3.1. Dialoghi fra donne davanti e dietro la macchina da presa

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Nel cinema italiano contemporaneo sta manifestandosi un fenomeno inatteso, che come un filo sottile ma tenace sta portando alla luce un nuovo modo di narrare attraverso le immagini.

Nuove registe e nuove attrici hanno iniziato a popolare la scena cinematografica nazionale proponendo storie diverse, e personaggi, maschili e femminili, fuori dal canone. Operando un superamento degli stereotipi, non solo relativi alla sfera femminile, tendono a modificare drasticamente quella sorta di sovrastruttura narrativa che è stata per secoli il racconto unico di tutte le vite: l’amore eterosessuale, e la sua realizzazione attraverso il matrimonio e la procreazione.

Le opere sono molte e differenti: Ossidiana (2007) di Silvana Maja, Nina (2013) di Elisa Fuksas, Miele (2013) di Valeria Golino, Vergine giurata (2015) di Laura Bispuri, i film di Marina Spada, di Alice Rohrwacher, di Giorgia Cecere e di Donatella Maiorca, per fare una rapida e sommaria carrellata.

Se analizziamo e confrontiamo i plot di questi film e le scelte registiche, sia dal punto di vista della messa in scena sia da quello del lavoro attoriale, parrebbe che le donne dietro e davanti alla macchina da presa stiano cercando di scardinare quello che Paul B. Preciado definisce «l’impero della normalità», ovvero quell’universo di storie prevedibili dove le personagge possono essere solo madri e mogli, a favore di narrazioni più aderenti al loro immaginario [figg. 1 e 2].

 

1. Donne, dialoghi

 

Che cosa faranno dunque le donne, quando si trovano fra di loro?

Virginia Woolf, Orlando

 

Giocando con il cliché che vorrebbe le donne incapaci di relazionarsi fra di loro, in Orlando Virginia Woolf si chiede cosa possano fare le donne quando si trovano insieme se, come asseriscono molti uomini, le donne non hanno nulla da dirsi e, oltretutto, si odiano cordialmente a vicenda. Ma questo, cito ancora parafrasando il testo di Woolf, è ciò che pensano per l’appunto gli uomini, anche perché, come ci fa notare la scrittrice, le donne tra di loro si divertono talmente che hanno ben cura di non farlo sapere a nessuno.

Le nostre registe stanno quindi aprendo il sipario su un segreto ben custodito da secoli. Uno dei molti saperi femminili che le donne hanno forse dovuto nascondere per evitare di passare per delle cospiratrici: la loro capacità di confronto e di dialogo su ogni questione, anche molto complessa della vita e della morte. Due aspetti fondanti che da sempre le donne, volendo o no, devono amministrare, attraverso la maternità, la cura dei corpi altrui e loro, e la gestione dei riti funebri.

Nei numerosi dialoghi fra donne presenti nei film di cui ci occuperemo, emerge la spontaneità con cui gli argomenti sono trattati, la leggerezza, intesa come soavità e non certo come superficialità, il saper andare dritte al nocciolo delle questioni.

Ma il dialogo non avviene solo sullo schermo fra personagge. È dialogo anche quello che le registe attuano fra loro, con le loro collaboratrici, con i loro riferimenti culturali e, soprattutto, con le stesse attrici che lavorano per loro [fig. 3].

 

2. Davanti la mdp

 

Orlando se la godeva un mondo in compagnia delle donne.

Virginia Woolf, Orlando

 

Le donne stanno bene insieme. Alcune lo sanno da sempre, altre lo scoprono nel corso della loro esistenza, qualcuna purtroppo non avrà mai modo di sperimentarlo. Accade così, perché le donne hanno bisogno di dialogare con chi le può capire. Tuttavia non è sempre facile, soprattutto dove la cultura patriarcale ha isolato per secoli le donne dal loro sesso.

Luce Irigaray ci guida nel dare nome a questo mistero inesplorato della relazione fra donne: l’essere generate da una donna, ed essere a nostra volta capaci di generare, ci rende più capaci di relazionarci con il nostro stesso sesso, ma allo stesso tempo anche più vulnerabili.

In ‘Avvicinarsi all’altro come altro’ (1997) Irigaray ci insegna che per costituire la propria soggettività occorre uscire da un rapporto esclusivo con la madre e «scoprire una relazione con un altro diverso da sé rimanendo pure se stessa». Contrariamente a quanto sostiene la filosofa della differenza, credo però che le donne non abbiano tanto bisogno dell’altro inteso come soggetto maschile per costruire la propria soggettività, ma piuttosto di uno specchio che rimandi loro un’immagine alternativa del sé, come può accadere con l’amica. Ognuna di noi ha avuto questa esperienza di proiezione fuori e verso di sé. Il fascino di un’altra donna nella quale ci siamo riconosciute, lo scoprirsi uguali ma diverse, con la propria soggettività.

