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Nel percorso letterario di Elsa de’ Giorgi, arte e vita si fondono e si sovrappongono continuamente. Tenendo in considerazione tale parallelismo, il contributo indaga il nesso tra attorialità e autorialità nella figura di de’ Giorgi e propone, in particolare, una lettura della sua attività letteraria e autobiografica in relazione ad alcuni nuclei tematici fondamentali, come la libertà, la verità e la memoria.

In Elsa de’ Giorgi’s literary production, art and life continually merge and overlap. Taking this parallelism into consideration, the contribution focuses on the relationship between actorhood and authorship in the figure of de’ Giorgi and proposes, in particular, a reading of his literary and autobiographical activity in relation to some fundamental themes: freedom, truth and memory.

Qualsivoglia discorso critico intorno alla figura di Elsa de’ Giorgi non può prescindere da una considerazione preliminare: nella vicenda biografica e artistica di quest’attrice e scrittrice, attorialità e autorialità appaiono come due dimensioni contigue, complementari, profondamente intrecciate tra loro. È quindi un grave errore prospettico pensare che vi sia stato un passaggio, un cedere il testimone dal cinema al teatro alla scrittura: si allestirebbe, in questa direzione, una cornice interpretativa inadeguata che condurrebbe a ricostruzioni falsate. Si potrebbe piuttosto concepire tutta la vita di Elsa de’ Giorgi come un teatro della scrittura, talvolta un po’ eccessivo o folle, com’era nel suo temperamento.

La sua figura fu segnata fin da subito da due valori, destinati a diventare due veri e propri vettori fondamentali, che da soli già spiegherebbero molto di quel temperamento. Mi riferisco ai concetti di verità e di libertà. Il lettore li ritrova in uno snodo essenziale del percorso espressivo di quest’autrice, ovvero il saggio su Shakespeare e l’attore, edito nel 1950 come un opuscolo della sede fiorentina dell’Electa. In realtà il saggio prende avvio in forma di recensione, invero assai critica, al libro di Valentina Capocci, Genio e mestiere, pubblicato da Laterza l’anno prima. De’ Giorgi mira in questo scritto, sapientemente calibrato, a smontare le tesi della studiosa, mostrando una tale consapevolezza dell’idea stessa di teatro da risultarle perfettamente consustanziale. Leggiamo a pagina 8:

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Il mondo delle arti visive ha riguardato profondamente la vita e il lavoro di Elsa de’ Giorgi. In particolar modo, dalla fine degli anni Quaranta alla metà degli anni Cinquanta – ovvero nel tratto di storia che ha visto l’attrice legarsi alla famiglia di antiquari Contini Bonacossi – la de’ Giorgi ha potuto meditare a lungo sui grandi capolavori degli Old Masters, frequentando una delle raccolte più importanti d’Europa. Una meditazione che rileggiamo ora attraverso una poesia inedita, scritta da Elsa nella primavera del 1964, che rivela un nuovo e prezioso tassello critico di un’autrice infinita.

The world of the visual arts profoundly affected Elsa de’ Giorgi’s life and work. In particular, from the late 1940s to the mid-1950s – i.e. in the stretch of history that saw the actress linked to the Contini Bonacossi family of antiquarians – De Giorgi was able to meditate at length on the great masterpieces of the Old Masters, frequenting one of the most important collections in Europe. A meditation that we now reread through an unpublished poem, written by Elsa in the spring of 1964, which reveals a new and precious critical piece of a never-ending author.

