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Abstract: ITA | ENG

Noosfera Lucignolo (2007) è la prima delle quattro parti che compongono il progetto Programma Noosfera di Roberto Latini: quattro performance che tentano di esplorare, attraverso i mezzi del linguaggio teatrale contemporaneo di Latini, quella sfera immaginaria che comprende l’intera coscienza collettiva e il frutto del pensiero umano, che Pierre Teilhard de Chardin definì appunto noosfera. Latini afferma che Noosfera Lucignolo diviene «riflessione sulla rappresentabilità dei testi e sui processi per la rappresentazione», quindi il presente saggio tenta di gettare uno sguardo sul modo in cui questa prima fase del Programma Noosfera trasforma il personaggio di Lucignolo in una sorta di campo di forze nel quale l’io, il linguaggio, la coscienza, la cultura e il teatro stesso attendono che arrivi la notte per tentare l’affondamento definitivo nell’oceano dell’indicibile e dell’irrappresentabile.

Noosfera Lucignolo (2007) is the first of the four parts that form Roberto Latini’s project Programma Noosfera: four performances that try to explore, by the means of Latini’s contemporary theatrical language, that imaginary sphere which comprehends the whole collective consciousness and the figment of the human thought, that Pierre Teilhard de Chardin called noosfera indeed. Latini says that Noosfera Lucignolo becomes a «reflection about the representability of texts and processes of representation», so this essay try to observe the way this first step of Programma Noosfera transforms the character Lucignolo in a sort of force field in which the self, language, consciousness, culture and theater itself wait for the night to come to definitively sink in the ocean of unspeakable and irrepresentable.

 

 

Pinocchio voleva partire «domani all’alba»: che era partenza impetuosa, liberatrice, per fare «la vita del vagabondo»; Lucignolo si sottrae alla «città» in una mezzanotte sommessa e furtiva, e va ad «abitare» in quel mirabile «lontano». C’era protervia in Pinocchio, c’è un’ombra di disperazione in Lucignolo.

Giorgio Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo

 

 

Romeo è un nome che, nell’etimo, riporta alla figura del pellegrino, dunque a colui che lascia tutto, si sottrae alla città, al quotidiano, alla civiltà, per partire verso un luogo idealizzato come sacro, verso un altrove capace di imprimere una sterzata a un presente vissuto come limite, come condizione da superare. Romeo nell’etimo significa pellegrino e, sempre nell’etimo, pellegrino è colui che sceglie di farsi straniero, il forestiero che va ‘per gli altrui paesi’ in vista di un più o meno cosciente e consapevole miglioramento della propria vita, legato più alla sfera spirituale o esistenziale che a quella pratica e materiale. E Romeo è il vero nome, nel Pinocchio di Collodi, del ragazzino conosciuto da tutti come Lucignolo, soprannome affibbiatogli a causa del suo aspetto «asciutto, secco e allampanato, tale e quale come un lucignolo nuovo di un lumino da notte».[1]

Lucignolo, Romeo, è anche colui che Roberto Latini (una delle figure cardine del teatro italiano contemporaneo) sceglie nel 2010 per inaugurare un progetto in quattro fasi che mira a indagare, attraverso il linguaggio teatrale, quattro possibili frammenti chiave della cosiddetta Ê»noosferaʼ. Tale termine è utilizzato dal pensatore mistico Pierre Teilhard de Chardin per designare una sorta di ‘coscienza collettiva’ o ‘coscienza universale’ degli esseri umani, generatasi grazie all’avvento del pensiero e della capacità umana della riflessione, a seguito dello sviluppo del mondo inorganico (geosfera) e di quello organico (biosfera).[2] Quasi fosse un luogo, una rete che collega e comprende tutti i fenomeni del pensiero e dell’intelligenza, dando vita a una sorta di sfera capace di contenere simultaneamente lo scibile umano e il modo in cui questo si è sedimentato nelle coscienze, nell’immaginario, nel subconscio collettivo, modificandolo e ricostituendolo in un costante lavorio.

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Una citazione dalla critica letteraria dell’opera collodiana rende ragione della scelta di adottare l’emoji del runner, ragazzo che corre, per rappresentare il nome Pinocchio nella traduzione dell’opera in emoji elaborata e curata in seno alla social community di Scritture Brevi, promossa su Twitter e nota come Pinocchio in Emojitaliano, ora pubblicata in volume per i tipi di Apice libri [fig. 1].