Nei dialoghi presi in esame accade qualcosa di speciale: le donne sanno parlarsi, stanno bene insieme, creano relazioni intime, forti, profonde. Escono quindi allo scoperto, finalmente libere di esprimersi, e rinnovano non solo a livello narrativo, ma anche nella sostanza, il nostro immaginario. Inventano un nuovo spazio narrativo.

 

3. Libere di non essere per forza qualcosa, Vergine giurata

Il film di Laura Bispuri è ricco di momenti di dialogo fra le protagoniste. Ne analizzo due, che corrispondono al graduale ritorno di Mark in Hana e nella sua finale ricomposizione come un tutto, indefinito, mobile, molteplice, che – sono parole di Irigaray in All’inizio, lei era – «raccoglie in sé gli opposti», e accetta finalmente di essere libera di «non essere per forza qualcosa». Quest’ultima frase è il fulcro del dialogo sull’essere libere fra Hana (la vergine giurata) e la figlia di Lila, Ionida; ragazzina sveglia e intraprendente, atleta di nuoto sincronizzato, Ionida coglie in Hana/Mark tutta la forza e la debolezza che la caratterizzano. Il secondo dialogo avviene tra Hana/Mark e Lila, la sorella per elezione (elemento che ritorna nei film delle registe che sto analizzando è proprio questo dei legami trasversali, della sorellanza al di là delle parentele di sangue). Esteriormente Hana è ancora Mark, ma sente un vuoto, sente il pericolo dell’essere niente; e allora interroga Lila sul sesso. «Com’è il sesso?», chiede. E Lila risponde che la prima volta è come il rakì, brucia e non capisci niente, poi, anche se ci sono volte in cui capisci che era meglio quando non capivi, quando funziona è come una cosa che avvolge e completa.

Questo dialogo riesce a cogliere un aspetto fondante della nostra complessità: per una donna, il piacere del sesso non è mai scontato, non è mai facile, ma quando lo si prova, è totalizzante [fig. 4].

 

4. Nessuno si accorgerebbe che ci siamo, Come l’ombra

Nel film di Marina Spada, Come l’ombra (2006), assistiamo a un dialogo fra sorelle sulla banchina di una stazione dell’hinterland milanese. Mentre una si lamenta della desolante mancanza di vita, paragonando quel non-luogo a Marte, la protagonista, Claudia, ribatte che anche se fossero su Marte nessuno si accorgerebbe di loro. Si innesca così un breve dialogo sugli uomini che potrebbero entrare a far parte delle loro vite. In poche parole le due donne riescono a dirsi – e a dirci – le loro ansie e le loro attese, senza falsi miti, e soprattutto senza parlare di principi azzurri. L’ansia è che la loro vita resti sempre uguale, l’aspettativa è quella di essere notate, viste oltre la superficie. Come l’ombra è un film sull’incomunicabilità e sulle sue possibili deviazioni. Come gli altri lavori di Spada, riesce a trasporre la durezza degli eventi sul piano dell’aperto, del possibile, dell’altrove [figg. 5 e 6].

 

5. Che vita vuoi? Viola di mare

Angela e Sara sono due giovani donne nella Sicilia arcaica dell’Ottocento. Si amano dolcemente perché si assomigliano, in quanto donne, ma anche in quanto capaci di ribellione ai modelli secolari di quella terra. Lo dice proprio Angela al termine di un breve quanto intenso dialogo con Sara, in cui afferma di non volere una vita come quella che è prevista per loro, una vita in cui «è sempre tutto uguale». Non avendo i mezzi per andare via, le due protagoniste affrontano con coraggio la ribellione all’ordine patriarcale sposandosi tra di loro. Ma devono assecondare un poco di quell’ordine, accettando che Angela diventi Angelo e aprendo la strada alla tragedia che verrà. Donatella Maiorca ingloba le due donne nel paesaggio siciliano, aspro e primitivo, fino a farci immaginare un nuovo ordine naturale, in cui la natura, non più matrigna ma madre finalmente, ci accoglie fra le sue braccia rassicuranti. Come Orlando, Angela e Sara vogliono vivere e vogliono amare, loro stesse e il loro bambino, e scelgono di fare a meno di un marito. Come in Orlando e in Vergine giurata, è il femminile a prevalere contro la forza e la violenza di tutti i modelli maschilisti [fig. 7].