I rapporti tra Elsa de’ Giorgi e il mondo dell’arte sono avvenuti in maniera direi quasi naturale nel corso della sua precoce e lunga carriera, appunto, artistica. Se già con la parola ‘artista’ si potrebbe definire chi, come nel caso della de’ Giorgi, sia riuscito con serietà, e una certa grazia, a interpretare più ruoli tra cinema, teatro e letteratura.[1]

Ma basterebbe pensare alle amicizie, le frequentazioni, le vicissitudini sentimentali che l’attrice e scrittrice, nata a Pesaro il 26 gennaio del 1914, ha saputo coltivare con tantissime personalità del grande sistema delle arti. E dico sistema delle arti perché i nomi propri che si avvicendano, direttamente o indirettamente, nella sua vita sono quelli di Carlo Levi, Leoncillo, Guttuso, Pier Paolo Pasolini, Bernard Berenson, per stare solo a qualche esempio. E dunque pittori, scultori, registi, scrittori, critici, storici dell’arte. Di ciascuno di loro Elsa comprende lo stile, la poetica, la filosofia e quindi la qualità, il livello, la grandezza. Mi pare che sia questo ciò che più sorprende di quest’autrice.

Elsa de’ Giorgi non è una testimone di un bel periodo storico, non una sopravvissuta e né una marginale spettatrice di un’età dell’oro della cultura italiana (come spesso hanno voluto perimetrarla i suoi detrattori). Elsa de’ Giorgi ha una dote innata: è munita di un gusto sicuro, una sorta di radar per i valori dell’arte che sa riconoscere, comprendere e riversare in tutto ciò che fa, nel suo lavoro: sublimando la citazione in gesto critico.

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Diva del cinema italiano degli anni Trenta, Elsa de’ Giorgi è stata anche scrittrice, attrice teatrale e regista. Superata la stagione che l’ha vista impegnata nella recitazione per il grande schermo – ma anche parallelamente ad essa – un fil rouge ha attraversato la sua carriera e ha riguardato l’espressione di una straordinaria intelligenza esperita tramite la frequentazione di vari linguaggi artistici. Entro un orizzonte interpretativo che, ad ogni passo avanti, si rivela via via più articolato, i contributi accolti in questa sezione indagano proprio alcuni aspetti meno noti dell’attività di de’ Giorgi, ma dai quali emergono rilevanti chiavi di lettura.1 Ci si riferisce in particolare all’indagine di Roberto Deidier relativa al nesso tra attorialità e autorialità nella figura della diva e ad alcuni nuclei tematici fondamentali del suo percorso letterario e autobiografico, come la libertà, la verità e la memoria; all’accurata ricostruzione dell’ampio itinerario teatrale dell’artista offerta da Simona Scattina, che ricompone in un insieme unitario l’esperienza di recitazione, gli scritti teorici e il lavoro di regia di de’ Giorgi; all’affondo di Tommaso Tovaglieri sul rapporto dell’autrice con l’universo delle arti figurative, condotto anche attraverso una serie di rimandi alla collezione d’arte della famiglia del marito, Sandro Contini Bonacossi, e il commento di un testo inedito, La ballata dei bravi 1963.

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Lo spazio delle Scuderie del Quirinale è aperto da una vasta scalinata a chiocciola che dal piano di accesso si solleva fino al livello superiore, dove inizia la prima delle due grandi gallerie. Per inoltrarsi nel percorso al visitatore resta da attraversare uno spazio di raccordo, prima stazione della mostra Favoloso Calvino (13 ottobre 2023 - 4 febbraio 2024, Roma, Scuderie del Quirinale) che si affaccia sulla pendenza delle scale. Con il disegno di una spirale e una stanza-balcone sopra le linee spezzate dei gradini, l’ingresso all’antica rimessa delle carrozze papali somiglia molto alla forma del mondo secondo Italo Calvino. Una corrispondenza affidata alla voce dell’autore in una sequenza di citazioni estratte dal testo Dall’opaco e proiettate sulla parete al termine della scalinata, come istruzioni implicite per guadare tutto quello che segue.

La mostra racconta l’impronta visiva del mondo nel pensiero e nella scrittura di Calvino attraverso un reticolo di immagini, oggetti e parole sospese sulle griglie di legno che forniscono il supporto verticale dell’esposizione. Queste impalcature ‘aeree’ determinano l’impatto visuale dell’allestimento formando un dedalo di scacchiere trasparenti capaci di filtrare lo sguardo di chi avanza sulle sale, in un continuo omogeneo ma fatto di moduli e strutture a vista.

Il percorso procede per undici serie che seguono sottotraccia, ma tutte ugualmente e ordinatamente rappresentate, le fasi della biografia intellettuale di Calvino, esplicitando i punti di snodo di un ritratto completo: il grande ritratto d’autore nel suo centenario. Prima indicazione di metodo e di lettura è la presenza di coppie di valori opposti nelle sezioni che si articolano fra «lo spazio fisico dei campi» e «lo spazio immaginario» del cinema e della letteratura (2. Natura vs artificio), fra 5. Il reale e il fantastico, fra il remoto/immenso e il vicino/piccolo (7. Tutto il cosmo, qui e ora). Altre sezioni sono dichiaratamente tematiche (3. La guerra, la politica; 4. Ritratti di Calvino; 10. Viaggi e descrizioni) o anticipano nel titolo la centralità di un’opera: 6. «Le fiabe sono vere»; 8. Mescolando le carte; 9. L’atlante delle città (in)visibili. Aprono e chiudono l’esposizione due emblemi dell’immaginario di Calvino, 1. L’albero e 11. Cominciare e ricominciare, che esprimono matrici profonde dello stile e dell’impegno intellettuale dell’autore. Le didascalie e i pannelli firmati da Mario Barenghi punteggiano il viaggio dello spettatore/lettore disegnando ora linee invisibili fra le diverse pareti della mostra, ora immersioni nelle radici più o meno esplorate della scrittura calviniana. Ogni volta che il curatore commenta una forma, un’opera, un’immagine sta descrivendo le pagine dell’autore: «un albero è prima di tutto una forma dello spazio. Dunque un emblema dal duplice valore: da una parte lo slancio verso l’alto, verso una sommità propizia all’estensione dello sguardo […], dall’altro il dispiegarsi delle fronde, la ramificazione, cioè il diramarsi di connessioni, sviluppi».

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Non c’è nel Novecento italiano scrittore per cui il rapporto parola e immagine abbia un’evidenza maggiore di quella che attraversa l’intera, multiforme opera di Italo Calvino, dalle atmosfere fiabesche ai giochi combinatori di suggestione postmoderna. Del resto, egli stesso nell’intervento delle Sei lezioni americane dedicato alla ‘Visibilità’ postula con chiarezza tale legame distinguendo due processi immaginativi, l’uno che parte delle parole e approda alle immagini visive, l’altro che, all’opposto, scaturisce dall’immagine visiva e giunge all’espressione verbale, in un continuo, reciproco scambio. E nel definirsi figlio della ‘civiltà delle immagini’ egli precisa come per la sua epoca fondamentali siano state le illustrazioni di riviste e i volumi per l’infanzia.

Ecco perché a Genova le celebrazioni in occasione del centenario della nascita dello scrittore nato a Cuba il 15 ottobre 1923, ma di fatto sanremese, hanno puntato sulla mostra Calvino Cantafavole, allestita fra gli spazi della Loggia degli Abati di Palazzo Ducale e Casa Luzzati fino al prossimo 7 aprile. Il percorso espositivo, curato da Eloisa Morra, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Toronto e Luca Scarlini, saggista, drammaturgo e studioso di Letterature comparate, ripercorre con esito felice l’immaginario calviniano nelle sue diverse declinazioni nell’intero arco della sua produzione, ricostruendo un rapporto che con il tempo si arricchisce di suggestioni molteplici e di una contaminazione di linguaggi (in una sorta di postmodernismo in taluni momenti ante litteram) ampiamente restituita dai documenti in mostra, frutto di una selezione guidata dall’intento di restituire a quel legame la centralità occupata nella produzione e nella vita dello scrittore.

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Esce in occasione del centenario della nascita il volume Calvino A-Z (Electa, 2023) curato da Marco Belpoliti, che si presenta come un’enciclopedia sullo scrittore «più enciclopedico» (p. 19) del secondo Novecento italiano.

Il testo tradisce felicemente le aspettative suscitate dal titolo e subito rivela, come spiega Belpoliti nell’introduzione (Istruzioni per l’uso), una struttura che mette da parte l’ordine alfabetico del tradizionale formato enciclopedico per adottare un modello ipertestuale simile a quello dell’Enciclopedia Einaudi diretta da Ruggiero Romano, che Calvino stesso aveva molto apprezzato. Le voci sono infatti agglomerate per insiemi tematici, tra i quali si stabiliscono continui rimandi e intersezioni in grado di tracciare un profilo autoriale onnicomprensivo, che esplora la biografia intellettuale e privata, l’intera produzione letteraria e saggistica, le lettere, le interviste, la poetica e la ricezione critica.

Per attraversare il libro, costituito da 155 voci, redatte da 55 autori tra specialisti come lo stesso Belpoliti, Mario Barenghi e Bruno Falcetto – limitandoci a menzionare, tra i tanti estensori delle voci, i due curatori dei Meridiani –, critici affermati e giovani studiosi, seguiremo il suggerimento dello stesso Belpoliti, ricavandoci un libero percorso di lettura. La costellazione tematica calviniana viene presentata in apertura mediante una sorta di mappa concettuale, con ‘nuvolette’ che indicano gli insiemi in cui le voci sono raggruppate, sovrapponendosi all’indice e come decostruendolo nella sua funzione.

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Nel maggio del 1973, intervenendo a un convegno romano dedicato a Jung e la cultura europea, Giorgio Manganelli si rivolgeva alla platea di addetti ai lavori con parole destinate a rimanere forse una delle formule più efficaci per compendiare la relazione tra lo sguardo di un autore così anomalo nel panorama culturale italiano e le arti in generale, di là da quella prettamente letteraria. Una sorta di invocazione e, insieme, di rivendicazione che così si presentava: «spero che abbiate degli incubi, perché è in quegli incubi che noi abbiamo qualche cosa da dirci, perché è lì che la letteratura funziona, perché è lì che funziona la pittura, che funziona la musica e tutto il resto è littérature ma nel senso contrario naturalmente, è la cattiva letteratura».[1] Una formula – se così si può definire, nel suo sibillino andamento – che istituisce un’inscindibile relazione multipla, dunque, tra il reale, la facoltà di percepirlo nella sua radicalità e profondità, la capacità di fare di quella percezione letteratura, pittura, musica o arte in generale non cattiva (crudele, piuttosto, in senso artaudiano) e, infine, la possibilità di fare di quelle forme d’arte equivalenti forme di relazione e comunicazione tra esseri viventi. Comunicazione e relazione, però, che si muovono nella direzione opposta alle possibilità e alle illusioni di dire, di trasmettere, di esprimere e comprendere chiaramente e univocamente. Appunto, comunicazione e relazione attraverso l’incubo, piuttosto. Perché se – seguendo la devozione manganelliana verso gli oscuri e carsici percorsi negli etimi e nelle origini delle parole – interroghiamo l’etimologia di ‘incubo’ giungiamo nei territori del perturbante e dell’estraneità assoluta anche rispetto a colui che dorme e che ne fa esperienza: se il sogno chiama in causa immagini che si manifestano al dormiente dalla sua interiorità e che in qualche modo misterioso, dunque, a un certo grado ancora gli appartengono, l’incubo si configura, invece, come un essere, una creatura distinta dal dormiente stesso, che ha del demoniaco e che su di esso giace opprimendolo dall’esterno in stati di alterazione febbrile e, talvolta, congiungendovisi carnalmente. Così, è allora nei regni del neutro, dell’estraneo e del recondito, di un’usurpazione di ogni pretesa di comunicare e di entrare in relazione che – sembra dirci Manganelli in quella manciata di parole – avviene la relazione e la comunicazione più profonda attraverso quell’intreccio tra reale, percezione e arte. Non per trasmissione consapevole mediata dalla volontà, ma per immediato e sotterraneo contagio incosciente. Per ‘emigrazioni oniriche’, insomma.

