Imbarcarsi per il naufragio. Noosfera Lucignolo di Roberto Latini

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Noosfera Lucignolo (2007) è la prima delle quattro parti che compongono il progetto Programma Noosfera di Roberto Latini: quattro performance che tentano di esplorare, attraverso i mezzi del linguaggio teatrale contemporaneo di Latini, quella sfera immaginaria che comprende l’intera coscienza collettiva e il frutto del pensiero umano, che Pierre Teilhard de Chardin definì appunto noosfera. Latini afferma che Noosfera Lucignolo diviene «riflessione sulla rappresentabilità dei testi e sui processi per la rappresentazione», quindi il presente saggio tenta di gettare uno sguardo sul modo in cui questa prima fase del Programma Noosfera trasforma il personaggio di Lucignolo in una sorta di campo di forze nel quale l’io, il linguaggio, la coscienza, la cultura e il teatro stesso attendono che arrivi la notte per tentare l’affondamento definitivo nell’oceano dell’indicibile e dell’irrappresentabile.

Noosfera Lucignolo (2007) is the first of the four parts that form Roberto Latini’s project Programma Noosfera: four performances that try to explore, by the means of Latini’s contemporary theatrical language, that imaginary sphere which comprehends the whole collective consciousness and the figment of the human thought, that Pierre Teilhard de Chardin called noosfera indeed. Latini says that Noosfera Lucignolo becomes a «reflection about the representability of texts and processes of representation», so this essay try to observe the way this first step of Programma Noosfera transforms the character Lucignolo in a sort of force field in which the self, language, consciousness, culture and theater itself wait for the night to come to definitively sink in the ocean of unspeakable and irrepresentable.

 

 

Pinocchio voleva partire «domani all’alba»: che era partenza impetuosa, liberatrice, per fare «la vita del vagabondo»; Lucignolo si sottrae alla «città» in una mezzanotte sommessa e furtiva, e va ad «abitare» in quel mirabile «lontano». C’era protervia in Pinocchio, c’è un’ombra di disperazione in Lucignolo.

Giorgio Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo

 

 

Romeo è un nome che, nell’etimo, riporta alla figura del pellegrino, dunque a colui che lascia tutto, si sottrae alla città, al quotidiano, alla civiltà, per partire verso un luogo idealizzato come sacro, verso un altrove capace di imprimere una sterzata a un presente vissuto come limite, come condizione da superare. Romeo nell’etimo significa pellegrino e, sempre nell’etimo, pellegrino è colui che sceglie di farsi straniero, il forestiero che va ‘per gli altrui paesi’ in vista di un più o meno cosciente e consapevole miglioramento della propria vita, legato più alla sfera spirituale o esistenziale che a quella pratica e materiale. E Romeo è il vero nome, nel Pinocchio di Collodi, del ragazzino conosciuto da tutti come Lucignolo, soprannome affibbiatogli a causa del suo aspetto «asciutto, secco e allampanato, tale e quale come un lucignolo nuovo di un lumino da notte».[1]

Lucignolo, Romeo, è anche colui che Roberto Latini (una delle figure cardine del teatro italiano contemporaneo) sceglie nel 2010 per inaugurare un progetto in quattro fasi che mira a indagare, attraverso il linguaggio teatrale, quattro possibili frammenti chiave della cosiddetta ʻnoosferaʼ. Tale termine è utilizzato dal pensatore mistico Pierre Teilhard de Chardin per designare una sorta di ‘coscienza collettiva’ o ‘coscienza universale’ degli esseri umani, generatasi grazie all’avvento del pensiero e della capacità umana della riflessione, a seguito dello sviluppo del mondo inorganico (geosfera) e di quello organico (biosfera).[2] Quasi fosse un luogo, una rete che collega e comprende tutti i fenomeni del pensiero e dell’intelligenza, dando vita a una sorta di sfera capace di contenere simultaneamente lo scibile umano e il modo in cui questo si è sedimentato nelle coscienze, nell’immaginario, nel subconscio collettivo, modificandolo e ricostituendolo in un costante lavorio.

