Categorie



Questa pagina fa parte di:

Abstract: ITA | ENG

Procedendo dall’analisi di Hes. Th. 507-613 e di altre testimonianze puntuali, si ricostruiscono le sequenze fondamentali del mito prometeico del furto del fuoco, a partire dal retroscena della spartizione di Mecone. L’insieme dei dati, posto in relazione con le fonti letterarie e iconografiche relative ai Promethia, permette di illuminare la funzione cultuale di Prometeo nella città di Atene e le prerogative del fuoco che il Titano dona agli uomini: intermediario tra il fuoco inestinguibile di Zeus e quello perfettamente addomesticato di Efesto, il fuoco prometeico resta nascosto ma non si spegne. È dunque divenuto a ‘misura d’uomo’, ma conserva, dell’antico fuoco cosmogonico, quella vigorìa che lo mantiene acceso, rendendolo ‘instancabile’.

Proceeding from the analysis of Hes. Th. 507-613 and other punctual testimonies, the fundamental sequences of the Promethean myth of the theft of fire are reconstructed, starting from the background of the partition of Mecon. The set of data, placed in relation to the literary and iconographic sources relating to the Promethia, allows us to illuminate the cultic function of Prometheus in the city of Athens and the prerogatives of the fire that the Titan bestows on mankind: an intermediary between the unquenchable fire of Zeus and the perfectly tamed fire of Hephaestus, Promethean fire remains hidden but is not extinguished. It has therefore become 'human-sized', but retains, of the ancient cosmogonic fire, that vigour that keeps it burning, making it 'indefatigable'.

Anche il “mito” di Prometeo – come altri racconti complessi e stratificati di dèi ed eroi tramandati nelle fonti antiche – si frastaglia nella letteratura e nell’iconografia greca segmentandosi in diverse imprese, senza che vi sia la possibilità di ricostruire genesi e articolazione dell’insieme delle gesta che al Titano sono attribuite. Prometeo portatore del fuoco agli uomini, Prometeo che inaugura il sacrificio bovino insegnando ai mortali come lasciare agli dèi le sole ossa tenendo per sé la carne, Prometeo che plasma il protògonos al quale Atena infonde la psyché, Prometeo che subisce la punizione sul Caucaso e che poi viene liberato da Eracle. A queste si aggiungono ulteriori imprese, meno celebri, nelle quali il Titano è ricordato insieme a Deucalione e a Chirone, fino alla rilettura platonica del furto del fuoco. Nella letteratura antica, dunque, è difficile imbattersi in una rassegna completa delle imprese prometeiche, mentre prevalgono i resoconti e le riletture focalizzati su una particolare sezione del mito; unica e attesa eccezione è il resoconto della Biblioteca dello Pseudo Apollodoro. Nella selettività delle fonti visive, connaturata al mezzo, si segnala tuttavia l’originale e inattesa riproduzione di più momenti del mito di Prometeo su un celebre sarcofago, che ne riproduce in sequenze alcuni dei momenti più significativi.[1]

Sia pure trattate quasi sempre in modo separato, le imprese di Prometeo lasciano intuire una stretta relazione tra il dio e il genere umano. Una relazione già individuata da Kerényi nella struttura espositiva della Teogonia esiodea, ove la genealogia di Giapeto segue a quella della linea Urano-Crono.[2]

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

Abstract: ITA | ENG

L’articolo, che ha lo scopo di introdurre l’omonimo fascicolo monografico, indaga la ricezione del mito di Prometeo, nella sua mobilità non solo diacronica e diatopica, ma anche intermediale. Nel ripercorrere le recenti acquisizioni metodologiche degli studi intermediali, e nel sottolinearne la crescente importanza, il contributo mette in luce la prolifica fortuna della figura di Prometeo attraverso diversi media, dalla letteratura e il teatro fino al cinema, i videogiochi e i meme contemporanei, che ne determinano trasformazioni sostanziali. L’instabilità, caratteristica costitutiva della fortuna del mito, nel caso di Prometeo è legata anche alla mancanza di un solido e unico testo sorgente; la cangiante molteplicità del Titano lo rende una figura emblematica per analizzare i meccanismi complessi della ricezione intermediale.

