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The following article/conversation aims to discuss with Noël Carroll (who is one of the most important figures in contemporary philosophy of art) about specific topics related to cinematic aesthetics and other peculiar aspects of live-action cinema and animation. The authors sincerely thank Noël Carroll for granting this conversation. Who answers the questions assumes full responsibility for his assertions. The conversation is dated 2022.

Introduction[1]

Nowadays, the philosophical branch of aesthetics represents a central theme in film analysis. Several distinguished ‘classic’ authors (Canudo, Arnheim, Warburg, Gombrich, to name the most influential ones) talked about it for a long time. Today, Noël Carroll distinguished himself among the contemporary scholars on the world scene. In fact, he has long and profitably reflected on issues of fundamental importance for cinematic aesthetics, such as (as outlined in the questions) the conception of the actor’s body in the filmic space (this is the case, for example, of his studies on Buster Keaton). In his essays Carroll highlighted several important concepts, making popular this specific philosophical field, even maintaining its proper academic slant. We believe that aesthetics, meant both as, Philosophy of Art and Philosophy of emotions or perception,[2] would be the right way to analyze cinematographic theories, using their paradigms to develop new approaches.

The questions posed would like to introduce a very little part of Noël Carroll’s thought on different fields: from ‘classic’ silent cinema to animated films, with also several considerations on digital.

 

Massimo Bonura: What are your five favorite films and why?

 

Noël Carroll: Well, the first isn’t just my favorite. I think it’s the greatest film that has been made so far. It is Renoir’s Rules of the game.[3] One of the many reasons why I praise this film regards Renoir’s mastery of multiplanar composition. Another film that would be in my top five list is Hitchcock’s Vertigo.[4] I admire it for its philosophical insight into the nature of love. It’s a counterexample to the Platonic idea that we love our beloveds because of their properties. Hitchcock illustrates this idea by showing what’s wrong with Jimmy Stewart’s attempt to transfer Madeleine’s properties to Judy. My next choice is Buster Keaton’s The General,[5] which I think is the greatest film in history in terms of giving the audience an understanding of the physical environment and its causal relation to human action. Keaton was a great director as well as a great comedian. My candidate for the greatest horror film ever made, and that’s James Whale’s Bride of Frankenstein[6] for its masterful capability to move back and forth between comedy and horror, thereby underscoring the thin line between the two. The last film on the list is my childhood favorite: King Kong.[7] I’ve seen it at least sixty times. I love the oneiric quality of the stop action animation and the way the film works out visually the parallel narratives of the island and the city.

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Abstract: ITA | ENG

Il contributo propone un’analisi del film di David Grieco La macchinazione (2016) – e in parallelo, soprattutto nella prima parte, del libro omonimo del 2015 – come caso di studio da cui sia possibile evincere, anche attraverso le modalità di costruzione del protagonista della pellicola, aspetti rappresentativi del ‘personaggio’ Pasolini e relativi, in particolare, ai lineamenti del suo volto e alla rappresentazione visiva dell’intellettuale intento a scrivere.

Il contributo propone un’analisi del film di David Grieco La macchinazione (2016) – e in parallelo, soprattutto nella prima parte, del libro omonimo del 2015 – come caso di studio da cui sia possibile evincere, anche attraverso le modalità di costruzione del protagonista della pellicola, aspetti rappresentativi del ‘personaggio’ Pasolini e relativi, in particolare, ai lineamenti del suo volto e alla rappresentazione visiva dell’intellettuale intento a scrivere.

 

Il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini ha confermato la vitalità della fortuna critica di un autore che continua a intercettare il nostro orizzonte d’attesa. Iniziative editoriali, come l’uscita per Garzanti della nuova edizione di Petrolio curata da Maria Careri e Walter Siti, e una quantità estremamente nutrita di studi monografici invitano a riflettere sull’attuale ricezione dell’opera dello scrittore. Ma le iniziative accademiche, gli eventi artistici – tra mostre, spettacoli teatrali, documentari, reading – che hanno costellato la celebrazione dei cento anni dalla nascita del poeta vanno ben oltre la lettura delle dinamiche di appropriazione del macrotesto di un autore da parte di una comunità letteraria: la figura di Pasolini, il suo esistere così fatalmente caratterizzato da un corpo in equilibrio tra arte e vita, si collegano strettamente, infatti, anche all’attrazione esercitata da una personalità ‘magnetica’, ‘eccedente’.

Non è affatto semplice conciliare l’analisi rigorosa di una produzione letteraria – o latamente artistica – con concetti imponderabili quali sono quelli che ruotano intorno alle esperienze personali o al carisma di uno scrittore; tuttavia, il rilievo del profilo pubblico del poeta-regista incoraggia ogni impegno in tal senso, mettendo alla prova sguardi e analisi frequentemente attirati nell’orbita di un fascino, allo stato attuale, inestinguibile.

I tratti peculiari del Pasolini personaggio hanno per altro trovato una loro adeguata contestualizzazione critica nell’ultimo lavoro di Gian Carlo Ferretti. Lo studioso ha puntualmente indagato gli aspetti che hanno contribuito alla nascita e alla definizione dell’immagine pubblica dello scrittore, intrecciando il ricordo di vicende relative alla sua biografia, l’analisi dei testi e le reazioni – spesso, com’è noto, moralistiche e pretestuose – del mondo editoriale, del milieu letterario, delle istituzioni e della stampa. I casi, editoriali e giudiziari, che non di rado hanno accompagnato l’uscita delle opere di Pasolini scorrono in parallelo, nell’indagine di Ferretti, con la messa a fuoco della postura intellettuale del poeta, di quel suo incessante muoversi fra «umiltà e divismo, ostracismi e agiatezze, scandalo sofferto ed esibito, coraggio intellettuale e gusto della provocazione»[1] che ha cooperato, anche a partire dagli stessi interventi dello scrittore, alla costruzione di un’immagine condivisa; un’immagine la cui popolarità è rintracciabile in maniera empirica, oltre che in interessanti affondi critici come quello offerto da Ferretti, all’interno di un vasto e articolato orizzonte espressivo, di cui fanno parte la parola letteraria, il linguaggio figurativo, il mondo dei fumetti, come dimostrano, rispettivamente, i recenti contributi di Elena Porciani, Viviana Triscari, Martina Mengoni.[2]

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Abstract: ITA | ENG

L’amicizia fra Laura Betti e Pier Paolo Pasolini è una delle avventure più toccanti dell’industria culturale italiana. Qui si ripercorrono alcuni dei momenti più intensi del loro rapporto attraverso una fitta serie di documenti della stessa Betti. I frammenti di lettere, interviste e scritti autobiografici confermano la temperatura emotiva di un legame davvero unico.

The friendship between Laura Betti and Pier Paolo Pasolini is one of the most touching adventures of the Italian cultural industry. Here some of the most intense moments of their relationship are retraced through a dense series of documents by Betti herself. The fragments of letters, interviews and autobiographical writings confirm the emotional temperature of a truly unique bond.

 

 

 

Avevo veramente una doppia vita. Ma l’ho avuta sempre. L’ho anche adesso, probabilmente. Avevo questa capacità di amministrare una vita e un’altra vita… Comunque nel rapporto con Pier Paolo questo si poneva: io non rinunciavo ad essere una mascalzona. Avevo bisogno di molte cose, mi piaceva moltissimo la mondanità. Che Pier Paolo detestava.

Laura Betti

 

 

Il profilo artistico e biografico di Laura Betti ruota intorno al rapporto con Pasolini: l’incontro con ‘il veneto’ rappresenta una svolta per la funambolica avventura dell’attrice («Fino ad allora, la mia vita non era stata altro che un’abitudine. Lui è diventato la mia vita»),[1] che da quel momento si voterà a una dedizione fatale, con tratti di «folle ambiguità».[2] La loro ‘relazione’ scardina i presupposti dell’industria culturale italiana, perché non resta confinata al modello-Pigmalione: Betti, pur incarnando fino in fondo il ruolo di «pupattola bionda»,[3] sarà l’artefice prima dell’edificazione della mitografia pasoliniana e si trasformerà pertanto da musa a vestale della memoria e dell’opera dello scrittore-regista.[4] Tale sbilanciamento, frutto di una determinazione assoluta, rende le traiettorie della ‘coppia’ inconsuete per il sistema divistico italiano: nessuna amicizia intellettuale riuscirà a eguagliare il primato di una reciprocità così profonda, nessuna partnership sarà tanto longeva e feconda.

 

 

La dimensione ‘leggendaria’ di questo legame si deve non solo alle aperture mondane dei due, alla loro disinvoltura nel presenziare a festival, cerimonie, kermesse teatrali o cinematografiche, ma anche alla spiccata propensione di Betti per l’affabulazione romanzesca; non c’è intervista, lettera o manifesto in cui lei non chiami in ballo il poeta, un po’ per la curiosità morbosa di giornalisti e paparazzi, un po’ per la necessità di restare attaccata all’ombra dell’amico scomparso («Il passaggio del tempo, soprattutto da quando non c’è Pier Paolo, per me è disperso al vento. Certo, non sono la sua vestale, ma, per me, è ancora l’unica cosa che vale nella vita»).[5] La storia di questo côté affettivo è dunque puntellata di aneddoti, dichiarazioni, invenzioni più o meno audaci, che testimoniano l’intimità e l’ostinazione della ‘giaguara’, il suo essere irrimediabilmente votata a una fedeltà senza misura, e in ultimo la sostanza mitica di un rapporto capace di superare il limite dell’esistenza.

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Nel centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini non si contano le commemorazioni, i convegni, le iniziative editoriali, le retrospettive e gli omaggi d’ogni sorta che hanno voluto così celebrare una delle personalità più importanti e discusse del nostro Novecento, con il rischio di scivolare con troppa facilità nell’odiosa retorica della glorificazione post-mortem. In questo contesto, l’antologia dei testi ‘pasoliniani’ di Goffredo Fofi, edita da La Nave di Teseo[1] con il titolo Per Pasolini (2022), si distingue per il coraggio e l’onestà intellettuale. Non tenta di salire sul carro trionfante degli estimatori postumi, Fofi, ma con lucidità venata di malinconia rivendica le proprie posizioni, che nel corso dei quindici anni in cui si è dispiegata l’attività cinematografica pasoliniana hanno portato i due non poche volte allo scontro: emblematico l’episodio di Piazza del Popolo, che Fofi rievoca con rimorso, in cui senza alcuna remora disse a Pasolini di non stimarlo in quanto diventato, quest’ultimo, «un mercante nel tempio» (p. 49). Un rapporto mai conciliante, perennemente dialettico; due percorsi che in quegli anni tremendi e fibrillanti di attività culturale e intellettuale si sono a più riprese incrociati, intrecciati.

Preceduta da una nota introduttiva di Alberto Anile, e da una accorata introduzione, intitolata ‘Per Pasolini’, scritta dallo stesso Fofi, la raccolta di testi, tra saggi, articoli e recensioni copre sessant’anni di storia individuale e nazionale: da quella prima recensione de Il Vangelo secondo Matteo del 1964 fino ai giorni nostri. Il volume si presenta così nella forma anomala di un diario intimo e personale, in cui il confronto/scontro con Pasolini diventa per il saggista umbro occasione per un’analisi critica a posteriori, di sé in primis, e dell’Italia post-pasoliniana poi. Soggiacente alle riflessioni più recenti è la convinzione che quel che di meglio Pasolini abbia avuto – e abbia ancora oggi – da offrire alla nostra cultura possa venir colto solo da un approccio dialettico, appunto, con lo scrittore e con la sua opera, e non da un’esaltazione sterilmente accondiscendente e appiattente, quale sembra dilagare oggi, catalizzata da un milieu culturale uniformato alla detestata cultura piccolo borghese, capace di appropriarsi, infine, anche dell’araldo anti-borghese per eccellenza:

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«Tutto è santo», declama il saggio Chirone nella Medea di Euripide da cui è tratto l’omonimo film di Pier Paolo Pasolini (1969). Da questa battuta è stato derivato il titolo complessivo delle tre mostre Pier Paolo Pasolini. Tutto è santo, nate dalla collaborazione tra Palazzo delle Esposizioni, Palazzo Barberini e MAXXI di Roma e visitabili da ottobre 2022 a febbraio 2023. Il titolo comune apre a tre diversi sottotitoli che affermano la centralità del corpo, rispettivamente Il corpo poetico, Il corpo veggente e Il corpo politico; per questo verrebbe da pensare che le mostre piuttosto ci dicano che ‘tutto è corpo’.

Sebbene le intenzioni della tripartizione siano chiare – la prima mostra è dedicata al Pasolini autore (letterario, cinematografico, teatrale), la seconda a Pasolini come artista figurativo e la terza alla sua figura di intellettuale militante –, si nutre l’impressione che i discorsi su Pasolini – e quindi anche sul suo corpo – siano impossibili da suddividere in aree tematiche nettamente distinte, e che una riflessione su un certo aspetto si insinui anche là dove non era prevista, ripresentandosi a tradimento in una esposizione piuttosto che in un’altra. Più utile sembra allora proporre un itinerario trasversale rispetto ai tre spazi espositivi, attraverso il quale affrontare alcuni dei materiali inediti e delle feconde questioni che emergono dalla mostra nel suo complesso: il corpo come ‘struttura organica’ e come ‘verbo’.

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Ci sono casi particolari in cui la relazione tra il critico e l’opera di un determinato autore si dispiega nel corso del tempo in «una lunga fedeltà» (come nell’esempio di Contini verso Montale), ovvero essa dà testimonianza di una frequentazione assidua, ininterrotta e soprattutto definita da un atteggiamento di lealtà del primo nei confronti della seconda. Se è vero che il critico sarebbe colui che, ponendosi al servizio dell’opera, sta un passo indietro rispetto ad essa, allora è laddove tale rapporto non si instaura in questi termini che è più probabile rintracciare episodi di tradimento-allontanamento seguiti da altrettanti improvvisi ritorni di fiamma.

Quest’ultimo è certamente il caso di Walter Siti che nell’arco di mezzo secolo ingaggia un vero e proprio agone con la figura di Pasolini: corpo-fantasma che porta il vessillo di un desiderio erotico prima rimosso e poi rimodellato altrove e con altri mezzi. Quindici riprese. Cinquant’anni di studi su Pasolini (Rizzoli, 2022) è infatti, prima di tutto, un ‘corpo a corpo’ tra Siti e Pasolini; così serrato e familiare da far venire il sospetto che la lotta sia di Walter contro Pier Paolo, e che la letteratura, come il ‘sesso’ per il poeta de La solitudine, sia un pretesto, vale a dire il piano assolutamente contingente e necessario in cui ha luogo questo incontro-scontro pugilistico suggerito dal titolo, consumato in quindici stazioni o shots, se si vuole immaginare un Siti che pedina dietro una macchina da presa i movimenti di PPP.

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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →

 

L’opera cinematografica di Pier Paolo Pasolini si serve, fin dai suoi esordi, di una modalità peculiare di scelta e messa in scena delle figure attoriali, usufruendo di una singolare mescolanza tra comparse, non professionisti, amici e intellettuali vicini al regista-scrittore, e attori celebri dello star system italiano e internazionale. Se ai corpi della borgata, agli attori non professionisti e alle figure ricorrenti del suo cinema è stata dedicata una certa attenzione critica, ancora poco indagato è il ruolo di divi e attori professionisti nella sua opera, soprattutto dalla fine degli anni Sessanta in poi (cfr. Rigola 2012-2013). Forse i casi più emblematici riguardano Anna Magnani, Orson Welles e Totò, ma tutto il cinema pasoliniano offre un vero e proprio campionario di attori trasversali utilizzati in ruoli differenti, in veste di protagonisti, comprimari, o come semplici meteore all’interno dei film (da Adriana Asti a Femi Benussi, da Alida Valli a Silvana Mangano, passando per Massimo Girotti, Caterina Boratto, Paolo Bonacelli, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia). Interrogare l’incidenza del professionismo attoriale in Pasolini significa a nostro avviso fare i conti con l’assenza di attorialità, o meglio con la subordinazione degli attori allo spirito pasoliniano che fa da sfondo alle pellicole. Nell’attrito tra l’ideologia dell’autore e la performance depotenziata degli attori professionisti risiede probabilmente un nodo euristico ancora tutto da esplorare.

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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
Abstract: ITA | ENG

Franco Franchi e Ciccio Ingrassia sono stati due personaggi alieni e passeggeri, due presenze fugaci all’interno dell’universo pasoliniano. I due comici e il regista hanno lavorato insieme unicamente per la realizzazione dell’episodio Che cosa sono le nuvole? contenuto all’interno del film Capriccio all’italiana (1968). L’episodio rappresenta ancora oggi un’importante testimonianza che immortala l’unico incontro tra i due comici siciliani e Totò, scomparso a due mesi di distanza dalla fine delle riprese. Franco Franchi, in particolare, è una delle presenze più calzanti all’interno dell’episodio pasoliniano. Celebrazione della marionetta, del corpo forgiato, plasmato e addomesticato, Che cosa sono le nuvole? si adatta infatti perfettamente alla comicità fisica di Franchi, al suo corpo ligneo e di gomma al contempo.  

Franco Franchi and Ciccio Ingrassia were two foreign characters, two fleeting presences within Pasolini's universe. The two comedians and the director worked together solely on the making of the episode Che cosa sono le nuvole? included in the movie Capriccio all'italiana (1968). The episode captures the only meeting between the two Sicilian comedians and Totò, who passed away two months after the end of shooting. Franco Franchi is one of the most fitting presences within the Pasolinian episode. Celebration of the puppet universe, of the forged, shaped and domesticated body, Che cosa sono le nuvole? is in fact perfectly suited to Franchi's physical comedy, to his wooden and plastic body at the same time.

 

Che cosa sono le nuvole? esce in sala nel 1968, a più di un anno dalle riprese, all’interno del film a episodi prodotto da Dino De Laurentiis Capriccio all’italiana. Firmato da Pier Paolo Pasolini, che ne cura la regia e la sceneggiatura, l’episodio nasce in un primo momento come parte di un progetto più complesso e articolato che doveva inizialmente portare un titolo dalla eco baziniana, Che cos’è il cinema?, o un più modesto Smandolinate. Con l’idea di replicare l’unione artistica tra Totò e Ninetto Davoli, già sperimentata con Uccellacci e uccellini (1966), il regista intende realizzare una serie di episodi comici accomunati da quell’«ideologia picaresca, la quale, come tutte le cose di pura vitalità, maschera un’ideologia più profonda, che è l’ideologia della morte» (Fofi, Faldini 1981, p. 400). Il progetto pasoliniano verrà rimodulato e in parte assorbito dalle esigenze produttive di De Laurentiis, che inserisce La terra vista dalla luna (1967) e Che cosa sono le nuvole? all’interno di due film a episodi: rispettivamente Le streghe e Capriccio all’italiana.

Dalla «favola sottoproletaria in chiave chapliniana» (Repetto 1998, p. 93), costola di Uccellacci e uccellini, Totò e Ninetto Davoli vengono catapultati nei panni di due marionette sullo sgangherato palcoscenico dell’Otello shakespeariano. Perfetto connubio tra uno «Stradivari e uno zufoletto» (Spila 1999, p. 61), il duo Totò-Davoli è accompagnato da una schiera di attori che appartiene a pieno titolo ad una koiné pasoliniana allargata: dagli attori Laura Betti, Adriana Asti e Mario Cipriani, fino ad arrivare al già citato poeta e amico Francesco Leonetti e al cantante e attore Domenico Modugno. Accanto a queste figure, che a vario titolo e in differente misura hanno intrecciato i propri percorsi con quello dell’autore friulano, vi sono poi due personaggi alieni e passeggeri, due presenze fugaci all’interno dell’universo pasoliniano: Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. «È come se Franco e Ciccio fossero sempre due pezzenti, due intrusi in una festa che non li riguarda» (Crespi 2016, p. 216), dice Alberto Crespi descrivendo il percorso artistico del celebre duo comico. La festa esclusiva di cui parla Crespi potrebbe essere il cinema italiano degli anni Sessanta, un cinema che deve molto agli esorbitanti incassi ottenuti da Franchi e Ingrassia – tra il 1960 e il 1969 i loro film guadagnano più di 31 miliardi di lire – ma che si è limitato a spremerne la comicità fino a quando quest’ultima ha soddisfatto il grande pubblico.

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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
Abstract: ITA | ENG

Dopo un breve cameo nella Ricotta (1963), a cui prende parte nelle vesti di una diva, Elsa de’ Giorgi connota l’ultima fase del cinema di Pier Paolo Pasolini, in particolare attraverso l’interpretazione di una delle narratrici in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Oltre a fornire una sintetica ricognizione relativa al rapporto tra l’autore e l’attrice-scrittrice, il contributo focalizza l’attenzione sul personaggio della signora Maggi in Salò cercando di cogliere nella performance attoriale di de’ Giorgi, così come nell’orizzonte divistico convocato nel film, esiti e possibili motivazioni legate alle scelte di casting da parte del poeta-regista.

After a cameo role in La ricotta (1963), in which she takes part as a diva, Elsa de’ Giorgi characterizes the last phase of Pier Paolo Pasolini’s cinema, in particular through the interpretation of one of the narrators in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Besides proposing a synthetic insights about the relationship between the author and the actress-writer, the contribution focuses on the character of signora Maggi in Salò, trying to analyze through de’ Giorgi’s acting, as well as the stardom recalled in the film, outcomes and possible motivations related to the poet-director’s casting choices. 

«Restò sempre legato a Elsa De Giorgi […]. A lei, con una divertita soggezione, dedicava – e la cosa durò anni – alcune serate. Andavano a cena fuori: […] Elsa De Giorgi, che amava stendere attorno a sé un qualche alone di spettacolo […], lasciava che alle labbra le venisse, con una foga insolita, certa cultura classica che amava coltivare. Pier Paolo ascoltava» (Siciliano 2005, p. 233): ricordato dalle parole di Enzo Siciliano, il rapporto tra Pier Paolo Pasolini e Elsa de’ Giorgi rientra fra le amicizie instaurate dallo scrittore nella Roma degli anni Cinquanta e Sessanta. Nel 1963 l’autore coinvolge l’attrice-scrittrice nelle riprese della Ricotta assegnandole – e la scelta non appare casuale – il ruolo di una delle dive che, insieme ai paparazzi, irrompono sul set alla fine dell’episodio, ma le relazioni tra il poeta-regista e de’ Giorgi si riflettono, in parte, anche nelle rispettive attività letterarie. Seguendo infatti i rimbalzi suggeriti dalle loro produzioni narrative, poetiche e saggistiche, si scopre che la diva si è rivolta a Pasolini sul finire degli anni Cinquanta per chiedergli di intercedere con Garzanti per la pubblicazione della sua seconda prova narrativa, L’innocenza, poi uscita nel 1960 per una casa editrice veneziana, Sodalizio del Libro; due anni dopo l’autore scrive una prefazione in forma di lettera al testo poetico dell’attrice La mia eternità e, mettendone in evidenza la pregnante metaforicità, rivolge all’opera di de’ Giorgi un’attenzione critica (cfr. Pasolini 2008a). L’artista, dal canto suo, dedica a Pasolini, dopo la sua morte, il poemetto del 1977 Dicevo di te, Pier Paolo.

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