Ispirato a modelli e programmi storici di lingue artificiali e ausiliarie a statuto universale, Emojitaliano consiste in un repertorio di corrispondenze lessicali stabilizzate e coerenti e nella elaborazione di una struttura grammaticale semplificata volta a individuare le parti del discorso, permettendo in tal modo la lettura autonoma e la decodificazione del senso. Emojitaliano è, concretamente, la ‘grammatica’ il ‘glossario’ di Pinocchio in Emojitaliano, ovvero il set di regole predefinite e il repertorio di corrispondenze italiano-emoji concordate nel corso della traduzione, contestualmente depositate nel collegato dizionario e traduttore digitale @emojitalianobot presente su Telegram.

 

Emojitaliano: il lessico

Esperimento di riscrittura creativa, Pinocchio in Emojitaliano attesta l’allestimento di un repertorio a base semantica, con corrispondenze istituite tra gli emoji dello standard Unicode e la lingua. Nei casi di mancata, o assente, simmetria, nuovi segni sono stati elaborati attraverso la ricombinazione di segni esistenti o attraverso processi di risemantizzazione, sfruttando le potenzialità iconiche, ma anche simboliche, del linguaggio per immagini. Il codice Emojitaliano si giova, per questo, della qualità pittografica degli emoji (come segni di referenti), e parimenti del loro valore ideografico (segni di concetti), per l’assegnazione dei significati, ma soprattutto attinge alla dimensione logografica, per la possibilità di ‘leggere’ i segni nella specifica lingua.

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La realtà di Pinocchio è popolata di forme mutevoli, instabili, in continuo divenire. I personaggi che il burattino incontra nella sua quête assumono, nei reiterati incontri fra le pagine del romanzo, sembianze differenti, di volta in volta rinnovate – complice anche la genesi dell’opera – per opera di magia (come nel caso delle simboliche apparizioni della Fata) o di travestimento (la Volpe e il Gatto, mascherati da assassini), per dissolvimento dell’involucro corporeo (l’ombra del Grillo parlante) o per gli effetti di un destino luttuoso (Lucignolo). Lo stesso Pinocchio, soprattutto, è soggetto a continue trasformazioni: ‘animale da fuga’, come scrive Manganelli, fin dall’esordio il burattino trascende la condizione di pezzo di legno da catasta per affacciarsi alle soglie dell’umanità, ed è esposto lungo la narrazione alla forza attrattiva o repulsiva di altre possibilità e condizioni di esistenza. Una volta allontanatosi da casa, Pinocchio viene riconosciuto come fratello dalla compagnia ‘drammatico-vegetale’ del teatro di Mangiafoco, è costretto a fare il cane da guardia, subisce la metamorfosi asinina destinata a chi soggiorna nel Paese dei Balocchi, si sveste della propria pelle animalesca per ritornare burattino grazie all’aiuto della Fata, viene scambiato per un granchio e per un pesce-burattino dal pescatore verde, e infine, dopo un’ulteriore degradazione bestiale al servizio di un ortolano, abbandona le proprie spoglie legnose per rinascere bambino. Nel corso delle Avventure il suo corpo si definisce come forma plurale, aperta al desiderio ma anche esposta all’asservimento. Diventare appare così un termine chiave nel romanzo, che ricorre a più riprese in relazione sia alle membra di Pinocchio (il naso, che «diventò in pochi minuti un nasone che non finiva mai», i piedi, che dopo aver preso fuoco «diventarono cenere», le orecchie che, crescendo, «diventavano pelose verso la cima», le braccia e il volto che, durante la trasformazione in asino, «diventarono zampe [...] e muso»), sia al suo status («Perché io oggi sono diventato un gran signore»; «il povero Pinocchio [...] sentì che era destinato a diventare un tamburo»), sia agli oggetti che potrebbero giovargli e che invece gli sfuggono di mano (gli zecchini, che si immagina «potrebbero diventare mille e duemila», o il battente sulla porta della casa della Fata, che «diventò a un tratto un’anguilla»). E via via che le Avventure si approssimano alla loro conclusione, la frequenza del termine aumenta, così nel testo come negli argomenti premessi ai singoli capitoli, a segnalare la duplice e compendiosa polarità della metamorfosi asinina e del raggiungimento della condizione umana, e a scandire la progressione inesorabile verso la comparsa finale, più volte prefigurata, del Pinocchio-bambino e la definitiva stasi del suo alter ego ligneo.