La tetralogia sviluppata da Latini negli ultimi sette anni sembra aver voluto tentare, con gli strumenti e i mezzi del linguaggio teatrale (di quel tipo di linguaggio teatrale che da vent’anni segna la ricerca della sua compagnia Fortebraccio Teatro), di sollecitare la noosfera in determinati punti o, allontanandoci da un eccesso di programmaticità per accostarci piuttosto a un divenire scenico quasi inconscio e irrazionale più affine all’approccio artistico di Latini, addirittura di ‘perforarla’ in un punto qualunque. Ferirla, fenderla, per poter gettare uno sguardo al suo interno e insieme condurla al suo percorso inverso, ossia a una creazione che non confluisca in essa ma che da essa tragga la propria origine: non ‘dalla materia allo spirito’, allora, ma ‘dallo spirito alla materia’. Per vedere cosa da essa possa venir fuori, quale caotico magma abbia da vomitare, e per provare a fare teatro di questo magma senza conferirvi un ordine, senza sottrarlo al proprio caos che ne costituisce l’inevitabile e potente natura, che solo in questo modo è capace di dirci davvero qualcosa sul contemporaneo, preservandone l’abissale complessità.

E a venir fuori dalla fenditura, dallo squarcio, in seguito al primo sguardo rivolto dentro la noosfera, è un magma caotico che riguarda una delle opere letterarie che hanno fondato e strutturato l’immaginario e la storia non solo del nostro Paese, ma dell’intero Occidente, ossia Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi. Non il Pinocchio, dunque, ma qualcosa che lo riguarda, forse il modo in cui si è radicato per più di un secolo nella nostra coscienza collettiva, in cui ha interagito con essa, modificandola e venendone modificato, ovvero ciò che di quell’opera è più vicino e legato al contemporaneo. Ed è così che, come avviene in altri suoi lavori nei quali Latini trova più efficace concentrare la propria attenzione sui personaggi collaterali e sulle situazioni parallele (da qui la scelta di vedere come fulcro centrale Fortebraccio in luogo di Amleto o Iago in luogo di Otello), a dominare la scena del cortocircuito generato dall’incontro tra la noosfera e Pinocchio sarà, come dicevamo, Romeo, Lucignolo.

Se Otello è l’azione, in un dramma che per Latini è innanzitutto «tragedia della parola», nella quale accade pochissimo e sono le parole a creare una percezione di incredibile movimento, Iago è colui che non ha pressoché alcuna azione, ma che sceglie le parole e la loro qualità. Ed è, ancor di più, il ‘maestro dei silenzi’, che li costruisce attraverso parole piene di silenzio. In modo affine, Fortebraccio è il personaggio estraneo all’azione scenica di Amleto, che arriva quando ogni cosa è già avvenuta, terminata. Un non-personaggio, estraneo e straniero, che giunge quando tutto è finito.

Lucignolo, invece, è l’attesa. Un essere la cui azione paradossale è l’attesa stessa dell’azione, della partenza: un personaggio che attende di farsi non-personaggio, di tirarsi fuori, di diventare straniero ed estraneo, pellegrino appunto, in un ‘altrove’ capace di dissolvere ciò che è stato finora. Se Pinocchio è il burattino che desidera e attende di divenire ragazzo, di prendere parte alla vita, di entrare nella società e nella Storia, Lucignolo in un certo senso è il suo opposto: «quasi un ragazzo con vocazione di burattino»,[3] come scrive Giorgio Manganelli. È colui che segue la direttrice contraria a quella dell’amico: dall’essere al non esserci più, in una mezzanotte che, se per l’uno, come annuncia la Fata, significherà finalmente divenire un «ragazzo per bene»,[4] per l’altro segnerà la fuga definitiva in uno straordinario ‘lontano’, al di là della città dei ragazzi e degli uomini per bene alla quale finora è appartenuto.