 

6. Dietro la mdp: Marina Spada riprende Claudia Gerini

All’inizio di Il mio domani (2011), Marina Spada riprende Claudia Gerini senza mostrarne il volto. La donna è un corpo in movimento, è connotata fisicamente dai vestiti, dai luoghi che attraversa, ma è un corpo standardizzato. Nel corso del film, Monica, la protagonista, assume un volto e una psicologia definiti. Inizia a vedere le cose in modo diverso, e noi spettatori a vedere lei in modo diverso. Lavora nel territorio impersonale del lavoro capitalistico. Monica inoltre ha subito l’abbandono della madre, vessazioni da un padre incapace di esprimere i propri sentimenti, ha un rapporto difficile con la sorellastra, una vita sentimentale che non la soddisfa. Il non riuscire a fotografarsi è la prova che qualcosa non va. Solo alla fine del film potrà scegliere con coraggio quale sarà il suo domani. Spada filma Gerini da una certa distanza, ne registra i movimenti nello spazio, la riprende spesso di profilo, o in ‘soggettiva con’. L’attrice è presente in ogni sequenza, e quando non è inquadrata, la mdp la va a cercare quasi con voracità. La sua recitazione non è mai esibita, eppure i sentimenti emergono, anche nelle loro varianti più sottili. Marina riprende Claudia che interpreta Monica scritta da Marina, e in questo dialogo fecondo, entrambe si riconoscono [fig. 8].

 

7. Dietro la mdp: Silvana Maja riprende Teresa Saponangelo

Ossidiana è un film sulla complessità della psicologia femminile. Maja realizza un’importante testimonianza della vita della pittrice Maria Palleggiani, ma anche un affresco della condizione femminile nell’Italia degli anni Cinquanta, dove la borghesia permetteva alle proprie figlie di studiare, ma poi le destinava comunque al matrimonio. Destino che in alcune donne, particolarmente sensibili, produceva un disagio esistenziale tanto profondo da portarle alla depressione, all’isolamento sociale e talvolta al suicidio.

Maria vorrebbe avere tutto il tempo a sua disposizione, senza obblighi di orario, senza controlli (il tema della libertà femminile è presente in tutto il film). Purtroppo però la donna deve fare i conti con la morale della sua epoca, e con costrizioni che la portano irrimediabilmente a sentirsi diversa. La regista si serve del volto e del corpo dell’attrice, bravissima, per farci partecipare a tutte le sfumature dell’evolversi del disagio esistenziale della pittrice. I primi piani serrati, il suo incedere da sola o con il figlio per mano, i movimenti nervosi, il particolare delle mani quando dipinge: ogni inquadratura è concepita per far emergere il dolore che travolge la donna e la porta tragicamente a subire l’elettroshock e poi al suicidio. Maja, autrice anche della biografia di Maria Palleggiani, è così coinvolta nel dramma che riesce a trasportarvi anche l’attrice. Anche qui si verifica un cortocircuito basato sull’intesa fra chi filma, chi è filmata e la figura di donna rappresentata. Cortocircuito che ci porta a rivivere non solo il dramma di Maria ma anche quello di tutte le donne che hanno subito la sua sorte.

 

 

Bibliografia

V. Woolf, Orlando [1928], trad. it. di G. Scalero, Milano, Mondadori, 1993.

A. Achmatova, La corsa del tempo, a cura di M. Colucci, Torino, Einaudi, 1992.

A. Pozzi, Parole, Milano, Garzanti, 2001.

E. Dones, Vergine giurata, Milano, Feltrinelli, 2009.

S. Maja, Ossidiana, Roma, Voland, 2007.

L. Irigaray, All’inizio, lei era [2012], trad. it. di A. Lo Sardo, Torino, Bollati Boringhieri, 2013.

L. Irigaray, In tutto il mondo siamo sempre in due. Chiavi per una convivenza universale, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2006.

L. Irigaray, ‘Avvicinarsi all’altro come altro’, in Ead. Tra Oriente e Occidente. Dalla singolarità alla comunità, Roma, Manifestolibri, 1997, pp. 115-124.

Paul B. Preciado, Testo tossico [2008], trad. it. di E. Rafanelli, Roma, Fandango, 2015.

M. Nadotti, ‘Ebbro di testo. Da Beatriz a Paul Preciado’, Doppiozero (23 ottobre 2015) <http://www.doppiozero.com/rubriche/297/201510/ebbro-di-testo-da-beatriz-paul-preciado> [accessed 2 September 2016]