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 Il cuore di Pinocchio, pubblicato da Bemporad per la prima volta nel 1917 e poi riedito, in forma ampliata, nel 1923, è parte della ricca produzione di letteratura per l’infanzia a tema bellico che si diffuse negli anni del primo conflitto mondiale. Scritto dal nipote di Collodi – così figura l’autore Paolo Lorenzini sulla copertina del libro – e illustrato da Carlo Chiostri, già autore dei disegni dell’edizione del 1901 del Pinocchio maggiore, questa nuova riscrittura a tema delle avventure del burattino di legno si presenta anzitutto come un testo vicino alla produzione propagandistica vera e propria. Invece di puntare su una generica celebrazione della nazione in guerra, Lorenzini sceglie di affrontare un tema di grande presa sull’opinione pubblica, ovvero quello della mutilazione. Quella raccontata, infatti, è la storia di come Pinocchio, ormai bambino in carne e ossa, si trasformi in un congegno fatto di parti meccaniche assemblate a causa delle numerose ferite riportate combattendo al fronte.

Le innovazioni tecnologiche apportate agli armamenti, così come le modalità di combattimento tipiche della guerra di posizione, avevano determinato la comparsa di nuove forme di ferimento e mutilazione, che spesso producevano effetti devastanti – e inediti – sul corpo dei soldati. Il personaggio inventato da Collodi, col suo corpo metamorfico, al confine tra l’umano e il non umano, si prestava bene a illustrare in maniera didascalica uno dei contenuti centrali della pedagogia della nazione in guerra: il corpo del soldato è una materia malleabile sulla quale, in nome della patria, si incidono i segni della violenza subita al fronte e si possono, di conseguenza, compiere manipolazioni. L’idea che il corpo sia duttile, trasformabile e adatto a essere integrato da protesi artificiali è la premessa alla base di questa reincarnazione di Pinocchio.

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 Zaches Teatro, compagnia toscana attiva dal 2007 che prende il nome da un racconto di E.T.A. Hoffmann del 1819 (Klein Zaches, genannt Zinnober), ha codificato la sua cifra stilistica lavorando con le maschere, le marionette e altri generi di figure che sin dall’inizio hanno trovato spazio e impiego nelle sue produzioni (One reel, 2006; Faustus Faustus, 2009), ed è a oggi una delle compagnie (ricordiamo anche Riserva Canini e Teatrino Giullare) che più ha sperimentato, in Italia, il teatro di figura, o meglio ‘delle figure’, in tutti i suoi aspetti.

Il teatro russo e i suoi maestri sono stati modello e fonte d’ispirazione per i membri della compagnia. Prima quello fisico dei russi Derevo (compagnia fondata nel 1992 e tuttora diretta da Anton Adasinskij), caratterizzato da un mix di teatro e danza, di pantomima e butho, di performance e arte povera, di clownerie e folclore, che oscilla sempre tra grottesco e visionario; poi quello di Nicolaj Karpov, grande maestro della biomeccanica teatrale. Su questa scia, il lavoro di Zaches, come si legge nella presentazione del gruppo, è «spinto a indagare il connubio tra differenti linguaggi artistici: la danza contemporanea, l’uso della maschera, la sperimentazione vocale, il rapporto tra movimenti plastici e musica/suono elettronico dal vivo». La compagnia risulta pertanto compatta e trasversale allo stesso tempo: ne fanno parte Luana Gramegna (coreografa e regista), Francesco Givone (scenografo, costruttore di maschere e light designer), Stefano Ciardi (compositore, musicista e sound designer) e Enrica Zampetti (dramaturg e interprete).

