Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →

 

Nel 1974, a un mese di distanza, escono i due film di Rainer Werner Fassbinder Martha e Fontane Effi Briest. Il primo girato in 16 millimetri per la televisione, ispirato a un racconto di Cornell Woolrich, il secondo trasposizione dal romanzo omonimo di Theodor Fontane per il cinema. Durante il protrarsi delle fasi di ripresa di Effi Briest a causa della malattia di uno degli attori, Fassbinder decide di realizzare Martha, sorta di versione horror e di parafrasi moderna, come da lui stesso dichiarato (Trimborn, 2014, p. 177), dei temi già presenti in Effi Briest.

Forgiati al pari di due facce della medesima medaglia, i due lungometraggi possono facilmente essere accostati per la rilevanza accordata a un tema costante del cinema di Fassbinder: i rapporti di dipendenza e di potere in una coppia. In entrambi sono anche presenti componenti stilistiche riconducibili al melodramma, con specifiche declinazioni, tra le altre la scelta di disegnare le traiettorie delle dinamiche amorose all’interno degli spazi chiusi di una casa, che assume i connotati di un luogo concentrazionale (Salvatore, 2018, p. 146). Il melodramma, scelto dal regista quale codice elettivo per le due pellicole dopo la folgorante visione dei film di Douglas Sirk nel 1971, secondo Elsaesser è il genere «capable of reproducing more directly than other genres the patterns of dominance and exploitation existing in a given society, […] by emphasizing so clearly an emotional dynamic whose social correlative is a network of external forces directed oppressingly inward, and with which the characters themselves unwittingly collude to become their agents» (Elsaesser, 1991, p. 86). La ricorrenza figurativa di specchi, finestre, soglie, scale, oggetti d’arredo, non è al servizio di una funzione decorativa, non è scena inerte, manifesta piuttosto metaforiche allusioni al vissuto dei protagonisti e all’accentuazione delle dinamiche affettive che vedono nell’incontro d’a-mur tra donna e uomo, nel caso in particolare di Martha, protagonista del film omonimo, un oscillare tra obbedienza e inconsapevole dominio sull’altro. Uso intenzionalmente il termine a-mur, ovvero la pronuncia in francese del lemma amour per evocare, sulla scia di Lacan, come le dinamiche dell’amore possano a volte richiamare una lotta contro un muro.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Il paper si propone come preliminare e sommaria esplorazione degli intrecci fra rappresentazione delle donne che amano altre donne e costruzione filmica dello spazio domestico. L’obiettivo è quello di evidenziare la sovrapposizione del fantasma dell’angelo del focolare e quello delle varie apparizioni di personagge lesbiche nel cinema contemporaneo, mettendo in evidenza metamorfosi, sopravvivenze stereotipiche e nuove immagini di libertà che si confrontano con la problematicità della visibilizzazione di soggetti imprevisti.

The paper is intended as a preliminary and cursory exploration of the interweavings between the representation of women who love other women and the filmic construction of domestic space. The aim is to highlight the overlap of the ghost of the angel of the hearth and that of the various appearances of lesbian personages in contemporary cinema, highlighting metamorphoses, stereotypical survivals and new images of freedom that are confronted with the problematic nature of the visualisation of unexpected subjects.

Nel saggio (da cui è tratto il titolo di questa edizione di FASCinA) che costituisce una rielaborazione del discorso tenuto nel 1931 presso la Women’s Service League, Virginia Woolf sostiene che l’impasse più significativa della sua esperienza di scrittrice riguarda, oltre che la difficoltà di dire la verità sul suo corpo e sulle sue passioni, la sopravvivenza di un modello di femminilità incarnato dal fantasma dell’angelo del focolare che lei ha tentato di uccidere ogni volta che ha preso la penna in mano. Queste pietre d’inciampo si ripresentano secondo lei ad ogni donna che prova a fare della scrittura (romanzesca o giornalistica) un mestiere e riappaiono in tutta la loro ingombrante presenza malgrado le conquiste ottenute nel tempo. Rivolgendosi alle sue interlocutrici Woolf conclude, infatti, sottolineando la necessità di continuare a lavorare in quella direzione:

Richiamando l’immagine della ‘camera tutta per sé’, Woolf pone nuovamente la questione dell’agency delle donne proiettandola nella dimensione dello spazio, evidenziando la necessità di impegnarsi con cura negli ‘arredi’, nelle ‘decorazioni’, cioè nella traduzione visiva e architettonica della configurazione dei luoghi appena acquisiti. Insistendo proprio su questa figurazione iconica della conquista di una libera espressione della soggettività femminile si intende condurre una preliminare e sommaria esplorazione degli intrecci fra rappresentazione delle donne che amano altre donne e costruzione filmica dello spazio domestico, nell’intento di mettere a fuoco la sovrapposizione del fantasma dell’angelo del focolare e quello delle varie apparizioni di personagge lesbiche nel cinema contemporaneo, evidenziando metamorfosi, sopravvivenze stereotipiche e nuove immagini di libertà che si confrontano con la problematicità della visibilizzazione di soggetti imprevisti.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

«Le sue feste sono affollatissime. Lei […] dirige le conversazioni con la sicurezza e la grazia di una madame du Deffand»: così ricorda Elio Pecora nel Libro degli amici (2017) gli incontri organizzati da Elsa de’ Giorgi presso la propria abitazione in via di Villa Ada a Roma nei primi anni Settanta. Ad incrociare le loro esistenze con quella dell’attrice-scrittrice nelle sue abitazioni, a partire dagli anni Trenta, sono stati numerosi esponenti della scena culturale, intellettuale e artistica italiana del Novecento, tra i quali Anna Magnani, Alberto Moravia, Aldo Palazzeschi, Pier Paolo Pasolini. A partire da questo dato biografico, il contributo propone un’analisi dei riflessi e della rielaborazione dell’immagine di de’ Giorgi come figura di salonnière rintracciabile nei testi autobiografici dell’autrice – ad esempio nei Coetanei (1955) – e nell’interpretazione del personaggio della signora Maggi nel film Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pasolini.

«Le sue feste sono affollatissime. Lei […] dirige le conversazioni con la sicurezza e la grazia di una madame du Deffand»: this is how Elio Pecora remembers (Libro degli amici, 2017) the meetings organized in the early seventies by Elsa de’ Giorgi at her home in via di Villa Ada in Rome. Starting from the thirties, there were numerous exponents of the Italian cultural, intellectual and artistic scene of the twentieth century crossing their lives with the actress-writer in her homes, including Anna Magnani, Alberto Moravia, Aldo Palazzeschi, Pier Paolo Pasolini. Starting from this biographical data, the article proposes an analysis of the image of de’ Giorgi as a salonnière that can be traced in the autobiographical texts of the author – for example in I coetanei (1955) – and in the interpretation of the character of signora Maggi in Pasolini’s film Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975).

In un’indagine dedicata al rapporto tra Elsa de’ Giorgi e gli spazi domestici, ciò che immediatamente emerge in primo piano, ripercorrendo la biografia dell’autrice e la sua inesausta attività artistica e letteraria, è l’importanza del salotto come crocevia di incontri e luogo di una pratica mondana che ha caratterizzato l’esistenza della diva per un lungo arco di tempo. A partire dagli anni Quaranta e fino ai mesi che hanno preceduto la sua morte, avvenuta nel 1997, de’ Giorgi ha ospitato con cadenze regolari numerosi esponenti della scena culturale, intellettuale, artistica italiana del Novecento, tra i quali si annovera, solo per citare alcuni esempi, la presenza di Renato Guttuso, Carlo Levi, Anna Magnani, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini. Teatro degli scambi tra gli habitué del salotto culturale animato dalla carismatica personalità dell’attrice – dopo il trasferimento a Firenze in seguito al matrimonio, nel 1948, con Sandro Contini Bonacossi – è stata la casa romana di via di Villa Ada 4; indirizzo riportato anche nei bigliettini che de’ Giorgi donava agli amici. Fornito delle componenti materiali che hanno tradizionalmente adornato lo spazio fisico dei salons culturali, come la ricca biblioteca e il pianoforte (cfr. Palazzolo 1985, pp. 56-57), il salotto di quell’appartamento si conserva nel ricordo di un numero considerevole di amici; tra questi, Elio Pecora restituisce nel Libro degli amici l’immagine «di una grande sala, ricavata con l’abbattimento dei muri divisori di quattro stanze» (Pecora 2017, p. 100): di una camera, dunque, che sembra addirittura occupare l’intera abitazione e a cui si aggiungono, sempre come scenari di ritrovi periodici, la casa di via Ruggero Fauro, ai Parioli, abitata dalla diva prima dello spostamento a Firenze, e la villa di San Felice Circeo, sede di indimenticati soggiorni estivi.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • Arabeschi n. 21→
  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Se per le donne la casa è tradizionalmente luogo di segregazione e separazione dalla cosa pubblica, in questa indagine dedicata alle forme audiovisive dello spazio domestico si rivela anche cornice per nuovi intendimenti, gesti di resistenza e atti di ribellione, tessitura di relazioni proibite e impreviste, cura che si trasforma in rete di relazione con altre e altri, in luogo di elaborazione e costruzione di modelli alternativi di socialità e di rappresentazione. Insospettabile luogo del divenire, lo spazio domestico assume i tratti di un laboratorio femminile dove si affinano pratiche e pensiero. Il cinema e l’audiovisivo ci consegnano in molteplici modi questa dimensione creativa: attraverso le narrazioni (dentro e fuori dal canone); le rappresentazioni divistiche e spettatoriali; le pratiche cine e video sperimentali e quelle in bilico tra le arti (performance, fotografia, installazioni). Con un approccio interdisciplinare e transnazionale, intrecciando diverse prospettive metodologiche – Film Studies, Production Studies, Performance Studies, Visual Culture, Arti visive e Fotografia – questa galleria ripercorre le stanze di una «casa delle donne» liberata dal fantasma dell’angelo del focolare. Questo numero di Smarginature, così come il Forum Fascina 2022, vuole festeggiare un'autentica amica geniale, Giulia Carluccio. Brindiamo a lei, dunque, con riconoscenza e ammirazione per quanto ha fatto come Presidente della Consulta Universitaria del cinema, e per molto altro.

If for women the house is traditionally a place of segregation and separation from public affairs,  audiovisual forms of domestic spaces also reveal a framework for new understandings, gestures of resistance and acts of rebellion. Unsuspected place of becoming, the domestic space takes on the features of a female laboratory where practices and thoughts are refined. Cinema and the audiovisual deliver this creative dimension to us in many ways: through narratives (inside and outside the canon); star and spectator representations; experimental video practices and those hovering between the arts (performance, photography, installations). With an interdisciplinary and transnational approach, intertwining different methodological perspectives - Film Studies, Production Studies, Performance Studies, Visual Culture, Visual Arts and Photography - this gallery retraces the rooms of a "women's home" freed from the ghost of the angel of the house.

 

«A quei tempi (gli ultimi della Regina Vittoria), ogni focolare aveva il suo angelo», attestava, nel 1931, Virginia Woolf parlando alla National Society for Women’s Service e, in particolare, alle giovani in ascolto. Dichiarava come uccidere ‘l’angelo del focolare’ avesse rappresentato un’esperienza ineludibile per se stessa e per le donne della sua generazione decise a intraprendere il mestiere di scrittrice o, più in generale, a esercitare la libertà del proprio pensiero. Attenta alle implicazioni delle condizioni economico-materiali sui destini delle donne, Woolf, in quell’occasione, individuava l’impedimento più granitico, periglioso e infido in una delle creazioni forgiate dall’immaginario patriarcale: un ‘fantasma’ dalle sembianze femminee, in grado di catturare nel gorgo della propria similitudine speculare ogni moto di devianza. Testimonianza e invettiva al contempo, il testo di Woolf è scandito da una continua tensione tra un approccio storicizzante e un orizzonte atemporale, infestato dalla creatura fantastica di cui evidenziava la persistenza e la resilienza.

A quasi cent’anni di distanza, il lascito di Woolf, giunto oggi a noi in Professioni per le donne, pubblicato postumo, è riconoscibile proprio nella natura fantasmica attribuita dalla scrittrice all’angelo del focolare impregnante lo stesso spazio domestico, garante della sua esistenza e contestualmente campo di esercizio della sua coercizione. Del revenant è il tratto iterativo, carsico, multiforme dell’aggressione che chiama ancora oggi le donne a reiterare l’esperienza fondativa invocata da Woolf. I momenti di ‘crisi’ – come quella indotta dal covid – si fanno al riguardo faglie emblematiche.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

 

 

 

Preferisco il cinema.

[…]

Preferisco in amore gli anniversari non tondi,

da festeggiare ogni giorno.

[…]

Preferisco il tempo degli insetti a quello siderale.

W. SzymborskÄ…, Possibilità, 1986

 

1. Uno sguardo d’insieme

Sono trascorsi, d’un soffio, dieci anni dal primo pionieristico (ma timido) convegno su ‘Cinema e donne’ organizzato all’Università di Sassari: correva l’anno 2011 e il seme di quella rete di relazioni e di studi che oggi chiamiamo FAScinA era stato gettato, con la leggerezza, l’ingenua baldanza e la cura che caratterizzano i moti del desiderio. Da quel primigenio incontro sono scaturiti, negli anni successivi, progetti di ricerca, saggi su riviste e volumi, workshop e giornate di studio disseminate in molti Atenei italiani; e soprattutto da quel lontano confronto ha preso avvio il fitto network di ricerca che tiene insieme numerosissime studiose interessate a indagare il panorama del cinema e degli audiovisivi tenendo conto dei saperi, delle storie, delle soggettività e dei talenti delle donne. Tuttavia, dieci anni fa, a fronte di un contesto internazionale già assiduamente attraversato e vivificato da questo approccio, lo scenario italiano sembrava ancora refrattario: il territorio sul quale ci affacciavamo appariva come una landa vasta, addirittura sterminata, promettente come un Campo Lungo dove via via compaiono le prime incerte figure di una avventura che va prendendo forma. Sentieri selvaggi, appunto.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

È il 1998 quando Marina Ballo Charmet, psicoterapeuta di professione e fotografa sin dagli anni Ottanta, presenta la sua prima videoinstallazione dal titolo Conversazione (installazione con 4/10 video su 4/10 monitor, 1' ciascuno in loop) [fig. 1]. Il luogo espositivo è lo Studio Marconi di Milano, spazio di ricerca sempre attento alle sperimentazioni anche in ambito multimediale: in una stanza sono disposti ad ellisse dieci monitor, i quali trasmettono close-up di corpi di altrettante persone, prevalentemente volti, colli, tempie. La traccia audio, invece, riproduce il suono del loro respiro: ci si aspetterebbe uno scambio, un dialogo tra i diversi soggetti, come vorrebbe il titolo – o, al massimo, una riflessione sull’impossibilità di esso, sull’incomunicabilità – invece, semplicemente, essi sostano, pazienti e sospesi.

Lo spettatore è immerso nella presentificazione di ciò che non è nulla di speciale, che non è nemmeno pensato, un processo automatico, ma che è tale, «esattamente così e niente di più» (Barthes 1980, p. 108). Si fa ‘presenza’, in altre parole, ciò che è percepito ma non visto, il «fuori campo» (Ballo Charmet 2013, pp. 81-96; 2019; Lissoni 2007, p. 110 e 113): «è come se la frangia, la piega, il vivere esperienze senza essere presenti attentamente, assumesse importanza, fosse necessario. “La cosa” esiste: ha una sua presenza e un suo senso. Il marginale, il latente, si rivelano sorprendenti» (Ballo Charmet 2017, p. 57).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Summer, ultimo romanzo della scrittrice scozzese Ali Smith, pubblicato nel 2020 e uscito nell’estate del 2021 anche in traduzione italiana per i tipi di SUR, chiude il quartetto romanzesco Seasonal, in cui l’autrice ha cercato di indagare l’iper – o ultra – contemporaneo, tuttavia avvalendosi, in ogni volume, della mediazione intermediale di un’artista del Novecento. Questa operazione, che potremmo definire quasi ‘curatoriale’ nell’intento di predisporre un canone artistico alternativo per la storia delle arti visive del Novecento, ha consentito di portare di fronte a un pubblico più ampio di lettrici e lettori figure che, al momento, si trovano ancora per lo più confinate nell’avanguardia e nello sperimentale, categorie ermeneutiche di per sé estremamente fruttifere, ma purtroppo ancora relegate in una posizione marginale all’interno del dibattito critico e accademico. Se in Autumn (2016), romanzo inaugurale dell’esperimento narrativo di Smith, era stata Pauline Boty, pittrice della Pop Art inglese e attrice cinematografica, a essere fatta oggetto di riscoperta, i successivi Winter (2017) e Spring (2019) includono riferimenti intermediali a Barbara Hepworth, forse la più importante scultrice inglese nella storia dell’arte, e Tacita Dean, artista poliedrica nota soprattutto per i film sperimentali in 16mm.

Con Summer Ali Smith chiude non solo il quartetto narrativo legato a questioni attuali quali la Brexit, i migranti, il cambiamento climatico, la pandemia, ma anche questa delicata operazione di mediazione culturale al femminile con una figura particolarmente interessante per riflettere su una serie di elementi che riguardano lo studio delle donne nelle arti e nell’audiovisivo. Per Summer, infatti, Smith ha scelto di gettare luce su Lorenza Mazzetti, cineasta e scrittrice italiana emigrata a Londra ancora giovanissima e tra le principali animatrici del Free Cinema inglese, un movimento sorto negli anni Cinquanta a partire dalla collaborazione della filmmaker con Lindsay Anderson, Karel Reisz e Tony Richardson, firmatari con lei di quello che sarebbe diventato il Manifesto del Free Cinema Movement, che recita così:

