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  • 'Paesaggi di vita'. Mito e racconto nel cinema documentario italiano (1948-1968) →
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L’articolo analizza un corpus di opere documentarie sul Sud Italia fra gli anni Cinquanta e Sessanta – Le portatrici di pietre (Florestano Vancini, 1950), Le donne di Acquafredda (Aldo Vergano, 1957), Donne di Bagnara (Luigi Di Gianni, 1959), l’episodio Braccianti del Sud dell’inchiesta La donna che lavora (Ugo Zatterin e Giovanni Salvi, 1959), Donne di Lucania (Giovanni Vento, 1962) e Tempo di raccolta (Luigi Di Gianni, 1966) dedicato alle raccoglitrici di olive calabresi – in cui è data centralità al lavoro femminile in relazione all’ambiente e alle sue risorse naturali e umane. Le opere restituiscono, attraverso similitudini e differenze di approcci estetici, un comune intento di elaborazione della drammaturgia documentaria in ottica narrativa che mette in luce ritualità e forme di agency reciproca tra società femminile e paesaggio.

The article examines a corpus of documentary works on Southern Italy between the 1950s and 1960s - Le portatrici di pietre (Florestano Vancini, 1950), Le donne di Acquafredda (Aldo Vergano, 1957), Donne di Bagnara (Luigi Di Gianni, 1959), the episode Braccianti del Sud of the investigation La donna che lavora (Ugo Zatterin and Giovanni Salvi, 1959), Donne di Lucania (Giovanni Vento, 1962) and Tempo di raccolta (Luigi Di Gianni, 1966) dedicated to Calabrian olive pickers - in which the centrality is given to women's work in relation to the environment and between natural and human resources. The films reveal, through similarities and differences in aesthetic approaches, a common intent of elaborating documentary dramaturgy from a narrative perspective that highlights rituals and forms of mutual agency between female society and the landscape.

 

 

La paesologia non è altro che il passare del mio corpo nel paesaggio e il passare del paesaggio nel mio corpo. È una disciplina fondata sulla terra e sulla carne. Una forma d’attenzione fluttuante, in cui l’osservatore e l’oggetto dell’osservazione arrivano spesso a cambiare ruolo. Allora è la terra a indagare gli umori di chi la guarda.

La paesologia è semplicemente la scrittura che viene dopo aver bagnato il corpo nella luce di un luogo.

La paesologia è il mio modo di non arrendermi all’universale sfiatamento degli esseri e delle cose. Una forma di resistenza intima, ma non per questo priva di una sua venatura politica.

La paesologia non è la paesanologia, non è idolatria della cultura locale.

Franco Arminio, Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e nei paesi giganti del Sud Italia

 

 

 

 

1. Drammaturgie meridiane del lavoro femminile

Franco Cassano, nel celebre studio sul paesaggio meridiano (2003), ha messo in luce l’importanza di considerare il Sud prima di tutto come un «soggetto del pensiero» autonomo e centrale (p. 3). Basterebbe questo indirizzo per comprendere tanto cinema documentario che fra il 1948 e il 1968 ha tentato di valorizzare alcune figure umane che hanno animato quel mondo. Questa prospettiva, che il sociologo spinge verso la necessità di evitare l’«anomia generalizzata» (p. 5), sembra riassumere l’impegno di un corpus di opere con al centro l’immagine della vita delle donne lavoratrici di alcuni paesi del Meridione fra gli anni Cinquanta e Sessanta: Le portatrici di pietre (Florestano Vancini, 1950), Le donne di Acquafredda (Aldo Vergano, 1957), Donne di Bagnara (Luigi Di Gianni, 1959), l’episodio Braccianti del Sud dell’inchiesta La donna che lavora (Ugo Zatterin e Giovanni Salvi, 1959), Donne di Lucania (Giovanni Vento, 1962) e Tempo di raccolta (Luigi Di Gianni, 1966) dedicato alle raccoglitrici di olive calabresi.

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In che modo il cinema di famiglia contribuisce ad amplificare un immaginario? Se la fotografia ha già documentato le mutate abitudini degli italiani (le relazioni nello spazio pubblico e in quello privato, i riti di passaggio, i momenti di aggregazione identitaria e comunitaria, etc.) ecco che i rituali dell’autorappresentazione sociale, ripresi dall’occhio del cinema amatoriale acquisiscono uno statuto di viva testimonianza e di traccia. L’intervento intende produrre degli esempi in tal senso attraverso un excursus nel cinema di famiglia rivolto al paesaggio del meridione, così come rappresentato all’interno dei fondi di cinema di famiglia dell’Archivio Nazionale dei Film di Famiglia di Bologna.