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Per la realizzazione di Pinocchio. Lo Spettacolo della Ragione, Armando Punzo pensa alla genesi del romanzo Le avventure di Pinocchio, ricordando che, nelle intenzioni di Carlo Collodi, Pinocchio non doveva crescere e trasformarsi in umano. La sua fine coincideva con la morte per impiccagione al ramo della Quercia grande, per mano del Gatto e della Volpe: furono le pressioni dell’editore del «Giornale per i Bambini», sulle pagine del quale il romanzo era uscito a puntate nel 1881, assieme all’insistenza del pubblico infantile, a spingere l’autore a resuscitarlo attraverso l’intervento della fata bambina, vera genitrice della sua metamorfosi. L’essere di carne e di legno di Pinocchio e, quindi, la diversità che lo anima prima dell’acquisizione di un destino condizionato da una morale perbenista, spinge invece Punzo a ipotizzare che, una volta affacciatosi alla realtà, Pinocchio la respinga e inverta il processo, per ‘ritornare burattino’. Il regista disconosce, quindi, il telos della trasformazione umana e riscrive Pinocchio per dire, piuttosto, le ‘proprie ragioni’. Nello specifico, per raccontarsi e rivendicare la dimensione artistica del proprio lavoro: meglio essere diversi e circondarsi degli amici che la storia ha relegato al ruolo di cattivi, che accettare la bontà di una vita normale, che non sembra tale, o l’impiego di un teatro ridotto alla sua funzione sociale.

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 «Ciò che deve avvenire è già. Ogni albero si riconosce dal frutto»: con queste parole pronunciate da Mastro Ciliegia con fattezze da Fata turchina si apre il Pinocchio di Antonio Latella, enucleando subito il tema portante dell’intero spettacolo: il rapporto padre/figlio, più archetipicamente individuato come la questione della discendenza (e dello scontro generazionale). Perché il mito edipico – ben lontano da costituire solamente la complicazione di un percorso di crescita individuale all’interno del nucleo famigliare (questo almeno nella chiave psicoanalitica che ha gettato luce retrospettiva sulle opere del passato) – rappresentava invece un punto dolente nella costituzione della società civile del mondo antico e non solo, incarnando mimeticamente sulla scena le incognite della successione e dell’eredità. È chiaro dunque, sin dall’esordio, che la gigantesca falegnameria avvolta nell’oscurità in cui si svolge la prima parte dell’azione scenica [fig. 1] inscrive la vicenda del famoso burattino in un orizzonte tragico, ben lontano dai colori da cartone animato della celebre produzione Disney.

Latella non tradisce comunque lo spirito della scrittura originaria, se il romanzo di Carlo Lorenzini (in arte Collodi) era nato per essere pubblicato a puntate su un giornale per ragazzi, concludendosi, nelle intenzioni dell’autore, con la morte del burattino stesso, che penzolava impiccato dalla Quercia, per mano del Gatto e della Volpe. Un macabro finale che Collodi fu costretto a cambiare sotto l’insistenza dei piccoli lettori desiderosi di una sorte migliore per il loro beniamino. Così, lo scrittore toscano diede seguito a quella che, con probabilità, inizialmente non era una fiaba per l’infanzia e inserì nuove peripezie nella vita dell’irrequieto protagonista, coronandole con un lieto-fine centrato sulla sua metamorfosi da bambino di legno a bambino in carne ed ossa.

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 «C’era una volta […] un pezzo di legno…»: il romanzo di Collodi inizia come una fiaba, perché della fiaba assume la capacità delle infinite reincarnazioni proprie del Mito; una forza rigenerativa che si impone anche nelle letture critiche delle diverse reincarnazioni.

Molti anni fa, nel confrontarmi con la teatralità della quale sono intessute le pagine di Pinocchio sulla scorta di differenti traduzioni sceniche dell’opera, mi appoggiavo all’insuperato testo di Manganelli, e in particolare alla definizione del romanzo come «un libro cubico» (Manganelli, 1982, p. 8): un libro non si realizza nella bidimensionalità della pagina, ma è passibile di letture che seguono altri itinerari, i quali in modo diverso collegano parola a parola, segni d’interpunzione, spazi bianchi. Tale tridimensionalità è la generatrice di tutti i libri paralleli al primo, che da questo possono scaturire.