 Noosfera Lucignolo (Ph. yuricrea®)

Sappiamo da Collodi che Pinocchio, ansioso di invitare Lucignolo alla gran colazione del giorno dopo per festeggiare la sua trasformazione in bambino umano, lo cerca inutilmente a casa per tre volte, per poi incontrarlo sotto il portico di una casa di contadini. E come fossero tanti Pinocchio venuti a cercare e a incontrare Lucignolo, gli spettatori di questa prima tappa del Programma Noosfera prendono posto in sala, trovando il protagonista di ciò che sta per accadere già in scena, seduto su una sedia al centro di un quadrato bianco, o meglio accasciato, poggiato lì come un sacco vuoto, come una marionetta cui nessuno ha ancora mosso i fili o a cui hanno smesso di muoverli per sempre. Un corpo che forse ha deciso di abbandonare la vita e attende solo di appendersi al cappio che pende sopra la sua testa. O forse il corpo di un uomo che si è già impiccato e che è stato poggiato su quella sedia, nell’attesa che venga portato via. Comunque, benché palesemente inanimato, un corpo in attesa.

E, come se tutta l’azione d’ingresso del pubblico (o addirittura tutta la vita degli spettatori fino a quel momento) fosse solo una delle rapide sequenze che scorreranno lungo lo spettacolo, un veloce buio arriva come prima cesura, come primo di una lunga serie di margini che delimiteranno ogni quadro. Buio, quadro, buio: tutta la parte iniziale dell’opera procede in questo modo, sempre uguale e sempre differente.

Scriveva Latini nel 2012:

il silenzio è la misura di quanto siamo, di chi siamo e chi possiamo insieme.
il silenzio è la voce che si compie, ci completa.
dove la musica si ferma ad aspettarci.
dove ogni suono inventa.
dal palcoscenico la questione è ogni silenzio.
il silenzio di ogni attore o spettatore, il silenzio delle cose, un gesto, un’intenzione, il silenzio dello spazio, il silenzio collettivo, il tempo del silenzio.[5]

E allora quel buio che è il silenzio della scena, dell’immagine, è la scena che si compie e che ci completa, dove il visto e il visibile si fermano ad aspettarci, dove ogni immagine inventa. In Noosfera Lucignolo ci accorgiamo presto che (parafrasando ancora Latini) ʻla questione è ogni buioʼ. Ogni buio che si ripete breve e rapido, nell’inscindibilità e indifferenza tra chiusura e apertura, tra conclusione di un quadro e avvio di quello successivo.

 Noosfera Lucignolo (Ph. yuricrea®)

Un quadro dopo l’altro attraverso i quali gli spettatori precipitano gradualmente nell’interno di Lucignolo, quasi sotto ipnosi, senza mediazione. Perché il Lucignolo che sono andati a cercare e che hanno trovato non è semplicemente quel ragazzino descritto da Collodi, quel personaggio meramente in attesa, ma è già il disfacimento di quel ragazzino diretto a una trasformazione definitiva, è già lo sfaldamento di quel personaggio che vive un’attesa lanciata verso la notte tanto agognata. È un Lucignolo che abita la noosfera e che ne è abitato, scisso dall’infinita compresenza che la caratterizza.

Come scrive Latini, Noosfera Lucignolo si «s-compone intorno alla riflessione sulla rappresentabilità dei testi e sui processi per la rappresentazione»[6] ed è una riflessione che Lucignolo, s-componendosi appunto, di quadro in quadro, di scena in scena, incarna alla perfezione. La sua attesa e il suo desiderio, infatti, pertengono all’interrogazione estrema sulla rappresentabilità (dei testi come dell’Io e della coscienza), in direzione di una notte che possa fagocitarli e infrangerli al punto tale da mostrare il loro altrove ideale, il loro al di là, l’effettiva irrappresentabilità dietro il loro essere rappresentazione.