The article, which aims to introduce the current monographic issue, explores the reception of the mythical figure of Prometheus from an intermedial perspective. By retracing recent methodological developments in intermedial studies and emphasizing their growing significance, the contribution highlights the prolific reception of Prometheus across different media, including literature, theatre, cinema, video games, and contemporary memes, all of which contribute to significant transformations of the myth. Instability, a defining characteristic of the myth’s reception, in the case of Prometheus is also linked to the absence of a single authoritative source text. The Titan’s multiplicity thus makes him an emblematic figure for analysing the complex mechanisms of intermedial reception.

Una didascalia in sovraimpressione nella sequenza iniziale di Oppenheimer informa lo spettatore, eventualmente ignaro di trovarsi di fronte all’ennesima metamorfosi del mito, che «Prometheus stole fire from the gods and gave it to man. For this he was chained to a rock and tortured for eternity». Il riferimento al Titano, già presente nel titolo della biografia scritta da Kai Bird e Martin J. Sherwin sulla quale è basata la sceneggiatura del film di Christopher Nolan (American Prometheus. The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer, 2005), rientra in una casistica verso la quale già Schelling attirava l’attenzione: «La mitologia è essenzialmente qualcosa che si muove».[1] Immunizzato dalla catastrofe del nazismo nei confronti delle ipostatizzazioni del mito, Hans Blumenberg avrebbe neutralizzato il «mito della mitologia» risolvendo quest’ultima nella storia dei suoi effetti: «L’originario rimane un’ipotesi, l’unica base per verificare la quale è la ricezione»;[2] assunto in seguito echeggiato dalla mitocritica più avvertita, che muove dall’ipotesi «d’un sens non inhérent au(x) mythe(s), mais généré en perpétuelle réinvention à partir de la situation du sujet énonciateur».[3]

Se la «mobilità diacronica e diatopica»[4] del mito in generale è ormai un dato acquisito, non lo è altrettanto, o non a sufficienza, la dimensione mediale di tale mobilità. Come ha osservato una studiosa particolarmente sensibile alla questione, «le jeu des prismes interprétatifs est parfois d’une complexité qui repose bien plus que de l’intertextualité littéraire».[5] Ovviamente non godono più di credito semplificazioni come quella che relegava il mito alla sfera dell’oralità, attribuendo alla scrittura un’implacabile funzione demitizzante; per quanto, naturalmente, si continui ad attribuire un ruolo fondamentale all’oralità nei circuiti intermediali dell’antico.[6] È però un dato di fatto che l’attenzione all’intermedialità del mito stenta ancora ad affermarsi, per quanto da questo studio potrebbero trarre beneficio non solo le ricerche sulla tradizione del classico (alle quali aggiunge alcune tessere il contributo di Guido Milanese presente in questo fascicolo), ma anche gli stessi studi di intermedialità, troppo spesso appiattiti su un ‘presentismo’ dimentico del radicamento e della profondità storica delle questioni.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

