giorgi mira in questo scritto, sapientemente calibrato, a smontare le tesi della studiosa, mostrando una tale consapevolezza dell’idea stessa di teatro da risultarle perfettamente consustanziale. Leggiamo a pagina 8:

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Il mondo delle arti visive ha riguardato profondamente la vita e il lavoro di Elsa de’ Giorgi. In particolar modo, dalla fine degli anni Quaranta alla metà degli anni Cinquanta – ovvero nel tratto di storia che ha visto l’attrice legarsi alla famiglia di antiquari Contini Bonacossi – la de’ Giorgi ha potuto meditare a lungo sui grandi capolavori degli Old Masters, frequentando una delle raccolte più importanti d’Europa. Una meditazione che rileggiamo ora attraverso una poesia inedita, scritta da Elsa nella primavera del 1964, che rivela un nuovo e prezioso tassello critico di un’autrice infinita.

The world of the visual arts profoundly affected Elsa de’ Giorgi’s life and work. In particular, from the late 1940s to the mid-1950s – i.e. in the stretch of history that saw the actress linked to the Contini Bonacossi family of antiquarians – De Giorgi was able to meditate at length on the great masterpieces of the Old Masters, frequenting one of the most important collections in Europe. A meditation that we now reread through an unpublished poem, written by Elsa in the spring of 1964, which reveals a new and precious critical piece of a never-ending author.

I rapporti tra Elsa de’ Giorgi e il mondo dell’arte sono avvenuti in maniera direi quasi naturale nel corso della sua precoce e lunga carriera, appunto, artistica. Se già con la parola ‘artista’ si potrebbe definire chi, come nel caso della de’ Giorgi, sia riuscito con serietà, e una certa grazia, a interpretare più ruoli tra cinema, teatro e letteratura.[1]

Ma basterebbe pensare alle amicizie, le frequentazioni, le vicissitudini sentimentali che l’attrice e scrittrice, nata a Pesaro il 26 gennaio del 1914, ha saputo coltivare con tantissime personalità del grande sistema delle arti. E dico sistema delle arti perché i nomi propri che si avvicendano, direttamente o indirettamente, nella sua vita sono quelli di Carlo Levi, Leoncillo, Guttuso, Pier Paolo Pasolini, Bernard Berenson, per stare solo a qualche esempio. E dunque pittori, scultori, registi, scrittori, critici, storici dell’arte. Di ciascuno di loro Elsa comprende lo stile, la poetica, la filosofia e quindi la qualità, il livello, la grandezza. Mi pare che sia questo ciò che più sorprende di quest’autrice.

Elsa de’ Giorgi non è una testimone di un bel periodo storico, non una sopravvissuta e né una marginale spettatrice di un’età dell’oro della cultura italiana (come spesso hanno voluto perimetrarla i suoi detrattori). Elsa de’ Giorgi ha una dote innata: è munita di un gusto sicuro, una sorta di radar per i valori dell’arte che sa riconoscere, comprendere e riversare in tutto ciò che fa, nel suo lavoro: sublimando la citazione in gesto critico.

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Diva del cinema italiano degli anni Trenta, Elsa de’ Giorgi è stata anche scrittrice, attrice teatrale e regista. Superata la stagione che l’ha vista impegnata nella recitazione per il grande schermo – ma anche parallelamente ad essa – un fil rouge ha attraversato la sua carriera e ha riguardato l’espressione di una straordinaria intelligenza esperita tramite la frequentazione di vari linguaggi artistici. Entro un orizzonte interpretativo che, ad ogni passo avanti, si rivela via via più articolato, i contributi accolti in questa sezione indagano proprio alcuni aspetti meno noti dell’attività di de’ Giorgi, ma dai quali emergono rilevanti chiavi di lettura.1 Ci si riferisce in particolare all’indagine di Roberto Deidier relativa al nesso tra attorialità e autorialità nella figura della diva e ad alcuni nuclei tematici fondamentali del suo percorso letterario e autobiografico, come la libertà, la verità e la memoria; all’accurata ricostruzione dell’ampio itinerario teatrale dell’artista offerta da Simona Scattina, che ricompone in un insieme unitario l’esperienza di recitazione, gli scritti teorici e il lavoro di regia di de’ Giorgi; all’affondo di Tommaso Tovaglieri sul rapporto dell’autrice con l’universo delle arti figurative, condotto anche attraverso una serie di rimandi alla collezione d’arte della famiglia del marito, Sandro Contini Bonacossi, e il commento di un testo inedito, La ballata dei bravi 1963.

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Lo spazio delle Scuderie del Quirinale è aperto da una vasta scalinata a chiocciola che dal piano di accesso si solleva fino al livello superiore, dove inizia la prima delle due grandi gallerie. Per inoltrarsi nel percorso al visitatore resta da attraversare uno spazio di raccordo, prima stazione della mostra Favoloso Calvino (13 ottobre 2023 - 4 febbraio 2024, Roma, Scuderie del Quirinale) che si affaccia sulla pendenza delle scale. Con il disegno di una spirale e una stanza-balcone sopra le linee spezzate dei gradini, l’ingresso all’antica rimessa delle carrozze papali somiglia molto alla forma del mondo secondo Italo Calvino. Una corrispondenza affidata alla voce dell’autore in una sequenza di citazioni estratte dal testo Dall’opaco e proiettate sulla parete al termine della scalinata, come istruzioni implicite per guadare tutto quello che segue.

La mostra racconta l’impronta visiva del mondo nel pensiero e nella scrittura di Calvino attraverso un reticolo di immagini, oggetti e parole sospese sulle griglie di legno che forniscono il supporto verticale dell’esposizione. Queste impalcature ‘aeree’ determinano l’impatto visuale dell’allestimento formando un dedalo di scacchiere trasparenti capaci di filtrare lo sguardo di chi avanza sulle sale, in un continuo omogeneo ma fatto di moduli e strutture a vista.

Il percorso procede per undici serie che seguono sottotraccia, ma tutte ugualmente e ordinatamente rappresentate, le fasi della biografia intellettuale di Calvino, esplicitando i punti di snodo di un ritratto completo: il grande ritratto d’autore nel suo centenario. Prima indicazione di metodo e di lettura è la presenza di coppie di valori opposti nelle sezioni che si articolano fra «lo spazio fisico dei campi» e «lo spazio immaginario» del cinema e della letteratura (2. Natura vs artificio), fra 5. Il reale e il fantastico, fra il remoto/immenso e il vicino/piccolo (7. Tutto il cosmo, qui e ora). Altre sezioni sono dichiaratamente tematiche (3. La guerra, la politica; 4. Ritratti di Calvino; 10. Viaggi e descrizioni) o anticipano nel titolo la centralità di un’opera: 6. «Le fiabe sono vere»; 8. Mescolando le carte; 9. L’atlante delle città (in)visibili. Aprono e chiudono l’esposizione due emblemi dell’immaginario di Calvino, 1. L’albero e 11. Cominciare e ricominciare, che esprimono matrici profonde dello stile e dell’impegno intellettuale dell’autore. Le didascalie e i pannelli firmati da Mario Barenghi punteggiano il viaggio dello spettatore/lettore disegnando ora linee invisibili fra le diverse pareti della mostra, ora immersioni nelle radici più o meno esplorate della scrittura calviniana. Ogni volta che il curatore commenta una forma, un’opera, un’immagine sta descrivendo le pagine dell’autore: «un albero è prima di tutto una forma dello spazio. Dunque un emblema dal duplice valore: da una parte lo slancio verso l’alto, verso una sommità propizia all’estensione dello sguardo […], dall’altro il dispiegarsi delle fronde, la ramificazione, cioè il diramarsi di connessioni, sviluppi».

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Non c’è nel Novecento italiano scrittore per cui il rapporto parola e immagine abbia un’evidenza maggiore di quella che attraversa l’intera, multiforme opera di Italo Calvino, dalle atmosfere fiabesche ai giochi combinatori di suggestione postmoderna. Del resto, egli stesso nell’intervento delle Sei lezioni americane dedicato alla ‘Visibilità’ postula con chiarezza tale legame distinguendo due processi immaginativi, l’uno che parte delle parole e approda alle immagini visive, l’altro che, all’opposto, scaturisce dall’immagine visiva e giunge all’espressione verbale, in un continuo, reciproco scambio. E nel definirsi figlio della ‘civiltà delle immagini’ egli precisa come per la sua epoca fondamentali siano state le illustrazioni di riviste e i volumi per l’infanzia.

Ecco perché a Genova le celebrazioni in occasione del centenario della nascita dello scrittore nato a Cuba il 15 ottobre 1923, ma di fatto sanremese, hanno puntato sulla mostra Calvino Cantafavole, allestita fra gli spazi della Loggia degli Abati di Palazzo Ducale e Casa Luzzati fino al prossimo 7 aprile. Il percorso espositivo, curato da Eloisa Morra, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Toronto e Luca Scarlini, saggista, drammaturgo e studioso di Letterature comparate, ripercorre con esito felice l’immaginario calviniano nelle sue diverse declinazioni nell’intero arco della sua produzione, ricostruendo un rapporto che con il tempo si arricchisce di suggestioni molteplici e di una contaminazione di linguaggi (in una sorta di postmodernismo in taluni momenti ante litteram) ampiamente restituita dai documenti in mostra, frutto di una selezione guidata dall’intento di restituire a quel legame la centralità occupata nella produzione e nella vita dello scrittore.

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Esce in occasione del centenario della nascita il volume Calvino A-Z (Electa, 2023) curato da Marco Belpoliti, che si presenta come un’enciclopedia sullo scrittore «più enciclopedico» (p. 19) del secondo Novecento italiano.

Il testo tradisce felicemente le aspettative suscitate dal titolo e subito rivela, come spiega Belpoliti nell’introduzione (Istruzioni per l’uso), una struttura che mette da parte l’ordine alfabetico del tradizionale formato enciclopedico per adottare un modello ipertestuale simile a quello dell’Enciclopedia Einaudi diretta da Ruggiero Romano, che Calvino stesso aveva molto apprezzato. Le voci sono infatti agglomerate per insiemi tematici, tra i quali si stabiliscono continui rimandi e intersezioni in grado di tracciare un profilo autoriale onnicomprensivo, che esplora la biografia intellettuale e privata, l’intera produzione letteraria e saggistica, le lettere, le interviste, la poetica e la ricezione critica.

Per attraversare il libro, costituito da 155 voci, redatte da 55 autori tra specialisti come lo stesso Belpoliti, Mario Barenghi e Bruno Falcetto – limitandoci a menzionare, tra i tanti estensori delle voci, i due curatori dei Meridiani –, critici affermati e giovani studiosi, seguiremo il suggerimento dello stesso Belpoliti, ricavandoci un libero percorso di lettura. La costellazione tematica calviniana viene presentata in apertura mediante una sorta di mappa concettuale, con ‘nuvolette’ che indicano gli insiemi in cui le voci sono raggruppate, sovrapponendosi all’indice e come decostruendolo nella sua funzione.

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Nel maggio del 1973, intervenendo a un convegno romano dedicato a Jung e la cultura europea, Giorgio Manganelli si rivolgeva alla platea di addetti ai lavori con parole destinate a rimanere forse una delle formule più efficaci per compendiare la relazione tra lo sguardo di un autore così anomalo nel panorama culturale italiano e le arti in generale, di là da quella prettamente letteraria. Una sorta di invocazione e, insieme, di rivendicazione che così si presentava: «spero che abbiate degli incubi, perché è in quegli incubi che noi abbiamo qualche cosa da dirci, perché è lì che la letteratura funziona, perché è lì che funziona la pittura, che funziona la musica e tutto il resto è littérature ma nel senso contrario naturalmente, è la cattiva letteratura».[1] Una formula – se così si può definire, nel suo sibillino andamento – che istituisce un’inscindibile relazione multipla, dunque, tra il reale, la facoltà di percepirlo nella sua radicalità e profondità, la capacità di fare di quella percezione letteratura, pittura, musica o arte in generale non cattiva (crudele, piuttosto, in senso artaudiano) e, infine, la possibilità di fare di quelle forme d’arte equivalenti forme di relazione e comunicazione tra esseri viventi. Comunicazione e relazione, però, che si muovono nella direzione opposta alle possibilità e alle illusioni di dire, di trasmettere, di esprimere e comprendere chiaramente e univocamente. Appunto, comunicazione e relazione attraverso l’incubo, piuttosto. Perché se – seguendo la devozione manganelliana verso gli oscuri e carsici percorsi negli etimi e nelle origini delle parole – interroghiamo l’etimologia di ‘incubo’ giungiamo nei territori del perturbante e dell’estraneità assoluta anche rispetto a colui che dorme e che ne fa esperienza: se il sogno chiama in causa immagini che si manifestano al dormiente dalla sua interiorità e che in qualche modo misterioso, dunque, a un certo grado ancora gli appartengono, l’incubo si configura, invece, come un essere, una creatura distinta dal dormiente stesso, che ha del demoniaco e che su di esso giace opprimendolo dall’esterno in stati di alterazione febbrile e, talvolta, congiungendovisi carnalmente. Così, è allora nei regni del neutro, dell’estraneo e del recondito, di un’usurpazione di ogni pretesa di comunicare e di entrare in relazione che – sembra dirci Manganelli in quella manciata di parole – avviene la relazione e la comunicazione più profonda attraverso quell’intreccio tra reale, percezione e arte. Non per trasmissione consapevole mediata dalla volontà, ma per immediato e sotterraneo contagio incosciente. Per ‘emigrazioni oniriche’, insomma.

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