How does family cinema contribute to amplifying an imaginary? If photography has already documented the changing habits of Italians (relationships in public and private spaces, rites of passage, moments of identity and community gathering, etc.), the rituals of social self-representation captured by the eye of amateur cinema gain the status of living testimony and trace. This essay aims to provide examples in this regard through an excursus into family cinema focused on the landscapes of the South of Italy, as represented within the family cinema collections of the National Family Film Archive in Bologna.

Sono vari gli studi che negli ultimi decenni hanno tentato di definire una specificità dei film di famiglia (Aasman 1995; Odin 2001; Simoni 2007; Sangiovanni 2013; Simoni 2013; Cati 2013), nella cornice del tema che ci si prefigge qui di esplorare, ovvero come questo genere filmico possa contribuire a definire un immaginario del Sud Italia. Ci sono tre aspetti preliminari da sottolineare.

I film di famiglia esistono in copia unica realizzati, cioè, con pellicole invertibili che non necessitano la stampa di copie, pertanto si portano dietro un velo di irripetibilità, un’aura, argomento su cui Paolo Caneppele insiste molto nel suo libro Sguardi privati

Il secondo tratto proprio dei film di famiglia è quello della ‘traccia’ che Caneppele prende in prestito ancora una volta dalle parole di Benjamin: «La traccia è l’apparizione di una vicinanza, per quanto possa essere lontano ciò che essa ha lasciato dietro di sé. L’aura è l’apparizione di una lontananza, per quanto possa essere vicino ciò che essa suscita. Nella traccia noi facciamo nostra la cosa; nell’aura essa si impadronisce di noi» (Benjamin 2000, p. 53). Aura e traccia concorrono a far sì che, mentre rivediamo un Home Movies, il passato ritorni presente evocato dal rituale della fruizione: nonostante quell’epoca non ci appartenga più veniamo chiamati a interagirvi. Tra passato e presente si forma un chiasma, un campo di forze attrattive, lo spazio compreso (o compresso) tra due epoche, tra l’allora e l’ora, che torna a sciogliersi e vibrare, rivelandosi. In che rapporto è preso il racconto del Sud Italia in questa tensione tra differenti temporalità? Come con il cinema di famiglia si plasma, si amplia, si spezza? È un confronto pacifico, conflittuale, apre nuovi orizzonti di ricerca?

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A partire dalle sperimentazioni subacquee della Panaria Film, obiettivo di questa indagine è quello di provare a riflettere sulla ‘non-indifferenza’ degli elementi naturali, ovvero sulla possibilità che possa essere tracciata una reciprocità tra forma del territorio – la sua con-formazione ‘elementare’ – e la materialità dell’immagini cinematografiche. Seguendo i lavori dei ‘ragazzi della Panaria’ – in particolare Cacciatori Sottomarini (1946) e Tonnare (1947) – e del cine-occhio ‘anfibio’ realizzato da Francesco Alliata Principe dei Villafranca, l’analisi interroga le modalità attraverso cui l’elemento acquatico possa essere considerato tanto elemento identitario quanto elemento formale, ossia in grado di dare forma ad un preciso sguardo cinematografico.

Starting from the underwater experiments of Panaria Film, the aim of this research is to reflect on the ‘non-indifference’ of the natural elements, i.e. the possibility of establishing a reciprocity between the form of the territory  ̶ its ‘elemental’ conformation  ̶ and the materiality of cinematic images. Following the works of the ‘Panaria boys’  ̶  in particular Cacciatori Sottomarini (1946) and Tonnara (1947) - and the ‘amphibious’ cinematic eye created by Francesco Alliata, Prince of Villafranca, the analysis explores how the aquatic element can be considered both as an element of identity and as a formal element capable of shaping a specific cinematic gaze.

 

Una volta a Messina c’era una madre che aveva

un figlio a nome Cola che se ne stava a bagno

nel mare mattina e sera.

La madre a chiamarlo dalla riva: «Cola! Cola!

Vieni a terra, che fai? Non sei mica un pesce?»

E lui a nuotare sempre più lontano.

Italo Calvino, Cola Pesce

 

 

 

 

Sul soffitto a volta del Teatro di Messina Vittorio Emanuele II è raffigurata una scena tratta dalla leggenda di Cola Pesce (o Colapesce), il giovane ragazzo ‘mezzo uomo e mezzo pesce’ che venne mandato dal Re a vedere cosa si nascondeva lì dove il mare era più profondo. Dopo aver nuotato attorno alla Sicilia, Cola disse al Re che Messina poggiava su tre colonne, una delle quali, erosa dal fuoco dell’Etna, era in procinto di cedere. Diverse sono le versioni della leggenda, ma tutte hanno un tragico epilogo: Colapesce si immerge un’ultima volta – per recuperare la corona del Re o, nella versione più celebre, per sorreggere la colonna che sta per cedere sotto il peso della città – e non fa più ritorno in superficie.

Commissionato nel 1985 dall’allora consulente del teatro Gioacchino Lanza Tomasi, il maestoso affresco è una delle ultime – nonché più grandi – opere realizzate da Renato Guttuso, e mostra il giovane Cola, attorniato dalle sirene, ritratto nell’attimo che precede la sua immersione nelle acque dello Stretto, a rappresentare il rapporto simbiotico che intercorre tra la Sicilia e il suo mare.

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Numerosi documentaristi del secondo dopoguerra hanno raccontato l’antica pratica della pesca nel Sud Italia. Partendo dai capolavori di Vittorio De Seta girati nelle acque siciliane, questo contributo si sofferma su alcuni esempi che mostrano la crescente attenzione che in quegli anni era rivolta verso il mondo marino e verso la sfida estetica che esso costituiva per la macchina da presa.  

Il nostro corpo scopre un mondo quando accetta di affidarsi senza paura al moto della risacca, quando contemplando il cielo stesi sul mare immergiamo le orecchie nel suo ventre sonoro, accettando di appartenergli con fiducia filiale. In questo esercizio, nella confidenza con la grammatica dell’acqua c’è un’antica saggezza, il suggerimento della possibilità di un altro tempo. Senza l’infinito del mare si va a fondo, risucchiati dal vortice del nostro antropomorfismo (Cassano 2003, p. 17).

Queste parole di Franco Cassano dedicate al pensiero meridiano, un pensiero nato nel Mediterraneo «che si inizia a sentir dentro laddove inizia il mare» (Cassano 2003, p. 5), potrebbero funzionare come perfetto decalogo per un cinema documentario che volesse misurarsi, come ha più volte fatto nel corso del secondo dopoguerra, con il racconto della pesca sopra e sotto la superficie marina. Un invito alla comunione con l’elemento acquatico che negli anni Cinquanta, in una filmografia sterminata che si è occupata della pesca e della cultura del mare (Blasco 1990), si può ritrovare specialmente nei cortometraggi di Vittorio De Seta sui pescatori siciliani.

Fin dal suo esordio con Lu tempu di li pisci spata (1954), e poi nei successivi Isole di fuoco (1954), Contadini del mare (1955) e Pescherecci (1958), De Seta racconta la difficile vita sul mare e una pratica ancestrale come la pesca attraverso la contemplazione e l’ascolto della natura con i suoi ritmi arcaici. Il rischio dell’antropomorfismo paventato da Cassano è aggirato da film che informano senza progettare, e che collocano i soggetti nell’invariabile ciclo dei rapporti con la natura (Bertozzi 2014, p. 157). De Seta sviluppa infatti il racconto attorno a un tempo non umano che scandisce l’esistenza dei pescatori, rispettosi conoscitori della ‘grammatica dell’acqua’; un tempo che è contemporaneamente quello del pesce spada e quello del cinema (sul rapporto tra umano e non umano in De Seta cfr. Alcantara 2023). Lu tempu di li pisci spata è articolato nelle tre fasi dell’attesa, della caccia e del ballo serale, ed è segnato da un crescendo del montaggio che si fa sempre più rapido, a partire dall’avvistamento della preda che spezza la stasi dei rematori fino alla cattura e alle note delle canzoni popolari che rallegrano il termine di una giornata di fatiche [fig. 1]. Una partizione che ritorna in Isole di fuoco, cortometraggio girato a Stromboli dove è l’attesa dell’eruzione a catalizzare l’attenzione e le speranze della comunità marinara.

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L’articolo esplora il ruolo del fuoco come elemento visivo fondamentale per la costruzione di una mitologia dello sviluppo industriale nella cultura visuale dell’Italia del ‘miracolo economico’. Attraverso le sue diverse rappresentazioni si configura infatti un’immagine stabile che sintetizza l’idea di progresso del tempo: la ciminiera che svetta contro il cielo azzurro con una fiamma alla sua sommità, che diventa una vera e propria icona di questo periodo. Partendo dai lavori della Panaria Film realizzati nell’immediato secondo dopoguerra, dove il fuoco è incluso dentro un tempo arcaico e mitico prima di Prometeo, il saggio affronta le trasformazioni di questa icona in alcuni casi di studio esemplari che riguardano sia il nord sia il sud Italia, per analizzare infine alcuni esempi che propongono invece una lettura critica del mito del progresso industriale attraverso un lavoro di decostruzione iconografica del fuoco. Con questo percorso il saggio intende mostrare la rilevanza di una prospettiva elementale per sviluppare un’analisi storico-culturale nella cornice della nuova teoria dei media. 

This paper explores the role of fire as a fundamental visual element for the construction of a mythology of industrial development in the Italian visual culture of the ‘economic miracle’. In fact, through its different representations a stable image is configured that summarizes the idea of progress of the time: the chimney standing out against the blue sky with a red flame at its top, which becomes an icon of this period. Starting from the works of Panaria Film produced immediately after the Second World War, where fire is included in an archaic and mythical time before Prometheus, the essay addresses the transformations of this icon in some exemplary case studies that concern both Northern and Southern Italy, to finally analyse some examples that propose a critical reading of the myth of industrial progress through the iconographic deconstruction of fire. Through these stages, the essay aims to show the relevance of an elemental perspective to develop a historical-cultural analysis in the framework of the new media theory.

3.3. Il mito del fuoco. Media elementali e modernizzazione italiana

di Giacomo Tagliani

Immersa in un paesaggio fuori dal tempo, una ragazza si incammina sulla battigia con un pentolino di coccio e un paio d’uova. Inginocchiatasi in riva al mare, appoggia il tegame sulla sabbia tra i fumi sulfurei che sgorgano dal sottosuolo per cucinarsi un pranzo frugale [fig. 1]. Una languida melodia d’archi lascia improvvisamente il posto all’allegro fraseggio di un flauto suonato da un giovane pastore che ha abbandonato il gregge attratto dalla ragazza. La voce fuori campo, piuttosto parsimoniosa nel concedersi, commenta ora compiaciuta: «Sulla petraia che ribolle e si scuote ardente, terra impastata di fuoco, tra le gialle rovine di montagne esplose, nascono fauneschi amori. È un mondo umano e mitico assieme». La scena è un momento cruciale di Isole di cenere (1947), uno dei cortometraggi prodotti dalla Panaria Film del Principe Francesco Alliata di Villafranca che ritraggono le Isole Eolie nell’immediato secondo dopoguerra: dopo aver mostrato le difficili – ma tutto sommato felici – condizioni sull’isola di Vulcano, questo amore pronto a sbocciare è infatti interrotto dal risveglio dello Stromboli, «furibonda e fiammeggiante montagna», che ricorda come la vita, in questo lembo del Tirreno, sia sempre contigua alla morte.

I film della Panaria non sono certo un caso isolato nel panorama documentaristico italiano per quanto riguarda il racconto di un’Italia dove l’arcaicità sopravvive a fianco del desiderio di modernità, ma qui il richiamo alla dimensione mitologica – anche in termini ironici e caricaturali – ha un peso decisivo nel rappresentare un mondo originario nel cuore del Ventesimo Secolo, anche perché è la Sicilia stessa a riattivare il «tempo divino» dei propri vulcani «nel pieno dell’epoca contemporanea» (Di Girolamo, Rimini 2023, p. 89). Effettivamente, la realtà di cui fa esperienza l’anonima protagonista della storia si riduce a pochi tratti essenziali, il padre, l’umile casa, un solo possibile amore, sino alla scena descritta inizialmente, nella quale il mondo si riduce ai quattro elementi fondamentali: acqua, terra, aria, fuoco. Un fuoco, però, non ancora addomesticato, espressione di una condizione pre-prometeica che la nuova epica della nascente modernità industriale stava per spazzare via, mostrando come sia proprio la sottomissione della materia al volere umano a costituire uno degli aspetti fondamentali di quell’ingente coacervo di trasformazioni sociali e culturali meglio conosciuto come ‘Miracolo economico’ (Palmieri 2019, pp. 120-123). Di fatto, una nuova origine dell’umanità, pienamente conforme alla retorica dello sviluppo, che necessita di mitologie adeguate per poter essere inquadrata dentro schemi di senso comprensibili e condivisi.

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Il cinema di Michelangelo Antonioni è pieno di indagini fallimentari votate alla scomposizione: interminabili e inconcludenti esercizi di blow-up finalizzati all’affermazione del cosiddetto ‘mistero dell’immagine’. E se fosse possibile applicare il blow-up ai paesaggi dei suoi film allo scopo di ridurli allo stato elementare (acqua, aria, terra, fuoco)? Quale elemento risulterebbe predominante? E, soprattutto, in che modo lo sguardo del regista-scrittore-pittore si rapporta al fuoco e, in particolare, al vulcano come ultimo enigma simbolico della dimensione meridiana? Dalle isole vulcaniche di L’avventura alle montagne incantate, passando per i numerosi deserti (realistici, emozionali, metropolitani, industriali) del suo cinema – L’eclisse (1962), Il deserto rosso (1964), Zabriskie Point (1970), Professione: reporter (1974) –, l’obiettivo è quello di rintracciare i segni del fuoco e le loro più significative manifestazioni.

 

 

Questa idea si colloca in un posto imprecisato. Qualsiasi riferimento con la realtà è casuale.

Michelangelo Antonioni

 

Una volta le isole Eolie erano tanti vulcani…

Giulia (Dominique Blanchar), L’avventura (M. Antonioni, 1960)

 

Nel 1966 Michelangelo Antonioni gira Blow-Up, il film che traduce più fedelmente i termini del suo scetticismo nei confronti della realtà. Oltre a comprovare l’irrilevanza narrativa della detection (come topos emblematicamente atopico), l’indagine fallimentare del fotografo protagonista raddoppia a livello del contenuto l’ossessione formale nutrita dell’autore per il cosiddetto ‘mistero dell’immagine’:

 

 

Quello che vi propongo in questa scheda non è altro che un innocente esperimento critico di blow-up, messo in atto nel tentativo di scomporre una porzione di paesaggio rappresentato nel cinema antonioniano fino a ridurlo alla sua dimensione elementare. Qual è l’elemento, in assoluto, più presente?

Essendo il suo sguardo registico contaminato da potentissime infestazioni memoriali, una risposta plausibile potrebbe riguardare la natura selvaggia del Delta (felicemente eternata nel finale di Gente del Po, 1963-67, prim’ancora di diventare prerogativa neorealista per Visconti e Rossellini): le acque del fiume e del mare, fuse in un aggiogante enigma materico, che include anche lo strato uniforme, setoso, del cielo e quello screziato della sabbia [fig. 1]. Acqua, aria e terra, dunque, come elementi riconvocati negli anni da Antonioni in una combinatoria visionaria di climatescapes, tendenzialmente, autunnali, freddi e nebbiosi (Nowell-Smith 2015) – ben poco meridiani, come testimoniano le immagini tratte da film quali Cronaca di un amore (1950), La signora senza camelie (1953), Le amiche (1955), Il grido (1957), La notte (1961), Identificazione di una donna (1982), Al di là delle nuvole (1995).

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Sebbene La Montagne infidèle (1923) nasca come reportage, ci si rende subito conto che più che soddisfare il bisogno d’informazione e di istruzione previsto da questo genere di film, il lavoro di Epstein presenta una portata di valore teorico e non è un caso se di lì a qualche anno il cineasta pubblicherà il fondamentale Il cinematografo visto dall’Etna (1926). Si è qui scelto, in particolare, di strutturare in sette voci la riflessione sul paesaggio che attraversa il film e che si rivela coerente con la visione epsteiniana del rapporto tra il cinema e il mondo naturale poi espressa e sviluppata dal teorico francese negli scritti degli anni successivi. La voce ‘Paesaggio-teoria’ apre la nostra analisi ricordando come per Epstein il concetto di paesaggio conservi una matrice romantica filtrata però dal modernismo degli anni Venti e soprattutto sia connesso alla ricerca fotogenica nelle sue diverse articolazioni. Le altre voci entrano quindi nel dettaglio della fotogenia del paesaggio abbinandolo a termini tematici e formali salienti nel film e nella teoria del cinema di Epstein: ‘Paesaggio-primo piano’, ‘Paesaggio-personaggio’, ‘Personaggio-metamorfosi’, ‘Paesaggio-corpo’, ‘Paesaggio-suono’, ‘Paesaggio-storia’.

Although La Montagne infidèle (1923) was created as a reportage, one soon realises that more than satisfying the need for information and education expected of this kind of film, Epstein’s work has a theoretical value and it is no coincidence that a few years later the filmmaker would publish the seminal The Cinema Seen from Etna (1926). We have chosen here, in particular, to structure in seven headings the reflection on the landscape that runs through the film and which proves to be coherent with the Epsteinian vision of the relationship between cinema and the natural world later expressed and developed by the French theorist in his writings of the following years. The heading ‘Landscape-Theory’ opens our analysis by recalling how for Epstein the concept of landscape has its roots in Romanticism filtered however by the modernism of the 1920s and above all is connected to photogenic research in its various articulations. The other entries then go into detail about the photogénie of the landscape by matching it with thematic and formal issues in Epstein's film and film theory: ‘Landscape-close-up’, ‘Landscape-character’, ‘Landscape-metamorphosis’, ‘Landscape-body’, ‘Landscape-sound’, ‘Landscape-history’.

 

*Il testo è stato concepito congiuntamente dalle due autrici in tutte le sue parti. A fini pratici, Laura Vichi ha redatto le voci numero: 1. Paesaggio-teoria, 2. Paesaggio-primo piano, 6. Paesaggio-suono e 7. Paesaggio-storia. Chiara Tognolotti ha curato le voci numero: 3. Paesaggio-personaggio, 4. Paesaggio-metamorfosi e 5. Paesaggio-corpo. Un caloroso ringraziamento va alla Filmoteca de Catalunya per i fotogrammi de La Montagne infidèle (variante Pathé-KOK).

 

Per me, il luogo per pensare la più amata macchina vivente

fu quella zona di morte quasi assoluta che circondava,

a uno o due chilometri di distanza, i primi crateri.

Jean Epstein

Paesaggio-teoria [fig. 1]

Sin dai suoi primissimi film e scritti, Jean Epstein dedica un’attenzione particolare al paesaggio e al suo trattamento. Il cineasta, mutuando da Blaise Cendrars il concetto di ‘danza del paesaggio’ (Epstein [1921] 2019a, p. 236, traduzione nostra), individua in quest’ultima una soluzione eminentemente cinematografica legata a una visione modernista: il paesaggio, rilavorato dal cinema e reso fotogenico soprattutto grazie al movimento che le riprese e il montaggio gli conferiscono, provoca sensazioni fisiche e associazioni mentali che lo rendono interessante e coinvolgono lo spettatore (Branca, Busni, Vichi 2024). Nello stesso tempo, Epstein recupera la concezione romantica del paesaggio come «stato d’animo» (Epstein [1921] 2000, p. 92) e come proiezione dell’interiorità, integrandola alla visione determinata dal dispositivo cinematografico. In tal modo, l’esperienza romantica del sublime scaturita dall’esperienza dell’eruzione vulcanica diviene, grazie al cinema, un «sublime tecnologico» (Wild 2012, p. 121, traduzione nostra) che può essere visto, nell’unione delle sue componenti oggettiva e soggettiva, come una declinazione della fotogenia. A La Montagne infidèle (1923), che risponde alla richiesta di Pathé di mostrare l’Etna attraverso il cinema, Epstein sovrappone dunque la propria visione e aggiunge una dimensione teorica invertendo i termini della sua missione e firmando l’atto di nascita de Il cinematografo visto dall’Etna.

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Nel film Banditi a Orgosolo (1961), ambientato nel cuore della Sardegna, nel Supramonte in Barbagia, Vittorio De Seta costruisce un racconto in cui i personaggi entrano costantemente in rapporto con l’ambiente circostante creando una interazione intensa che permette l’evolversi della storia narrata. Il paesaggio è inizialmente interlocutore e benevolo compagno di viaggio dei due protagonisti, ma nella seconda parte del film diventa antagonista quando le forze dell’ambiente, secondo un concetto di Deleuze, agiscono su di loro imponendo una reazione che non sarà vincente: la natura del luogo, intesa in senso mitico, ha il sopravvento sul tentativo di sfuggire alla legge dello Stato e a quella non scritta di quel preciso mondo in cui vivono.