Abstract: ITA | ENG

Per lo scultore Giacomo Manzù gli anni della Seconda Guerra Mondiale coincidono con un volontario esilio nella cittadina di Clusone, in Val Seriana. Arrivato da Milano, dove negli anni Trenta aveva stretto amicizie con i protagonisti di un’accorta fronda alla cultura di regime (su tutti il gruppo di ‘Corrente’), Manzù trovò a Clusone un ambiente adatto al suo carattere schivo, ma al contempo stimolante per la sua ricerca espressiva. Da qui poté anche intrattenere alcune selezionate corrispondenze, utili per comprendere il suo posizionamento nel campo artistico-letterario dell’epoca. Queste lettere rappresentano le sue scritture del dispatrio, inviate significativamente a colleghi (Scialoja, Negri), critici (Brandi, Argan), ma anche a letterati (Quasimodo, De Libero) ed editori (Scheiwiller, Ballo), interlocutori privilegiati dell’artista. Attraverso un’analisi di questi documenti, prevalentemente inediti, si proverà a ricostruire un passaggio importante della parabola artistica dello scultore, che da Clusone e attraverso il progetto della Grande Pietà (mai concluso) diede corpo a una svolta decisiva nella sua ricerca scultorea e nella sua strategia di autopromozione. Infatti ha origine qui, nella condizione mobile di un esilio autoimposto e nella disponibilità al dialogo interdisciplinare, il percorso che lo avrebbe condotto a Roma e alla consacrazione come ‘scultore dei papi’.

For the sculptor Giacomo Manzù the years 1942-1945 coincide with a voluntary exile in Clusone, a small town in Val Seriana. When he arrived from Milan, where in the 1930s he had made friends with the protagonists of a shrewd frond to the culture of the fascist regime (above all the group of 'Corrente'), Manzù found in Clusone an environment suited to his shy character, but at the same time stimulating for his expressive research. From here he was also able to entertain some selected correspondences, useful to understand his position in the artistic-literary field of the time. These letters represent his scritture del dispatrio, sent significantly to colleagues (Scialoja, Negri), critics (Brandi, Argan), but also to writers (Quasimodo, De Libero) and publishers (Scheiwiller, Ballo), privileged interlocutors of the artist. Through an analysis of these documents, mostly unpublished, we will try to reconstruct an important passage in the artistic career of the sculptor, who from Clusone and through the project of the Great Piety (never concluded) gave rise to a decisive turning point in his sculptural research and in his strategy of self-promotion. In fact, the road that would lead him to Rome and to his consecration as 'sculptor of the popes' originated here, in the mobile condition of a self-imposed exile and in his willingness to engage in interdisciplinary dialogue.

 

1. L’«ormai mio amato studio di Clusone»

Durante l’estate del 1944 lo scultore bergamasco Giacomo Manzù si trovava a Laveno, ospite dell’industriale De Angeli-Frua, che lo aveva incaricato di eseguire una maschera funebre e un ritratto della moglie. Durante questo soggiorno Manzù lavorò molto, riprese il tema delle Erbe[2] a cui si era dedicato qualche anno prima,[3] e scrisse diverse lettere agli amici, come quella citata, indirizzata alla signora Anna Musso. Sono poche, semplici parole, ma rivelano alcuni aspetti importanti dell’esperienza dell’artista a quest’epoca. Da un lato il bisogno quasi fisiologico di applicarsi alla materia scultorea, secondo un istinto che si pacifica solo quando tocca «la grazia che gli viene dal lavoro quotidiano»,[4] secondo un’attitudine che sarebbe andata accentuandosi sempre più nel carattere di Manzù, che nel dopoguerra, quando avrà raggiunto una celebrità internazionale, farà di questa artigianalità dell’ispirazione una specie di ‘marchio di fabbrica’.[5] Dall’altro, la necessità del lavoro raccolto nella solitudine del proprio studio, dove le opere prendono forma, vengono fatte e disfatte. Uno studio che negli anni della seconda guerra mondiale, dal 1942 al 1945, Manzù installò a Clusone, cittadina della Val Seriana dove decise di sfollare insieme alla moglie Tina Oreni e al figlio Pio, in una sorta di autoesilio.

