6.3. Il paesaggio lavorativo delle donne nel documentario del Sud Italia (1950-1966)

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  • 'Paesaggi di vita'. Mito e racconto nel cinema documentario italiano (1948-1968) →
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L’articolo analizza un corpus di opere documentarie sul Sud Italia fra gli anni Cinquanta e Sessanta – Le portatrici di pietre (Florestano Vancini, 1950), Le donne di Acquafredda (Aldo Vergano, 1957), Donne di Bagnara (Luigi Di Gianni, 1959), l’episodio Braccianti del Sud dell’inchiesta La donna che lavora (Ugo Zatterin e Giovanni Salvi, 1959), Donne di Lucania (Giovanni Vento, 1962) e Tempo di raccolta (Luigi Di Gianni, 1966) dedicato alle raccoglitrici di olive calabresi – in cui è data centralità al lavoro femminile in relazione all’ambiente e alle sue risorse naturali e umane. Le opere restituiscono, attraverso similitudini e differenze di approcci estetici, un comune intento di elaborazione della drammaturgia documentaria in ottica narrativa che mette in luce ritualità e forme di agency reciproca tra società femminile e paesaggio.

The article examines a corpus of documentary works on Southern Italy between the 1950s and 1960s - Le portatrici di pietre (Florestano Vancini, 1950), Le donne di Acquafredda (Aldo Vergano, 1957), Donne di Bagnara (Luigi Di Gianni, 1959), the episode Braccianti del Sud of the investigation La donna che lavora (Ugo Zatterin and Giovanni Salvi, 1959), Donne di Lucania (Giovanni Vento, 1962) and Tempo di raccolta (Luigi Di Gianni, 1966) dedicated to Calabrian olive pickers - in which the centrality is given to women's work in relation to the environment and between natural and human resources. The films reveal, through similarities and differences in aesthetic approaches, a common intent of elaborating documentary dramaturgy from a narrative perspective that highlights rituals and forms of mutual agency between female society and the landscape.

 

 

La paesologia non è altro che il passare del mio corpo nel paesaggio e il passare del paesaggio nel mio corpo. È una disciplina fondata sulla terra e sulla carne. Una forma d’attenzione fluttuante, in cui l’osservatore e l’oggetto dell’osservazione arrivano spesso a cambiare ruolo. Allora è la terra a indagare gli umori di chi la guarda.

La paesologia è semplicemente la scrittura che viene dopo aver bagnato il corpo nella luce di un luogo.

La paesologia è il mio modo di non arrendermi all’universale sfiatamento degli esseri e delle cose. Una forma di resistenza intima, ma non per questo priva di una sua venatura politica.

La paesologia non è la paesanologia, non è idolatria della cultura locale.

Franco Arminio, Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e nei paesi giganti del Sud Italia

 

 

 

 

1. Drammaturgie meridiane del lavoro femminile

Franco Cassano, nel celebre studio sul paesaggio meridiano (2003), ha messo in luce l’importanza di considerare il Sud prima di tutto come un «soggetto del pensiero» autonomo e centrale (p. 3). Basterebbe questo indirizzo per comprendere tanto cinema documentario che fra il 1948 e il 1968 ha tentato di valorizzare alcune figure umane che hanno animato quel mondo. Questa prospettiva, che il sociologo spinge verso la necessità di evitare l’«anomia generalizzata» (p. 5), sembra riassumere l’impegno di un corpus di opere con al centro l’immagine della vita delle donne lavoratrici di alcuni paesi del Meridione fra gli anni Cinquanta e Sessanta: Le portatrici di pietre (Florestano Vancini, 1950), Le donne di Acquafredda (Aldo Vergano, 1957), Donne di Bagnara (Luigi Di Gianni, 1959), l’episodio Braccianti del Sud dell’inchiesta La donna che lavora (Ugo Zatterin e Giovanni Salvi, 1959), Donne di Lucania (Giovanni Vento, 1962) e Tempo di raccolta (Luigi Di Gianni, 1966) dedicato alle raccoglitrici di olive calabresi.