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Nonostante l’abbandono della pratica fotografica agli inizi degli anni Ottanta, è indubbio che Lisetta Carmi abbia assunto una certa centralità nella storia della fotografia italiana. Negli anni Duemila, dopo una lunga dimenticanza, le sue opere sono diventate oggetto di grande attenzione e sono state esposte in mostre personali e collettive. Nel 2010 il regista Daniele Segre ha dedicato alla sua figura di artista il film documentario Lisetta Carmi, un’anima in cammino, presentato con grande successo alla Mostra del Cinema di Venezia dello stesso anno. Poi hanno assunto sempre maggior rilievo le esposizioni come quella a Palazzo Ducale di Genova (città in cui è nata nel 1924) del 2015, al Museo di Roma in Trastevere nel 2017, al MAN di Nuoro nel 2017, fino all’ultima mostra intitolata Gli altri, sviluppata attraverso due tappe al Castello Carlo V di Lecce e al Museo Osvaldo Licini di Ascoli nel 2021.

Alla luce di questo grande successo, con sguardo retrospettivo, oggi possiamo provare a leggere la funzione assunta dal lavoro della fotografa nel più ampio sistema dell’industria culturale italiana di ieri e di oggi, distinguendo la necessaria azione destabilizzante che le sue fotografie provocarono allora dal valore storiografico di cui si caricano attraverso le mostre e gli studi a loro dedicati in questi ultimi anni.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Una delle frasi conclusive del primo manifesto di Rivolta femminile redatto nel luglio 1970 – «Vogliamo essere all’altezza di un universo senza risposte» (Lonzi 1974, p. 18) – è all’origine dell’unico autoritratto realizzato da Silvia Giambrone, esposto a Villa Medici nel 2010 con il titolo Autoritratto (Io nel settembre 2009 all’altezza di un universo senza risposte) [fig. 1]. Su una serie di nove fogli di acetato trasferibili contenenti le lettere dell’alfabeto, scelti tra quelli in uso una volta nella grafica e nel disegno industriale, Giambrone cancella le singole lettere che compongono il titolo dell’opera in modo che la scrittura proceda attraverso un processo di sottrazione. «Il lavoro di Carla Lonzi» – spiega l’artista in conversazione con Nina Power – «è stato tanto importante da ispirare l’unico autoritratto che io abbia mai fatto […]. Allora mi ero resa conto che per realizzare un autoritratto, dovevo correre il rischio di sottrarmi ai codici linguistici» (Giambrone-Power 2016, p. 45).

L’autoritratto di Giambrone, come ha chiarito Giovanna Zapperi, rimanda all’urgenza di rendere visibile ciò che è assente o è stato rimosso (Zapperi 2017, p. 247) e si ricollega a un’altra affermazione lonziana tratta da Sputiamo su Hegel – «Noi siamo il passato oscuro del mondo» (Lonzi 1974, p. 61) – usata dall’artista come titolo di un secondo lavoro di matrice linguistico-concettuale realizzato anch’esso nel 2010. La centralità del pensiero di Lonzi nel percorso di Giambrone è un aspetto su cui la critica si è soffermata in più occasioni e sul quale, come appena visto, anche l’artista si è espressa (Giambrone-Iamurri 2013; Giambrone-Power 2016). Resta invece da chiarire come l’interesse per gli scritti di Lonzi e l’aperta adesione alle istanze neofemministe stiano in relazione con un altro aspetto altrettanto importante ma meno esplorato del suo lavoro, che riguarda il rapporto con l’Arte povera: la ripresa dei testi femministi lonziani, nell’opera di Giambrone va infatti di pari passo con la rivisitazione di iconografie desunte dalle opere di artisti come Alighiero Boetti, Jannis Kounellis e Giuseppe Penone, e che talora viene espressa sotto forma di citazione. Per spiegare le ragioni del fenomeno è utile riprendere il concetto di «double allegiance» coniato in ambito letterario da Susan Rubin Suleiman nel volume Subversive Intent. Gender, Politics, and the Avant-Garde (1990), poi esteso dalla studiosa al campo delle arti visive per interpretare lo speciale rapporto che lega le opere di Cindy Sherman e Francesca Woodman a quelle dei loro predecessori surrealisti Hans Bellmer e René Magritte (Suleiman 1998, pp. 128-154). Suleiman propone un modello di lettura dialogico, riassumibile nell’espressione «yes, but», secondo il quale nelle opere di Woodman e Sherman il confronto con i precursori non implicherebbe né l’accettazione passiva della tradizione, né la distruzione del canone, ma un dialogo serrato che consentirebbe loro di saldare la sperimentazione formale e culturale dell’arte d’avanguardia con la critica alle ideologie dominanti formulata dalla teoria femminista.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11