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Gira, il mondo gira

nello spazio senza fine

con gli amori appena nati

con gli amori già finiti

con la gioia e col dolore

della gente come me.

J. Fontana

 

In occasione del centenario della nascita di Italo Calvino, l’attore, regista e drammaturgo leccese Mario Perrotta ha portato in scena il frutto di un allucinato itinerarium mentis intitolato Come una specie di vertigine. Il Nano, Calvino, la libertà. Presentato in prima nazionale a marzo 2023 al Teatro Carcano di Milano, lo spettacolo presentava inizialmente il titolo s/Calvino – o della libertà; è stato poi l’autore a volerlo cambiare, dopo le prime repliche, per fugare ogni aspettativa di spettacolo-omaggio allo scrittore sanremese. L’intento di Perrotta, infatti, è piuttosto quello di ragionare in libertà di libertà e per farlo pensa bene di affondare le mani negli scritti di Calvino «scalvinandoli, scompigliandoli e ricomponendoli»; esigenza già emersa con lo spettacolo del 2022 Libertà rampanti, un dialogo a tre voci con Sara Chiappori e Vito Mancuso, in cui Perrotta ragionava di libertà attraversando vari autori come Sofocle, Sant’Agostino, Shakespeare, Dostoevskij, Morante per approdare, infine, all’immancabile Calvino.

Come una specie di vertigine. Il Nano, Calvino, la libertà – scritto, diretto e interpretato interamente ed esclusivamente da Perrotta si apre sulle note del Mondo (1965) di Jimmy Fontana, che scandiscono, per quattro volte di seguito, il ritmo di accensione e spegnimento dei quattro fari presenti sul palco e puntati sul pubblico. Questi reiterati, iniziali abbagli costringono lo spettatore ad aggiustare rapidamente lo sguardo per dare il benvenuto al protagonista della pièce: Perrotta, emerso dal buio lentamente e progressivamente, appare seduto su una sedia girevole di metallo che sovrasta un’intelaiatura di ferro fissa al pavimento con un microfono ad asta montato su di essa.

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Se i rapporti tra i nostri scrittori del Novecento e l’arte cinematografica, così densi, sono stati declinati soprattutto a colpi di soggetti (anche preterintenzionali) e sceneggiature per il grande schermo, le relazioni che col cinema intrattiene il centenario Calvino occupano un posto particolare – in quanto prevalentemente nutrite da recensioni, riflessi sull’immaginario privato nonché strategie narrative che risentono, volenti o nolenti (come per tutti gli autori del nostro secondo Novecento), della concorrenza della settima arte (viene subito in mente, in proposito, l’incipit del Sentiero, e dunque le prime parole in assoluto dello scrittore editato: «Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti […] giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri…»).

Si tratta di aspetti in verità già toccati e criticamente sviluppati in occasione di un ormai lontano convegno di studi (San Giovanni Valdarno, 1987) poi confluito nel relativo volume di atti L’avventura di uno spettatore. Italo Calvino e il cinema, a cura di Lorenzo Pellizzari, 1990; e più tardi anche dalla monografia di Vito Santoro, Calvino e il cinema del 2012 (in mezzo lo studio di Maria Rizzarelli, Sguardi dall’opaco: saggi su Calvino e la visibilità del 2008, che ha però un raggio d’azione più ampio, nel senso che indaga un modo di vedere e relazionarsi con le cose, da parte dello scrittore, che ha a che fare anche con la pittura e con la fotografia). Davide Maria Zazzini aggiorna dunque, in concomitanza con l’uscita di nuovi studi e documenti che riguardano l’autore (monografie, omaggi, ricordi), una bibliografia già consistente, ripercorrendo in dettaglio un rapporto a quanto pare intenso e duraturo al quale sono da ricondurre anche alcune tematizzazioni narrative (nella Speculazione, in Marcovaldo) e più d’una trasposizione intermediale (per la televisione o per il cinema). E lo fa rivelando da una parte una profonda conoscenza della storia del cinema, delle sue tecniche, dall’altra una minuta coscienza dell’opera (così vasta) calviniana.

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