Il carattere collettivo e situato dei titoli si lega alla peculiarità geoculturale di tali produzioni in cui la centralità delle donne e del loro lavoro tende a superare i confini locali per farsi racconto universale. Sulla stessa lunghezza d’onda si muove il mediometraggio Essere donne del 1965 di Cecilia Mangini, sostenuto da Luciano Lusvardi della sezione Stampa e Propaganda del PCI, ma escluso fra le proiezioni obbligatorie per il carattere ‘politico’ del prodotto (Rogez 2019). Lo stesso vale per la visione istituzionale e ottimisticamente modernizzante delle produzioni INCOM dedicate al tema delle donne lavoratrici (Di Girolamo 2021, p. 158). Le opere qui prese in esame invece – realizzate da figure di formazione umanistica, provenienti dal centro e dal nord Italia e legate a un milieu culturale antifascista, resistenziale e impegnato di sinistra, che hanno mosso i primi passi nel contesto neorealista – sono tutti cortometraggi legati alla formula 10 (a parte il prodotto televisivo): opere brevi, quindi, destinate a essere abbinate ai lungometraggi, frutto di piccole produzioni, realizzate con scarse risorse. Tali film, per le diverse prospettive locali, si inseriscono all’interno del filone di quella produzione documentaria autoriale che ha esplorato il Meridione, in maniera volutamente variegata, anche rispetto alle costruzioni narrative, con un approccio di ricerca di tipo socioantropologico (Palmieri 2019, p. 15).

Realizzate tutte a cavallo fra gli anni Cinquanta e i Sessanta, aggiungono un tassello importante in merito agli scambi tra cinema e donne e integrano così gli studi che dal secondo dopoguerra si sono concentrati sugli effetti della propaganda, il proletariato neorealista, il cinema politico di partito, la commedia, il cinema erotico e quello dei primi collettivi femministi (Casalini 2016). L’articolo mira ad approfondire aspetti specifici del rapporto stretto e multiprospettico che si instaura tra filmografia documentaria, rappresentazione delle donne e ambiente meridionale al di là di quella a soggetto nella fase storica che dal secondo dopoguerra si muove verso la ridefinizione dei ruoli sociali, passando per il rilancio economico del Paese a vari livelli fra Nord e Sud e con differenti modalità tra permanenze del passato, revisioni del presente e spinte verso il cambiamento - già indagata in parte da Di Girolamo (2021).

Ci si concentra qui su come lo status delle figure femminili, il loro lavoro (spesso dal carattere fortemente rituale) e l’insieme di effetti dati dalle loro azioni siano inscindibili dagli specifici paesaggi e luoghi che esse hanno abitato, da cui deriva un impatto, per lo più misconosciuto, sulla modellazione e gestione delle risorse naturali, sociali ed economiche. Il cinema si fa qui protagonista di una ‘scrittura paesologica’, riprendendo l’idea dello scrittore Franco Arminio in epigrafe, che mette in contatto e trasforma reciprocamente ambiente, medium adottato e soggetti/oggetto delle narrazioni, produttori e ‘riceventi’ (Arminio 2011). Tutti i filmati, pur presentando sensibilità, stili e approcci differenti, sono inoltre analizzabili comparativamente per la rielaborazione comune dei modi di vivere delle protagoniste. Ogni opera, in ordine sparso, appare scandita a livello quotidiano dall’attraversamento spaziale e temporale vissuto in alcuni ‘momenti topici’ delle loro esistenze: l’‘uscita di casa’ (fisica e simbolica), le mansioni in specifici luoghi, le pause lavorative, le vie di fuga immaginarie e il rapporto con il ‘ritorno domestico’ (figurato anche questo). Il racconto dei diversi lavori in serie, anche all’interno di un unico film a volte, dà conto già della pratica dell’‘accumulo’ di varie forme di vita auspicato da Cassano (2003, p. 7), con l’obiettivo di dar loro «dignità» (ivi, p. 5).

Ma come si definisce in ogni testo filmico la specificità di questi «paesaggi femminili» (Di Girolamo 2021) a partire dal lavoro delle donne? Ogni produzione cerca di trovare, pur nella similitudine degli oggetti narrati, un’«altra grammatica» – per usare ancora le parole di Cassano (2003, p. 5). Essa si esercita per mezzo della costruzione drammaturgica della narrazione (Hendel 2014), scegliendo il modo di ordinare la materia ripresa, gli obiettivi e il registro che esplora tanto le possibilità del racconto dal vero quanto quelle della finzione. Ciascuna di esse sembra provenire però soprattutto dall’incontro fra le differenti sensibilità registiche e le varie dimensioni locali, costruendo dei percorsi temporali capaci di muovere quelle porzioni di reale verso la visione delle continuità con il passato, di quel presente (senza disprezzo) e delle sue prospettive per il futuro (Cassano 2003, p. 8).

Nei successivi paragrafi proveremo quindi ad analizzare in parallelo alcuni dei momenti, dei luoghi e dei temi comuni a questo corpus, per ripercorrere un paesaggio fisico, professionale e umano allora come adesso poco riconosciuto.

 

2. Viandanze fra paesi di mare e di terra, alti e bassi, vicini e lontani

L’idea di trattare insieme questi filmati nasce dalla necessità di riconoscere a essi la capacità di spostare la nostra attenzione per mezzo delle vite lavorative delle donne del Sud verso la revisione di alcuni ‘centri’ fisici e sociali di quel periodo. L’ipotesi di partenza è che proprio la ‘potenza’ del lavoro femminile, in rapporto al contesto paesaggistico e sociale, risulti in grado di ridefinire l’immagine del loro ‘potere politico’. In ogni luogo, l’attenzione data alle donne, alle loro azioni rituali e ai movimenti attraverso il paesaggio contribuisce a trasformare la ‘centralità’ dell’insieme in maniera anche integrata e plurale. Questi documentari, simili ma anche multiformi, appaiono fondamentali, nonostante la loro marginale perifericità, per la capacità di espandere la molteplicità interna verso altri gruppi e ambienti circostanti. Tale complessità è data quindi tanto dagli spazi fisici in cui agiscono le donne che dalle loro attività, che assumono un ruolo simbolico e valoriale più ampio, soprattutto rispetto al confronto e alla necessità di trovare diversi punti di riorientamento culturale dentro la modernità. Si tratta di un’idea che deriva e viene definita in maniera reciproca da Remotti, Scarduelli, Fabietti proprio nel rapporto che si instaura fra natura, territorio e società (Remotti, Scarduelli, Fabietti 1989, pp. 11-44). Questo sguardo ‘sociopaesaggistico’ può contribuire a rafforzare il ribaltamento dell’idea negativa di confinamento, soprattutto in assenza degli uomini, immobilità e semplice contrapposizione tra figure più o meno convenzionali che può emergere a una prima lettura superficiale, come in parte già evidenziato da Di Girolamo (Ead. 2019, pp. 159-160).

In Le portatrici di pietre (Florestano Vancini, 1950) ̶ poco dopo le prime riprese panoramiche all’alba sul paesaggio del borgo siciliano di origine greca di San Marco d’Alunzio, che si affaccia sulla costa tirrenica, e la partenza dalle proprie case delle protagoniste che via via si riuniscono e passano insieme fra le architetture e i monumenti storici, «la piazzetta e le stradicciole ancora deserte», come accade in altri filmati ̶ il commento parlato di Marco Bernardo collega la natura dell’ambiente alla funzione inedita che le donne rivestono in questa porzione di Sud, punto di riferimento anche in tutte le altre occasioni: «qui la povertà della terra ha fatto rompere il rigore tradizionale delle figlie della Sicilia». Le vediamo nelle riprese in bianco e nero uscire dalle «case che si aggrappano al monte», dove restano solo poche giovanissime, per tenere d’occhio le abitazioni (abbastanza povere) e i bambini troppo piccoli per lavorare, chiudere le porte, chiamarsi, aspettarsi a vicenda e mettersi in cammino. Il gruppo, come in tante delle altre pellicole, si mette in movimento come un corpo compatto. Qui dal paese inizia la discesa verso il «luogo di raccolta, laggiù, sul greto del fiume Rosmarino prima che il torrente raggiunga il mare» dove altre donne provenienti da altri villaggi e borghi, in maniera parallela rispetto alle protagoniste di altri film, giungono per lavorare all’asportazione delle pietre per rendere coltivabile l’area. La calata dall’alto dell’abitato sul monte si traduce in un insieme di immagini che dal limite del suo orizzonte sembra farle disperdere fra cielo, terra e/o mare [tav. 1, fig. 1].