Manganelli fa notare come Pinocchio vada «in giro per la città»[7] a convocare i compagni per la colazione del giorno dopo, senza però riuscire a trovare Lucignolo, che incontrerà, come dicevamo, non in città, bensì «sotto il portico di una casa di contadini»,[8] dunque, sottolinea Manganelli, «alla periferia, oltre i sobborghi estremi della “città”».[9] Questo perché Lucignolo in qualche modo è portatore, nel suo essere e nella sua aspirazione, di un analfabetismo che rifiuta la civilizzazione, l’ordine, l’avvento della società e della cultura letteraria, della scolarizzazione. Vicino, potremmo dire, a quell’analfabetismo rimpianto da José Bergamin, che nel 1933 scriverà appunto Decadenza dell’analfabetismo, descrivendo un soggetto bambino — e uno stato bambinesco della società — che gode della pienezza poetica, spirituale e giocosa del proprio analfabetismo, situazione che verrà pervertita irrimediabilmente dall’avvento dell’adulto sul fanciullo, delle lettere sulle parole, del giorno sulla notte. Lucignolo allora è proprio colui che, al contrario di Pinocchio, non spera di diventare adulto. È ancora Manganelli a utilizzare per lui il termine «disperazione», in contrapposizione alla «protervia» di Pinocchio:[10] quest’ultimo desidera con tutto se stesso diventare un essere umano, pur con gli infiniti intoppi che questo processo porterà con sé, mentre Lucignolo è disperato nel senso che non ha tale speranza e aspirazione, preferendo inseguire un indefinito «lontano, lontano, lontano»,[11] ripetizione che Collodi pare contrapporre a quel «voglio andare avanti»[12] reiterato da Pinocchio alcuni capitoli prima per quattro volte. La disperazione di Lucignolo è, insomma, questa volontà di negare la volontà stessa, abbandonandosi a uno sprofondamento nel buio notturno dell’analfabetismo prima che sia troppo tardi.

 Noosfera Lucignolo (Ph. yuricrea®)

Nella prima parte di Noosfera Lucignolo, allora, ogni buio può essere quello definitivo, quello della notte sperata che finalmente è sopraggiunta. Ma ciascun buio continua a presentarsi rapido e temporaneo, a dileguarsi sospinto da una luce che prosegue imperterrita a illuminare quel ragazzino sulla sedia. Un ragazzino che, nell’aspetto come nella parola, mostra quella compresenza caotica della noosfera dalla quale proviene, e una dispersione dell’unicità del sé e dell’Io nell’infinita molteplicità di un soggetto bambino, analfabeta in senso bergaminiano. Il suo abito è quello elegante di un uomo contemporaneo, però cosparso e incrostato di polvere e sporcizia, segno quasi di un decadimento o di un’attesa che si perde nella notte dei tempi o, ancora, di un lungo periodo trascorso sommerso nella sfera della coscienza collettiva. Per il resto, dagli occhi velati di bianco come quelli ciechi del Gatto, alla parrucca color polenta di Geppetto, sembra quasi un collage degli altri personaggi del libro da cui proviene. Collage che si manifesta continuamente anche nella parola: così come in Commedia di Samuel Beckett, ogni volta che un buio desiderato come definitivo viene nuovamente messo in fuga dalla luce che reclama il proprio regno, quello della scena e della rappresentazione, questo Lucignolo paradossale e abbandonato al proprio disfacimento è costretto all’azione di una danza o a prendere la parola, ma ciò che dice in realtà sembra pronunciato da altri, attraverso il suo corpo e la sua bocca.

 Noosfera Lucignolo (Ph. yuricrea®)

Non flusso di coscienza, dunque, ma potremmo dire ‘flussi di incoscienze’: Lucignolo non è più un Io, un personaggio, un sé con una propria coscienza, ma piuttosto un soggetto impotente sottomesso alle voci che lo attraversano e lo dominano, che parlano attraverso di lui. Echi di battute di altri personaggi,  flatus vocis d’altri impigliati al suo corpo in attesa di disfarsi del tutto. Scorrono così, ripetitivi e ossessivi, riverberi di frasi altrui, estrapolate dal testo di Collodi o riscritte per l’occasione da Latini stesso: riconosciamo parole attribuibili a Pinocchio, come quelle intente a promettere continuamente, o alla Fata o al Grillo Parlante, come nell’unico momento in cui questo Lucignolo non-personaggio sembra accorgersi degli spettatori e, col dito puntato, rivolgersi a loro uno per uno, così come il Grillo si rivolgeva a Pinocchio, con le parole «Verrà un giorno che piangerai anche tu, come oggi piango io… ma allora sarà tardi!».[13]

 Noosfera Lucignolo (Ph. yuricrea®)

La voce di Latini, qui senza l’intervento dei microfoni e dell’amplificazione su cui tanto ha sperimentato in circa vent’anni di carriera, piega ogni sua sfumatura per accogliere queste intrusioni di voci altrui, si rende morbida e sinuosa assecondando questo gioco di interferenze, quasi che Lucignolo non desiderasse altro o non fosse destinato a nient’altro che a questo. I soli momenti in cui la voce sembra irrigidirsi, incepparsi, avanzare a scatti e con spaventosi toni gravi, rochi e cavernosi, sono quelli nei quali il protagonista tenta di leggere le battute dello stesso Lucignolo (ad esempio la famosa descrizione del Paese dei Balocchi che fa a Pinocchio), tratte da un grande e invisibile libro che tiene tra le mani. Tornando ancora a Bergamin, in questo rapporto tra i due momenti e i due differenti tipi di ritmo e tono della voce, sembra di rivedere la contrapposizione che in Decadenza dell’analfabetismo è istituita tra parole e lettere: mentre le prime appartengono all’analfabetismo e all’orale e sono vive, libere, legate allo spirituale e al gioco e vicine al suono della poesia e della musica, le lettere, ossia le parole nate con l’alfabetizzazione e con la scrittura, sono morte, dannose, monopoliste. Scrive Bergamin:

Le parole sono cose di gioco. Le lettere non lo sono. […] La lettera è un’arma a doppio taglio: perciò penetra con sangue. Un abbecedario in mano a un bambino è più pericoloso per la sua vita del puntaspilli o della scatola di fiammiferi o del pacchetto di lamette da barba… E molto più, se è di quelli che insidiosamente pongono un’immagine a piè di ogni lettera per ingannarlo: gallo, farfalla, gabbiano, elefante… Così poi il bambino prenderà incautamente tutte le cose come le ha viste lì o come ha imparato a vederle: a piè della lettera. Così potrà avere di tutto una conoscenza letterale, menzognera e pedestre. Questo è il primo colpo che la lettera dà allo spirito: il più certo. La lettera attraversa con il suo penetrante stiletto il cuore analfabeta del bambino, che, una volta ferito, potrà non cicatrizzare e non palpitare mai più spiritualmente.[14]

Colpisce in questo passo il riferimento all’abbecedario e ai ‘rischi’ che esso rappresenta, soprattutto se pensiamo a quanto sia importante nella vicenda di Pinocchio. Le lettere, le parole morte e pericolose dell’abbecedario e della scrittura, sono le parole della rappresentazione, nella sua pretesa univocità che esautora l’irrappresentabilità del perenne gioco in divenire delle voci e delle parole. Ecco il perché di un tale effetto infausto sull’abbandono di Lucignolo alle voci che lo attraversano, nei momenti in cui interviene la vincolante rappresentazione del suo personaggio e dei limiti invalicabili dati dalle sue battute impresse su un libro.

La «riflessione sulla rappresentabilità dei testi e sui processi per la rappresentazione» non ammette la finta e congelata chiarezza delle lettere e dell’alfabetizzazione, che ci fa prendere ogni cosa per come abbiamo imparato a vederla e che ci inganna ponendo «un’immagine a piè d’ogni lettera». Invece necessita delle infinite possibilità delle parole nella notte analfabeta. Ancora con Bergamin, che qui ricorre a Niccolò Cusano:

Il potere delle tenebre della nostra ignoranza, il potere spirituale dell’analfabetismo, sta nel far risplendere in noi la precisione dell’ignoranza in un modo incomprensibile. Non esiste vera poesia che non abbia bisogno di questa lucidità spirituale che può trovarsi soltanto nelle tenebre della nostra ignoranza, affondando nella profondità della nostra ombra, come direbbe Giordano Bruno.[15]

Ecco l’attesa e lo sprofondamento di Lucignolo. Il suo affondare, il suo desiderio che giunga la notte. E questa notte arriva: l’ennesimo buio a chiusura di un quadro si presenta come quello estremo della mezzanotte tanto attesa. È il momento della mutazione del protagonista e dello spettacolo stesso, dello sprofondamento definitivo e irreversibile. A sostituire la luce dei fari che finora ha imposto il proprio dominio sul buio è quella fredda di neon posti sul pavimento, che genera un ambiente a metà tra obitorio e sala operatoria, forse sala parto, difatti sarà proprio l’indecidibilità tra morte e nascita l’elemento dominante in questa fase di mutazione.

La scena adesso è vuota, Lucignolo è sparito lasciando la sedia rovesciata a terra, mentre il cappio che pendeva sulla sua testa come una spada di Damocle ora si è spezzato ed è precipitato giù. Dopo qualche istante Lucignolo torna in scena piegato in due e, avanzando con le mani che toccano il pavimento a precedere i suoi passi, dà inizio a una lunga e dolorosissima sequenza muta: nella medesima postura il protagonista gira intorno ai relitti della sedia e del cappio sempre più rapidamente e freneticamente, ma anche con crescente difficoltà. Continua a scivolare e a schiantarsi al suolo, immerso nell’acqua che riempie il quadrato bianco che delimita la scena e la cui presenza finora, grazie all’immobilità dei suoi piedi mentre era seduto, non era stata rivelata.

 Noosfera Lucignolo (Ph. yuricrea®)

In questa scena d’angoscia crescente e terribile sembrano fondersi la violenza della morte e quella della nascita. Morte individuale di Lucignolo (che diventato asino e acquistato da un contadino morirà proprio per la fatica di tirare su l’acqua dal pozzo), e insieme morte collettiva di un popolo intero, di un’umanità desiderosa di salpare verso la terra del cambiamento e della rinascita e che invece sprofonda nell’acqua, colando a picco come su un barcone tratto dalle ultime cronache o come sul Titanic che, d’altronde, caratterizzerà la seconda tappa del Programma Noosfera. Nascita, inoltre, che ha sempre nell’acqua e nel liquido amniotico la propria ʻviolenza creatriceʼ. Morte e nascita, infine, indissolubilmente unite nell’idea della trasformazione, del tanto agognato annegamento della rappresentazione del testo, dell’Io, della coscienza e del sé, nel molteplice in divenire del gioco analfabeta e irrappresentabile. Nell’idea, insomma, del divenire asino guadagnandosi l’accesso definitivo alla notte della perfetta e oscura ignoranza. Come il santo di Copertino, Giuseppe Desa, definito proprio Frate Asino, che nel Salento seicentesco, abbandonato all’incoscienza della sua piena e ʻsantaʼ ignoranza, levitava in lunghi momenti di estasi mistica: «divina stupidità contrapposta a quella opaca di troppi umani»,[16] come scrive Goffredo Fofi.

 Noosfera Lucignolo (Ph. yuricrea®)

E questa drammatica mutazione squassa il corpo, lo schianta nell’acqua, ne scompone le fattezze e gli accessori: gli arti e il respiro paiono non rispondere più, la parrucca color della polenta cade via inzuppandosi, i vestiti vengono strappati con la fatica di una pelle da decomporre, di una placenta da lacerare per nascere o di una muta da abbandonare per trasformarsi.

 Noosfera Lucignolo (Ph. yuricrea®)

Attesa della partenza, naufragio, apparente approdo, definitivo abbandono al poetico puro, alla parola prima delle lettere: può essere schematizzata in questo modo la struttura del Programma Noosfera. Noosfera Lucignolo è l’attesa e l’aspettativa, Noosfera Titanic il naufragio inatteso ma insieme sperato, Noosfera Museum il precario approdo nella solitudine senza più aspettative che apre all’avvento dell’ultima tappa, quel Cantico dei Cantici finalmente abbandonato alla bellezza e al mistero di parole perse nella notte e che tali chiedono di rimanere, con quel mantra ripetuto e centrale del «vi prego, non svegliate il mio amore che dorme».[17] Una macrostruttura che si riverbera, però, in ogni microstruttura delle singole tappe: se pensiamo a Noosfera Lucignolo possiamo identificare nell’attesa la prima parte giocata tra quadri e bui, e nel naufragio la lunga sequenza del corpo in disfacimento dentro l’acqua.

L’approdo precario arriverà subito dopo: Lucignolo, o almeno ciò che ne resta, ciò in cui è confluito sfaldandosi, tenta di ricostituire le proprie fattezze deragliate e la propria postura perduta. A fatica indossa quegli abiti che, ormai inzuppati, si incollano alla pelle, fanno resistenza, sembrano quasi non essere più indossabili, non riconoscere più il corpo che li riempie e che (quasi a sottolineare il definitivo pervertimento di ogni rappresentazione e di ogni immagine personale di rappresentanza sotto lo sguardo dell’occhio sociale, svelandone il lato nascosto) li ha inavvertitamente indossati al rovescio. Infine, rimessa in piedi la sedia che aveva ribaltato, torna a sedervisi come se nulla fosse accaduto. Ma tutto è successo e ben presto sarà evidente, in quella che è identificabile con l’ultima fase della microstruttura e della macrostruttura che abbiamo descritto: l’abbandono all’annientamento della rappresentazione definitivamente inabissata.

 Noosfera Lucignolo (Ph. yuricrea®)

Una figura-parodia di quella che nella prima parte ci eravamo abituati a vedere tenta di ristabilire la condizione iniziale e apre la bocca per ricominciare a parlare, ma invano: gli echi, gli stralci, i frammenti, le parole in libero gioco sembrano aver abbandonato quel corpo mutato, trasformato. Il dicibile sembra essersi perduto per sempre in quel naufragio notturno. Prova allora l’estremo rapporto con la rappresentazione, almeno con la sua parola fattasi lettera morta che, quindi, dovrebbe essere rimasta lì, integra e illesa: solleva le mani a far risorgere quel libro immaginario dal quale leggeva a fatica e con voce cupa le battute di Lucignolo, e tenta di articolarle. Ma a questo punto l’unico suono che si genera, quasi fosse il rumore stridente del tremendo attrito dell’infinita distanza tra la rappresentabilità e questo nuovo essere che ha inseguito con tutto se stesso il proprio colare a picco nell’irrappresentabile, è solo un lancinante e angosciante ragliare d’asino, sempre più forte, sempre più assordante e amplificato, presto accompagnato da un coro di ragli che sembrano raccogliere tutte le parole incomprensibili, indicibili, non più leggibili né scrivibili.

Gli occhi sgranati e la bocca spalancata di questo essere inzuppato (che sembra ormai sedere nel fondo dell’Oceano in cui è precipitato il Titanic, con tutte le speranze di un intero popolo e di un’intera umanità) fanno appena in tempo, prima che il buio cali definitivamente, a raccontarci in silenzio il terrore di trovarsi immerso finalmente nell’irrappresentabile, di fronte al quale non sa, e non sappiamo, se muore o vive davvero per la prima volta. Per ogni lucignolo, d’altronde, che s’accende solo nel buio e nella notte, la vita e il bruciare sono la medesima cosa.


1 C. Collodi, Le Avventure di Pinocchio, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1983, p. 186.

2 Cfr. P. Teilhard de Chardin, Il fenomeno umano, Brescia, Queriniana, 1995.

3 G. Manganelli, Pinocchio: Un libro parallelo, Torino, Einaudi, 1977, p. 131.

4 C. Collodi, Le Avventure di Pinocchio, p. 183.

5 R. Latini, In silenzio in coro, 2012 <http://www.fortebraccioteatro.com/scritti/5/in-silenzio-in-coro.html> [accessed 29 october 2017].

6 R. Latini, Programma di sala di Noosfera Lucignolo, 2010 [accessed 29 october 2017].

7 C. Collodi, Le Avventure di Pinocchio, p. 185.

8 Ivi, p. 186.

9 G. Manganelli, Pinocchio: Un libro parallelo, p. 131.

10 Cfr. Ivi, p. 132: «Pinocchio voleva partire “domani all’alba”: che era partenza impetuosa, liberatrice, per fare “la vita del vagabondo”; Lucignolo si sottrae alla “città” in una mezzanotte sommessa e furtiva, e va ad “abitare” in quel mirabile ‘lontano’. C’era protervia in Pinocchio, c’è un’ombra di disperazione in Lucignolo».

11 C. Collodi, Le Avventure di Pinocchio, p. 186.

12 Ivi, p. 72.

13 Ivi, p. 197.

14 J. Bergamin, Decadenza dell’analfabetismo, Milano, Bompiani, 2000, p. 41.

15 Ivi, p. 49.

16 G. Fofi, ‘La fortuna critica di Carmelo Bene’, in C. Bene, Opere. Con l’Autografia d’un ritratto, Milano, Bompiani, 1995.

17 R. Latini, Programma di sala di Cantico dei Cantici, 2017, [accessed 29 october 2017].