Lo studio di Clusone gli era stato procurato nientemeno che dal Direttore generale delle Arti del Ministero dell’educazione nazionale, Marino Lazzari, che aveva scritto di persona al podestà Silvestro Messa («Poiché egli desidera sistemarsi in codesto Comune per svolgervi il suo lavoro, e poiché si tratta di artista di altissime qualità e di chiarissima fama, Vi sarò grato se vorrete in ogni modo facilitare a lui e alla sua famiglia la migliore sistemazione»).[6] Manzù era arrivato nel capoluogo seriano nell’inverno del 1942 e aveva trovato ospitalità presso la villa del professor Carrara. Aveva scelto Clusone su suggerimento dell’amico Attilio Nani, scultore a sua volta, la cui bottega di via Torretta 10, a Bergamo, il giovane Manzù aveva frequentato a lungo. E come lui l’avevano frequentata anche altri artisti e intellettuali bergamaschi,[7] come Achille Funi, Alberto Vitali, Trento Longaretti, Bartolomeo Calzaferri, che adesso si ritrovavano quasi per caso tutti radunati a Clusone in una sorta di piccolo convivio di esiliati (di cui facevano parte anche Umberto Vittorini, Ezio Pastorio, Pietro Fassi e Arturo Tosi). Con loro Manzù ritrovava il senso di una comunità artistica interessata a discutere e confrontarsi, come l’aveva sperimentata a Milano nel corso degli anni Trenta. La scelta di Clusone, d’altra parte, era stata fatta anche per ragioni pratiche: la presenza di una stazione ferroviaria – che rimase in funzione durante tutto il tempo di guerra[8] – permetteva allo scultore di raggiungere agevolmente Milano e Bergamo, ma anche Torino e Roma, dove continuò a recarsi lungo quei tre anni per ragioni d’insegnamento e di attività espositiva.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • Il corpo plurale di Pinocchio. Metamorfosi di un burattino →

 In the late 1990s Pinocchio began to appear in Jim Dine’s art – for example, in the 1998 lithograph The Mezzotint Boy – bringing with him memories from the artist’s childhood, and bearing traces of his fascination with the character of the boy-puppet that he first encountered in the 1940 Disney film which he saw when he was six years old. Pinocchio is now established as one of the recurring motifs in Dine’s art, along with hearts, bathrobes, tools, birds and antique statues of Venus. Dine has now produced a series of polychrome, wooden sculptures of Pinocchio exhibited at the Pace Gallery in New York in 2006-2007, a portfolio of some forty prints based on the Pinocchio story exhibited at the New York Public Gallery during the Winter of 2006-2007 and Alan Cristea Gallery in London in Spring 2007, the closely-related illustrations to an edition of Collodi’s original text of Pinocchio published by Steidl in 2007, and even a monumental thirty-foot high bronze figure of Pinocchio for the Swedish town of Boras [fig. 1a]. Since 2012 visitors to the art museum in Dine’s home-town of Cincinnati are now greeted by a twelve-foot high bronze statue of Pinocchio with arms raised to the heavens [fig. 1b].

Things are invested with emotion by Dine, often an emotion associated with childhood: «All these objects come out of my childhood» (Jim Dine in conversation with Germano Celant and Claire Bell, in Celant-Bell, 1999, p. 156). Whether these things are the bathroom fittings sold by his family, or the tinned foods stored in cupboards during the Second World War, Dine’s memories invest them with a personal, even autobiographical quality quite distinct from the fascination with the glamour of commodities and advertising evident in Pop Art. Tools, in particular, are felt by Dine to carry a shared legacy of work in their forms: «A tool can be inspiring […] because this tool is a beautiful object in itself. It has been refined to be an extension of one’s hand, over the centuries, in a process of evolution. And it can inspire you that way» (Celant-Bell, 1999, p. 132). This feeling for objects makes them vehicles for a type of self-portraiture so that, for example, when the bristles of a house-painter’s brush are lengthened to resemble a beard from one state of an etching to another, the brush becomes a portrait of the artist as the legendary Blackbeard. Equally the image of a bathrobe found in a magazine advert becomes a reiterated form of self-likeness in works across different media. Although Pinocchio is a relatively late motif in Dine’s art, he has been present in his practice since his twenties in the form of a cherished object, a commercially produced figure of Pinocchio:

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →