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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Il paper si propone come preliminare e sommaria esplorazione degli intrecci fra rappresentazione delle donne che amano altre donne e costruzione filmica dello spazio domestico. L’obiettivo è quello di evidenziare la sovrapposizione del fantasma dell’angelo del focolare e quello delle varie apparizioni di personagge lesbiche nel cinema contemporaneo, mettendo in evidenza metamorfosi, sopravvivenze stereotipiche e nuove immagini di libertà che si confrontano con la problematicità della visibilizzazione di soggetti imprevisti.

The paper is intended as a preliminary and cursory exploration of the interweavings between the representation of women who love other women and the filmic construction of domestic space. The aim is to highlight the overlap of the ghost of the angel of the hearth and that of the various appearances of lesbian personages in contemporary cinema, highlighting metamorphoses, stereotypical survivals and new images of freedom that are confronted with the problematic nature of the visualisation of unexpected subjects.

Nel saggio (da cui è tratto il titolo di questa edizione di FASCinA) che costituisce una rielaborazione del discorso tenuto nel 1931 presso la Women’s Service League, Virginia Woolf sostiene che l’impasse più significativa della sua esperienza di scrittrice riguarda, oltre che la difficoltà di dire la verità sul suo corpo e sulle sue passioni, la sopravvivenza di un modello di femminilità incarnato dal fantasma dell’angelo del focolare che lei ha tentato di uccidere ogni volta che ha preso la penna in mano. Queste pietre d’inciampo si ripresentano secondo lei ad ogni donna che prova a fare della scrittura (romanzesca o giornalistica) un mestiere e riappaiono in tutta la loro ingombrante presenza malgrado le conquiste ottenute nel tempo. Rivolgendosi alle sue interlocutrici Woolf conclude, infatti, sottolineando la necessità di continuare a lavorare in quella direzione:

Richiamando l’immagine della ‘camera tutta per sé’, Woolf pone nuovamente la questione dell’agency delle donne proiettandola nella dimensione dello spazio, evidenziando la necessità di impegnarsi con cura negli ‘arredi’, nelle ‘decorazioni’, cioè nella traduzione visiva e architettonica della configurazione dei luoghi appena acquisiti. Insistendo proprio su questa figurazione iconica della conquista di una libera espressione della soggettività femminile si intende condurre una preliminare e sommaria esplorazione degli intrecci fra rappresentazione delle donne che amano altre donne e costruzione filmica dello spazio domestico, nell’intento di mettere a fuoco la sovrapposizione del fantasma dell’angelo del focolare e quello delle varie apparizioni di personagge lesbiche nel cinema contemporaneo, evidenziando metamorfosi, sopravvivenze stereotipiche e nuove immagini di libertà che si confrontano con la problematicità della visibilizzazione di soggetti imprevisti.

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Nel cinema italiano contemporaneo sta manifestandosi un fenomeno inatteso, che come un filo sottile ma tenace sta portando alla luce un nuovo modo di narrare attraverso le immagini.

Nuove registe e nuove attrici hanno iniziato a popolare la scena cinematografica nazionale proponendo storie diverse, e personaggi, maschili e femminili, fuori dal canone. Operando un superamento degli stereotipi, non solo relativi alla sfera femminile, tendono a modificare drasticamente quella sorta di sovrastruttura narrativa che è stata per secoli il racconto unico di tutte le vite: l’amore eterosessuale, e la sua realizzazione attraverso il matrimonio e la procreazione.

Le opere sono molte e differenti: Ossidiana (2007) di Silvana Maja, Nina (2013) di Elisa Fuksas, Miele (2013) di Valeria Golino, Vergine giurata (2015) di Laura Bispuri, i film di Marina Spada, di Alice Rohrwacher, di Giorgia Cecere e di Donatella Maiorca, per fare una rapida e sommaria carrellata.

Se analizziamo e confrontiamo i plot di questi film e le scelte registiche, sia dal punto di vista della messa in scena sia da quello del lavoro attoriale, parrebbe che le donne dietro e davanti alla macchina da presa stiano cercando di scardinare quello che Paul B. Preciado definisce «l’impero della normalità», ovvero quell’universo di storie prevedibili dove le personagge possono essere solo madri e mogli, a favore di narrazioni più aderenti al loro immaginario [figg. 1 e 2].