In the film Banditi a Orgosolo (1961), set in the heart of Sardinia, in the Supramonte in Barbagia, Vittorio De Seta constructs a tale in which the characters constantly enter into a relationship with their surroundings, creating an intense interaction that allows the narrated story to evolve. The landscape is initially the interlocutor and benevolent travelling companion of the two protagonists, but in the second part of the film it becomes antagonistic at the moment when the forces of the environment, according to a concept by Gilles Deleuze, act on them, imposing a reaction that will not be successful: the nature of the place, understood in a mythical sense, has the upper hand over the attempt to escape the law of the State and the unwritten law of that precise world in which they live.

Sulla vetta di Punta Sulitta i corpi di Michele e di Peppeddu, i protagonisti di Banditi a Orgosolo (1961), si stagliano sul cielo terso e grigio, spruzzato di qualche nuvoletta. Il Supramonte barbaricino è tutto intorno e sullo sfondo il massiccio calcareo del Corrasi, bianco, quasi un deserto, fa pendant con il cielo [fig. 1]. In questo paesaggio immenso è proprio lo spazio aperto, quasi un ossimoro visivo, a segnare confini insuperabili che isolano i due fratelli in una intimità austera. Il tono cinereo, con una dominante grigia dovuta in primis alla pellicola in bianco e nero che non valorizza il consueto splendore del cielo sopra la Sardegna, segna l’atmosfera che regna fra i due fratelli: pacata e allo stesso tempo amara. È uno dei rari momenti di intimità in cui il carattere burbero e schivo di Michele non condiziona il rapporto con il ragazzino. I due parlano fra loro di rapporti familiari, del padre che è morto cadendo in un precipizio molti anni prima mentre seguiva le capre, dell’inscindibile legame che unisce il lavoro con la vita quotidiana tanto da identificare l’uno nell’altra. D’altronde la vita del pastore identificata con il proprio lavoro è un filo rosso che attraversa tutto il film, il mestiere è la natura della propria vita, di padre in figlio senza possibilità di interruzione.

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Il saggio è un tentativo di rileggere in prospettiva ecocritica il cinema di Vittorio De Seta. In questa chiave, i primi documentari realizzati in Sicilia a metà degli anni Cinquanta, anticipano molte riflessioni recenti sulla cosiddetta Antropocene, attorno al rapporto fra uomo e animale, per esempio, e alla tutela dell’ambiente, inteso come sistema di relazioni fra forme di vita differenti.

The essay is an attempt to reread Vittorio De Seta’s cinema from an ecocritical perspective. In this key, the first documentaries made in Sicily in the mid-1950s anticipate many recent reflections on the so-called Anthropocene, around the relationship between humans and animals, for example, and the protection of the environment, understood as a system of relationships between different forms of life.   

Per chiunque si occupi di documentario – da regista o da studioso – il lavoro di Vittorio De Seta rimane, ancora oggi, con ogni evidenza, un punto di riferimento imprescindibile. Nei primi corti degli anni Cinquanta, così come nei film successivi, sono presenti, infatti, già molti degli elementi con i quali il documentario contemporaneo non smette, ancora oggi, di confrontarsi: per esempio, l’idea che del reale esso possa offrire non una semplice documentazione (più o meno neutrale), ma un vero e proprio racconto, a partire dalle storie che è la vita «colta sul fatto» a suggerirci (Vertov 2011).

Prima e meglio di altri, De Seta mostra che questo tipo di narrazione, non diversamente da quelle ‘di finzione’, richiede un ampio lavoro di messa in forma, che i suoi film espongono in modo evidente. Inventando una forma nuova di racconto e rifiutando certi canoni stilistici consolidati (primo fra tutti, l’uso della voce off), De Seta rompe così con una idea di documentario (inteso come mezzo di informazione, utile alla veicolazione di un messaggio, in molti casi propagandistico) che, in Italia almeno, si era consolidata, non a caso, in epoca fascista, a partire dalla fondazione dell’Istituto Luce, e in seguito trasferitasi, senza troppi cambiamenti, nei documentari realizzati nell’immediato dopoguerra. A questo proposito si pensi ai documentari realizzati per un format di successo come «La settimana Incom» che, dopo la guerra, analogamente al passato, anticipavano la proiezione in sala dei film ‘a soggetto’ (Sainati 2001). Se si ha presente la produzione degli anni Cinquanta in Italia, si coglie, senza ombra di dubbio, l’importanza dirompente – sotto molti aspetti – dei primi lavori che De Seta gira in Sicilia, poco più che trentenne.

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