In questa folgorante sintesi di Pinocchio, un libro parallelo leggevo il nocciolo della questione: un libro che dalla apparente bidimensionalità della pagina squadernava lo spazio cubico della scena. E in particolare di una scatola più piccola del normale, come avviene per il teatrino delle marionette o dei burattini. Questa forma cubica si può percorrere seguendo direzioni e tracciati ogni volta nuovi e imprevedibili, necessaria configurazione di ogni lettura del testo che miri alla messinscena. Pinocchio, redatto informa narrativa, contiene una quantità di motivi teatrali che si traducono in indizi scenici. Un libro che per predisposizione naturale si affida alla voce e al gesto, alle visioni e al movimento, un testo costituito da battute e parti narrate che fungono da didascalie. Lo stile di Collodi offre temi che si ripetono ‘musicalmente’, adatti alle variazioni; la lingua suggerisce il dinamismo dell’azione. Ma gli anni che ci separano da quel momento (1982, lo studio di Manganelli; 1997 le mie riflessioni di allora) impongono di mutare sguardo: letta oggi, la definizione di Manganelli può essere interpretata diversamente, o ulteriormente. Non solo o non tanto la facile analogia con la scatola scenica, ma la potenzialità di quelle pagine di dispiegarsi in nuove accezioni dell’universo teatrale. La scena contemporanea ci invita a staccarci dalla necessità di definire il teatro (solamente) come produzione dello spettacolo e a includervi tracciati diversi.

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 Nel 2002, nell’ambito del progetto Children in Need finanziato dall’associazione non governamentale Amref, Marco Baliani parte per Nairobi, dove comincia a dirigere un laboratorio teatrale con un gruppo di ragazzi provenienti dalle bidonville del quartiere Dagoretti, uno dei più svantaggiati della città.

Si spiega così la scelta di Pinocchio come filo conduttore degli esercizi teatrali proposti da Baliani, durante i quali i ragazzi non soltanto apprendono i rudimenti del mestiere di attore, ma provano anche a mettere in comune le proprie dolorose storie di vita, usando la marionetta collodiana come doppio fittizio e maschera protettiva. Le dis/avventure di Pinocchio, infatti, somigliano straordinariamente alle loro. Pinocchio è un legno di scarto da cui mastro Ciliega vorrebbe ricavare una gamba di tavolino e che Geppetto trasforma, invece, in un burattino, pensando di trarne qualche guadagno. Pinocchio è un marginale, povero, affamato, analfabeta, senza origine. Irriverente e svogliato, ma anche privo di qualsiasi arma di difesa contro gli adulti che vorrebbero approfittare di lui, dopo essere stato ripetutamente ferito, umiliato, ingannato, derubato, sbattuto in prigione senza motivo, trasformato in asino, in cane da guardia, venduto a diversi padroni, dato in pasto ai pesci, quasi fritto in padella e persino impiccato a un albero dai suoi truffatori, si decide, infine, a lavorare duramente di giorno e a studiare autonomamente di notte per modificare la propria condizione sociale e quella del suo vecchio padre. Mentre la libertà iniziale del burattino in costante ribellione contro qualsiasi forma di autorità si rivela apparente, sfociando in diverse forme di schiavitù, la sottomissione finale alle norme sociali diventa paradossalmente la condizione per diventare un ‘vero ragazzo’, un soggetto libero e autonomo. È questa dialettica tra controllo e autonomia, tra norme e trasgressione, tra emancipazione e asservimento, già presente nel romanzo di Collodi, che lo spettacolo Pinocchio nero – messo in scena nel 2004 al termine di un percorso formativo di due anni – rende ulteriormente esplicita, usando la storia di Pinocchio come allegoria dei processi di assoggettamento/soggettivazione dei subalterni e trasformando il palcoscenico in una vera e propria soglia tra la vita e la finzione. Dopo essere stato presentato in diversi teatri di Nairobi e, in particolare, nel quartiere Dagoretti, il capolavoro di Collodi, rivisitato da Baliani e dai suoi ragazzi, torna al paese di origine in una forma che ricorda il talking back postcoloniale, affinché il pubblico italiano possa reinterpretare questo classico e vedervi inscritto non soltanto un percorso di normalizzazione dei ribelli e marginali come Pinocchio, ma anche un messaggio di emancipazione sociale e culturale per i subalterni.

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