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La stricte authenticité du document humain

André Breton, 1937

Un testo ibrido è composto di elementi verbali e non verbali come fotografie, illustrazioni e frames cinematografici. Il processo di integrazione tra diverse componenti modifica la natura e la struttura del testo e crea la possibilità di molteplici livelli di lettura, mettendo in discussione la ‘linearità del significante’, e dando spazio a forme di comunicazione complesse che coniugano diversi mezzi espressivi e comunicativi come parole, immagini, accorgimenti tipografici. Il testo come ibrido si presta ad una lettura molteplice, su più livelli, in più direzioni: è un qualcosa che cresce e prolifera grazie anche all’innesto di ciò che sembra marginale. Questa sezione della Galleria accoglie al proprio interno tutti quei testi in cui il rapporto tra ciò che è letterario e ciò che è documentario si esprime attraverso la relazione tra verbale e non verbale.

È lo snodarsi del processo di lettura che consente ai documenti, anche quelli non verbali, di diventare cruciali per una comprensione completa delle intenzioni espresse dal testo letterario. La letteratura degli anni Trenta è ricca di esempi illustri di testi che inglobano al proprio interno documenti fotografici che potrebbero apparire come marginali, ma che sono funzionali al processo di lettura del testo letterario, come nel caso di Virginia Woolf in Three guineas (1938), Nadja di André Breton (1928), Chantiers américains di André Maurois (1933) o French en andere cancan di Gaston Burssens (1935, Fig. 1).

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This article explores the relationship between painting and writing in the works of Virginia Woolf. In particular, it further investigates the experimental ekphrasis in Woolf’s essays on art (Pictures and Portrait, Pictures, The Fleeting Portrait) and the abstract style of some short stories inspired by post-impressionist painting (The Mark on the Wall, Blue and Green, The Lady in the Looking Glass: a Reflection). Thus, the paper aims to show how art criticism and short stories are to be considered as experiments on the verbal translatability of images that inspire the structure of the novels (Mrs Dalloway, 1925; To The Lighthouse, 1927; The Waves, 1931), where abstract style description alternates with plot development. Such a style conforms to a cognitive model of knowledge consisting of the sequence of ‘perception’, ‘recognition’ and ‘plotting’.

Percezione e riconoscimento di figure nei saggi sull’arte

L’influenza del Post-impressionismo, sia francese che inglese, nell’opera di Virginia Woolf ha una radice storica che risale alle due mostre post-impressioniste tenutesi a Londra nei primi anni del Novecento.[1] La prima viene inaugurata l’otto novembre 1910 alle Grafton Galleries, con il titolo Manet and the Post-Impressionists, appellativo che definisce i pittori esposti, scelto da Roger Fry, curatore e allestitore della mostra. Si espongono otto oli e un pastello di Manet, ventuno opere di Cézanne, venti di Van Gogh e non meno di trentasette dipinti di Gauguin. In più, ci sono nove Vlaminck, due Maurice Denis, tre Derain, tre Friesz, sei Rouault e due Picasso, e ancora altri lavori di artisti meno noti come Pierre Girieud e Jules Flandrin. Una seconda mostra dei post-impressionisti, poi, viene inaugurata sempre alle Grafton Galleries il 5 ottobre del 1912.

Nella mostra sono esposti cinque oli e sei acquerelli di Cézanne, diciannove oli di Matisse, tredici oli e tre disegni di Picasso e dodici lavori di Lhôte. Inoltre compaiono quattro Fauves e lavori cubisti di Braque. Accanto a essi sono esposte le opere di un gruppo di pittori inglesi, sensibili alla nuova arte, tra cui Duncan Grant, Vanessa Bell, Frederick Etchells, Spencer Frederick Gore, Eric Gill e Wyndham Lewis. Viene creato uno spazio anche per alcuni lavori, giunti più tardi, di artisti russi.

L’impatto della nuova pittura nella scrittura di Woolf è testimoniato dai numerosissimi luoghi degli scritti autobiografici e dei saggi in cui la scrittrice discute il problema della ‘forma’ in letteratura e indica lo stile post-impressionista come un esempio da seguire per innovare la narrativa. Si tratta di un’influenza mediata tanto dai teorici e critici d’arte inglesi – in particolare Clive Bell e Roger Fry – che dalla conoscenza diretta degli artisti e dei loro lavori.[2] Il Post-impressionismo si presenta alla scrittrice come la realizzazione, in pittura, di quella forma nuova sulla quale da tempo rifletteva in un confronto serrato con le arti visive, come testimonia un appunto del 1908 ispirato dagli affreschi nel Collegio del Cambio, in cui leggiamo:

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