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Nel cinema italiano contemporaneo sta manifestandosi un fenomeno inatteso, che come un filo sottile ma tenace sta portando alla luce un nuovo modo di narrare attraverso le immagini.

Nuove registe e nuove attrici hanno iniziato a popolare la scena cinematografica nazionale proponendo storie diverse, e personaggi, maschili e femminili, fuori dal canone. Operando un superamento degli stereotipi, non solo relativi alla sfera femminile, tendono a modificare drasticamente quella sorta di sovrastruttura narrativa che è stata per secoli il racconto unico di tutte le vite: l’amore eterosessuale, e la sua realizzazione attraverso il matrimonio e la procreazione.

Le opere sono molte e differenti: Ossidiana (2007) di Silvana Maja, Nina (2013) di Elisa Fuksas, Miele (2013) di Valeria Golino, Vergine giurata (2015) di Laura Bispuri, i film di Marina Spada, di Alice Rohrwacher, di Giorgia Cecere e di Donatella Maiorca, per fare una rapida e sommaria carrellata.

Se analizziamo e confrontiamo i plot di questi film e le scelte registiche, sia dal punto di vista della messa in scena sia da quello del lavoro attoriale, parrebbe che le donne dietro e davanti alla macchina da presa stiano cercando di scardinare quello che Paul B. Preciado definisce «l’impero della normalità», ovvero quell’universo di storie prevedibili dove le personagge possono essere solo madri e mogli, a favore di narrazioni più aderenti al loro immaginario [figg. 1 e 2].

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Subito, fino dal titolo, in Poesia che mi guardi l’interpellazione segnala la presenza forte di un altro – di un’altra – da sé: la poesia si staglia fuori dall’io che scrive e lo osserva, forse complice, forse con distacco, certo da lontano: da una distanza che non si può riempire ma solo osservare. Si disegna allora un luogo: che è della mente, giacché unisce due cronologie incompatibili, quella senza tempo della poesia e quella finita perché mortale della poeta; ma che si fa anche reale nelle immagini del film, che nel montaggio risolvono il paradosso temporale e avvicinano Antonia alla sua poesia come anche lo sguardo di Marina Spada (e il nostro) a lei. Cercherò di esplorare questi luoghi evanescenti e concretissimi insieme attraverso alcune immagini tratte dai quaderni di lavorazione del film: ringrazio Marina Spada che con generosità ha voluto condividerle.

 

1. Stanze vuote

Nel film Antonia è soprattutto una mancanza: una voce senza corpo che si muove in stanze vuote. Nessuna attrice le presta le proprie sembianze; la vediamo soltanto fare capolino qua e là dalle fotografie e dai film di famiglia. In una sequenza centrale di Poesia che mi guardi [figg. 1 e 2] la camera passeggia lungo i corridoi vuoti e le aule spopolate e asettiche del liceo Manzoni frequentato da Antonia. Sentiamo che lei ha camminato lungo quei muri, guardato da quelle finestre, scritto su quelle lavagne; e che ora però non c’è più, non possiamo vederla né ascoltarla. Una voce fuori campo legge la sua Canto della mia nudità:

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