Siamo nel secondo dopoguerra, a ridosso ma in fondo ancora lontani dal boom economico, e la condizione del borgo siciliano animato da poche centinaia di abitanti è lo stesso degli altri centri costieri o rurali meridionali. Come quello di Acquafredda, che per via dell’emigrazione, è diventato quasi un «paese di sole donne». Si tratta di una frazione a nord di Maratea, un alto paese incastonato fra il massiccio della Serra del Tuono, circondato da una fitta vegetazione, affacciato sul golfo di Policastro, e ripreso dalla pellicola a colori di Aldo Vergano. La voce narrante (passando anche qui dal panorama litorale all’abitato) ci informa, sullo sfondo di un pacifico sottofondo sonoro, che è un paese che ama esistere lontano da «occhi indiscreti», che «sembra vivere un clima strano, quasi di leggenda, esclusivamente di ricordi e di speranza». Le donne sono rimaste, infatti – a differenza degli uomini (come in molti degli altri esempi) – ad affrontare la «diuturna lotta con la montagna per strappargli pochi miseri frutti», lavorando in questo caso soprattutto la pianta spontanea dell’alfa per la produzione di crine vegetale. Anche qui è il movimento delle donne a inizio giornata preso singolarmente e collettivamente nello spazio, e della camera al loro seguito, a modellare per lo spettatore la presenza e resistenza delle donne in un ambiente fatto di case povere (una di queste in cui si dà vita a un emporio viene però definita «squallida» dalla voce fuori campo) e di continui sali e scendi in una linea panoramica nei paesi litoranei di tipo verticale fra la terra e il mare [tav. 1, fig. 2]. Molte delle donne di Acquafredda vivono quasi ‘ossessionate’ per il narratore nell’‘attesa del ritorno’, tema che diventa centrale in tutti i film con varie declinazioni, come vedremo più avanti. Attendono tutte i propri uomini lontani per la guerra o l’emigrazione, che in molti casi non faranno mai più rientro perché morti o per essersi rifatti una vita altrove (alimentando il fenomeno delle vedove bianche). Diventa fondamentale però, come emerge soprattutto dalle opere successive, ciò che le donne fanno tra la propria uscita e assenza da casa e il senso del ritorno (o l’aspirazione a farlo), declinato in vari modi. Non è un caso che le Donne di Bagnara (1959) vengano riprese da Luigi Di Gianni a partire dal momento in cui aiutano e vedono andar via al mattino presto gli uomini che vanno in mare, impazienti di avviarsi verso il proprio lavoro (sembra evidente dal primo piano della donna in spiaggia da sola prima che si avvii) [tav. 1, fig. 3]. Il «vuoto» di questo intervallo infatti, come per tutte le altre donne, in realtà è «colmo di fatica», come sottolinea la voce narrante: trasportano le pietre del greto del fiume per il rafforzamento dei muri in costruzione di una diga dopo le frane che hanno colpito il territorio.

L’occupazione femminile di questi anni muove così inaspettatamente intere comunità di donne che si spostano in gruppo, quasi un «esodo», un «pellegrinaggio» quotidiano, com’è definito nell’episodio Braccianti del Sud dell’inchiesta La donna che lavora di Ugo Zatterin e Giovanni Salvi. Sono sempre immagini in movimento di donne immortalate nei ‘campi lunghi’ e ‘lunghissimi’ e nelle tante panoramiche che le vedono spostarsi in linea orizzontale fra le aree rurali [tav. 1, fig. 4]. Alla fine degli anni Cinquanta, però, è la riflessione sulla condizione delle donne come in questa inchiesta (e nelle successive opere) fra il momento della partenza e quello del ‘rincasare’ a essere al centro dell’attenzione. Le donne vanno in squadre (per la raccolta delle olive, il tabacco e la raccolta dell’uva), a volte scalze, spesso lontano dal paese di origine, ricostruendo però in ogni luogo altre comunità tutte al femminile. Il senso di nostalgia, attesa e peso per la fatica, tipicamente orientato solo verso il mondo maschile, si sposta ora sui loro corpi. Le donne lavorano dentro e fuori casa non solo per la mancanza dei mariti o dei padri né solo per necessità. Queste narrazioni valorizzano quella storica e «straordinaria continuità del lavoro femminile, da paese a paese e da epoca a epoca, [che] è uno dei motivi della sua invisibilità» (Miles 2021 [2001], ed. ebook, cap. 7). Il protagonismo è sottolineato via via dall’arricchimento delle riprese in primo piano sul volto, con sguardo in macchina, da sole o in gruppo, fino all’interrogazione delle stesse davanti alla macchina da presa (soprattutto nell’inchiesta televisiva) o la personificazione fittizia, scegliendo di seguire alcune di esse più in dettaglio.

È un paesaggio di donne in cammino che prosegue con costanza: come ci restituisce il suono ripetuto in presa diretta di Donne di Lucania del 1962 di Giovanni Vento [tav. 1, fig. 5], fino alle raccoglitrici di olive di Luigi di Gianni in Tempo di raccolta del 1966. Essi mostrano come nonostante l’avvento della modernità – rappresentata per esempio nel primo dal montaggio in parallelo con le donne più progredite a Potenza o dall’avvento dei trasporti su gomma rispetto all’uso dei muli nel secondo – ci sia stata una grossa fetta della popolazione femminile (di cui i bambini erano un’appendice [tav. 1, fig. 6]), che ha alimentato un lavoro ritenuto spesso «sussidiario» anziché una «risorsa unica».

 

3. Agentività ambientale

Proprio la dimensione delle ‘risorse’ diventa un tema centrale nel rapporto fra donne, lavoro e i vari paesaggi selezionati al Sud, facendo emergere un’azione positiva e negativa al tempo stesso. Il cinema ha raccontato il lavoro femminile in specifici contesti a livello internazionale sin dai primi filmati dei fratelli Lumière (Poli 2019, p. 28). In Italia, prima di queste opere, Cesare Zavattini sembra esser stato un antesignano in alcuni suoi soggetti non realizzati a partire dal 1936, pur non trattando il tema in maniera del tutto specifica (Mareggini 2023, pp. 44-88).

Così, la «conquista di nuova terra fertile per trasformare […una] distesa sassosa in tanti giardini di limoni, aranci, cedri profumati» in Sicilia ripulendo delle aree pietrose il greto di un fiume [tav. 2, fig. 7], il riuso di prodotti autoctoni come il crine ad Acquafredda [tav. 2, fig. 8], o la costruzione di muri tramite le pietre in prossimità di una frana per costruire dei muri contenitori a Bagnara [tav. 2, fig. 9], mettono in evidenza filmicamente una capacità tutta femminile di resistenza e interazione con l’ambiente contro lo spopolamento, l’abbandono, l’emigrazione e l’incuria dando vita a nuovi spazi di economia e industria fatta quasi interamente da donne (come esemplificato anche da Le Braccianti al Sud in diversi ambiti agricoli [tav. 2, fig. 10]). Tali lavori si muovono fra tradizione (come nei tanti lavori ripresi in serie davanti alle case in Lucania [tav. 2, fig. 11]) e innovazione (la donna muratrice in Lucania in un montaggio parallelo con una spaccatrice di pietre [tav. 3, fig. 17]), in condizioni talvolta durissime. Non è un caso che Di Gianni, ancora nel 1966, ci porti con una ripresa soggettiva sul tappeto di olive, unica visione delle donne raccoglitrici di olive in Calabria rivolte per giorni interi con lo sguardo e le mani a terra [tav. 2, fig. 12], momento puntellato dal rallentamento delle musiche del flauto composte da Egisto Macchi.

È la macchina filmica quindi a restituirci la ripetitività lavorativa e gli effetti del movimento dei corpi delle donne in quegli ambienti. Come ha notato Ortoleva, quel poco cinema che si è occupato di rendere visibile il lavoro in età moderna tra antichi mestieri e impiego industriale manifesta l’«affinità elettiva» del mezzo nel mostrare «connessioni e processi», «l’esistenza di un sistema sociale complesso» e il «ritmo» (Ortoleva 2001, p. 41).

In Le portatrici di pietre dal campo lunghissimo delle donne, che al mattino passano anche davanti «la scuola vicina al loro cuore perché costruita pietra su pietra dalle loro braccia» a San Marco D’Alunzio, si passa sul greto del fiume a diverse panoramiche laterali ripetute in maniera sempre più consistente che ricostruiscono il senso del loro moto mentre prendono e portano sul capo le pietre, formando un «cerchio senza fine perpetuo», «che non si arresta», come una «macchina» [tav. 3, fig. 13]. È un susseguirsi di inquadrature che ci mostrano la ripetizione di gesti antichi e nuovi, presenti anche nelle altre opere qui prese in esame. Tecniche simili si registrano nel passaggio dalle riprese in movimento presso il campo e l’azienda agricola [tav. 3, fig.14] fino ai dettagli sulla manualità per la lavorazione del crine in Le donne di Acquafredda. Di Gianni immortala, a partire da una donna incinta, le danze sinuose dei bei corpi delle donne di Bagnara che, issando i vari materiali, si muovono riprese dal basso verso l’alto e viceversa fra i muretti per la costruzione della diga a Bagnara su percussioni velatamente africane [tav. 3, fig. 15]. Possiamo citare anche la continuità dei movimenti delle donne che si piegano sotto il peso della fatica (e dello sguardo maschile in alcuni casi): esemplari quelle delle raccoglitrici di olive in Calabria dello stesso regista [tav. 3, fig. 18].

Queste azioni, che hanno un’incidenza positiva sul territorio – costruendo nuova vita, fabbriche, infrastrutture – portano anche a nuovi spazi inediti per sostenerne le difficili condizioni, come il centro sociale di assistenza sanitaria ripreso in Le braccianti al Sud [tav. 3, fig. 16], che anticipa i dormitori de Le donne in Lucania o l’ospedale da cui parte Di Gianni nel 1966 in Tempo di raccolta.

 

4. ‘Sentimento del ritorno’ fra passato e futuro: spazi, bisogni e desideri

In mezzo ai paesi alti sulle coste, le lunghe distanze coperte fra le aree rurali e l’aridità della natura spesso «scontrosa», «difficile» (come sottolinea la voce fuori campo di Donne di Bagnara), fa irruzione la Storia, accompagnata da un senso del futuro fatto di sogni e aspirazioni, che anche per Cassano erano alla base dell’espressione delle forme di vita (2003, p. 8).

È il caso della linea ferroviaria che diventa a inizio anni Cinquanta una linea sull’orizzonte verso cui «tende col pensiero ogni donna» al lavoro e nei momenti di pausa de Le portatrici di pietre, «ponte di ferro muta testimonianza di un altro mondo» [tav. 4, fig. 19]. La macchina vi si concentra prima di riprendere ancora una volta il movimento in cerchio delle donne. E vi fa ancora una volta ritorno nell’aridità di quell’ambiente alla fine del corto, con lo sguardo da lontano di due amanti all’interno della squadra di lavoro, seduti di fronte a esso, segno di nuova vita [tav. 5, fig. 25].

Una postura di osservazione simile, verso il movimento del treno, ricorre anche nell’attesa dei propri uomini de Le donne di Acquafredda [tav. 4, fig. 20]. Alla fine della giornata di lavoro però, con una posa fiera, palesemente costruita, le donne del paese si recano e formano un fronte comune in spiaggia per rivolgere i propri occhi e il proprio cuore verso un altro ‘orizzonte’ e ‘sentimento del ritorno’: non solo quello della presenza del mondo maschile ma l’attesa di un nuovo giorno come quello appena trascorso in cui poter affermare, come indica la voce fuori campo, che c’è «un paese» [di donne] che esiste: Acquafredda». Le donne che vedremo fra i binari dei treni saranno anche quelle, infatti, che si appropriano di quell’orizzonte in movimento a piedi o caricando i vagoni merci dell’inchiesta di Braccianti del Sud [tav. 4, fig. 22].

Eppure il lavoro e l’azione di custodia, protezione del «vivere e tramandare la vita» come in Donne di Bagnara, continua in parte a essere percepito in questi film come un’attività non riconosciuta. Ciò accade per il continuo confronto con la presenza/assenza maschile, ma soprattutto per l’idea che il lavoro sia un «compito» assegnato dagli uomini. In maniera esemplare rispetto alle altre opere, esse rimangono per esempio in questo film a difesa dell’«opera dell’uomo», del «regno dell’uomo precario» rispetto alla natura. Una resa maschile linguistica che si sovrappone ed entra in contrasto con l’inquadratura delle donne, stanche e sfinite ma vive, in compagnia, durante i momenti di pausa: sedute a terra (come in altre opere) nello stesso ambiente su cui lavorano e incidono [tav. 4, fig. 21].

Ne Le donne di Acquafredda ci si stupisce ancora che alle macchine ci siano «soltanto donne» mentre già nel 1959 in Le Braccianti del Sud esse sono le principali animatrici di tantissime fabbriche rurali. Come dimostra l’inchiesta filmica, le donne provano a muoversi negli stessi spazi per essere riconosciute o affermare il bisogno di una vita fatta anche di evasione: è il caso della sequenza in piazza in cui la sera ci si ritrova per ballare e cantare insieme, prima di un nuovo mattino in cui invece si viene chiamate al lavoro, ripreso nelle scene finali del film [tav. 5, fig. 28].

Negli anni Sessanta intanto fanno la comparsa le prime sacche di modernità anche al Sud, come nei frame rapidi di confronto tra le lavoratrici nelle campagne e quelle del paese ne Le donne di Lucania [tav. 4, fig. 23] o la presenza di macchine per il lavoro come in Tempo di raccolta, che non portano però ancora a una revisione del lavoro femminile (si veda il parallelismo tra le immagini iniziali dello sguardo fra gli ulivi in una soggettiva femminile e quello finale con il braccio meccanico da una soggettiva maschile che scuote l’albero per la caduta delle olive raccolte poi dalle donne) [tav. 4, fig. 24]).

A ‘fine giornata’ il ritorno a casa o il suo desiderio (da sole, vedove o dalla propria famiglia) si trasforma in molti di questi filmati in un momento scandito da varie modalità, accomunate però da un unico senso di fondo. Si presenta spesso l’‘altro lavoro’, quello casalingo, e ciò che resta è solo la stanchezza per dormire «senza incubi» [tav. 5, figg. 27 e 29-30 da Donne di Bagnara e Tempo di raccolta]. Termina un dì per poi ricominciare, a volte con tristezza, per via delle condizioni di lavoro. Negli ultimi anni, a ridosso dei movimenti sessantottini, il ‘ritorno’ delle donne al lavoro da un giorno all’altro viene percepito con ‘amarezza’, come quella delle foglie dell’ulivo nel film di Di Gianni del 1966. Si comincia invece a ‘dare spazio’ e a ‘sentire’ la donna in un altro modo: come ci propone visivamente e musicalmente la sigla che apre e chiude con ‘leggerezza’ l’inchiesta di Braccianti del Sud. Vediamo una donna al rientro a casa in tram, mentre la voce narrante si augura che la società si assuma il compito di garantire che il lavoro femminile non sia soltanto per la lotta quotidiana e che il «loro ritorno a casa non costituisca solo il risveglio troppo breve da un brutto sogno quotidiano».

Questo cinema, pur nella brevità di durata e di visione nelle sale, ha cercato di veicolare e incarnare un sogno diverso, per far sì, come evoca la canzone di Miranda Martino Stasera tornerò, che fosse la donna a essere ‘attesa’ con gioia a casa dall’uomo (e dai figli come suggerisce l’abbraccio con una bambina all’arrivo sotto casa):

 

Signuri
chi lu cori sa guardari
signuri
chi lu cori sa guardari
dammi tu forza
pi ’nnu faticari
 
Stasera tornerò
e là tu m’aspetterai
quest’ansia che ho dentro al cuor
così finirà
il lungo giorno ormai
paura non mi farà
e il paradiso in te
io so ritrovar!
 
Quando uscirò di qui
sarà già spento il sole
la notte mi parrà
più chiara del giorno, perché
a casa tornerò
e là tu m’aspetterai
quest’ansia che ho dentro al cuor
così finirà.

 

 

Bibliografia

F. Arminio, Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e nei paesi giganti del Sud Italia, Milano, Mondadori, 2011.

M. Casalini, Donne e cinema. Immagini del femminile dal fascismo agli anni Settanta, Roma, Viella, 2016.

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L. Di Girolamo, ‘Essere donne a Sud. Paesaggi femminili tra fiction e non-fiction negli anni del miracolo economico (1958-1963), Diacronie, 47, 3, 2021, pp. 148-164.

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A. Poli, ‘Percorso filmografico: le politiche di conciliazione di vita e di lavoro della famiglia’, Rassegna bibliografica infanzia e adolescenza, 2-3, 2019, pp. 25-33.

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M. Palmieri, Profondo Sud. Storia, documentario e Mezzogiorno, Napoli, Liguori, 2019.

Z. Rogez, ‘“Essere donne” di Cecilia Mangini. Storia di un boicottaggio’, cinefiliaritrovata.it, 25 giugno 2019, <https://www.cinefiliaritrovata.it/essere-donne-di-cecilia-mangini-storia-di-un-boicottaggio/> [accessed 8 May 2024].