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L’articolo analizza un corpus di opere documentarie sul Sud Italia fra gli anni Cinquanta e Sessanta – Le portatrici di pietre (Florestano Vancini, 1950), Le donne di Acquafredda (Aldo Vergano, 1957), Donne di Bagnara (Luigi Di Gianni, 1959), l’episodio Braccianti del Sud dell’inchiesta La donna che lavora (Ugo Zatterin e Giovanni Salvi, 1959), Donne di Lucania (Giovanni Vento, 1962) e Tempo di raccolta (Luigi Di Gianni, 1966) dedicato alle raccoglitrici di olive calabresi – in cui è data centralità al lavoro femminile in relazione all’ambiente e alle sue risorse naturali e umane. Le opere restituiscono, attraverso similitudini e differenze di approcci estetici, un comune intento di elaborazione della drammaturgia documentaria in ottica narrativa che mette in luce ritualità e forme di agency reciproca tra società femminile e paesaggio.

The article examines a corpus of documentary works on Southern Italy between the 1950s and 1960s - Le portatrici di pietre (Florestano Vancini, 1950), Le donne di Acquafredda (Aldo Vergano, 1957), Donne di Bagnara (Luigi Di Gianni, 1959), the episode Braccianti del Sud of the investigation La donna che lavora (Ugo Zatterin and Giovanni Salvi, 1959), Donne di Lucania (Giovanni Vento, 1962) and Tempo di raccolta (Luigi Di Gianni, 1966) dedicated to Calabrian olive pickers - in which the centrality is given to women's work in relation to the environment and between natural and human resources. The films reveal, through similarities and differences in aesthetic approaches, a common intent of elaborating documentary dramaturgy from a narrative perspective that highlights rituals and forms of mutual agency between female society and the landscape.

 

 

La paesologia non è altro che il passare del mio corpo nel paesaggio e il passare del paesaggio nel mio corpo. È una disciplina fondata sulla terra e sulla carne. Una forma d’attenzione fluttuante, in cui l’osservatore e l’oggetto dell’osservazione arrivano spesso a cambiare ruolo. Allora è la terra a indagare gli umori di chi la guarda.

La paesologia è semplicemente la scrittura che viene dopo aver bagnato il corpo nella luce di un luogo.

La paesologia è il mio modo di non arrendermi all’universale sfiatamento degli esseri e delle cose. Una forma di resistenza intima, ma non per questo priva di una sua venatura politica.

La paesologia non è la paesanologia, non è idolatria della cultura locale.

Franco Arminio, Terracarne. Viaggio nei paesi invisibili e nei paesi giganti del Sud Italia

 

 

 

 

1. Drammaturgie meridiane del lavoro femminile

Franco Cassano, nel celebre studio sul paesaggio meridiano (2003), ha messo in luce l’importanza di considerare il Sud prima di tutto come un «soggetto del pensiero» autonomo e centrale (p. 3). Basterebbe questo indirizzo per comprendere tanto cinema documentario che fra il 1948 e il 1968 ha tentato di valorizzare alcune figure umane che hanno animato quel mondo. Questa prospettiva, che il sociologo spinge verso la necessità di evitare l’«anomia generalizzata» (p. 5), sembra riassumere l’impegno di un corpus di opere con al centro l’immagine della vita delle donne lavoratrici di alcuni paesi del Meridione fra gli anni Cinquanta e Sessanta: Le portatrici di pietre (Florestano Vancini, 1950), Le donne di Acquafredda (Aldo Vergano, 1957), Donne di Bagnara (Luigi Di Gianni, 1959), l’episodio Braccianti del Sud dell’inchiesta La donna che lavora (Ugo Zatterin e Giovanni Salvi, 1959), Donne di Lucania (Giovanni Vento, 1962) e Tempo di raccolta (Luigi Di Gianni, 1966) dedicato alle raccoglitrici di olive calabresi.

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Dalle indagini antropologiche di Annabella Rossi, selezionando una serie di scatti dal suo corpus fotografico, emergono episodi e rappresentazioni di specifici microcosmi che l’antropologa romana ha saputo raccontare anche per mezzo della sua macchina fotografica. Dentro il campo di tensioni visuali a cui si è sempre esposta, si schiude con pregnante vitalità un universo femminile capace di narrare un misticismo religioso e laico insieme. La donna assurge a soggetto-chiave capace di interpretare, al di là del ruolo di custode del focolare, una dimensione religiosa necessaria per la sopravvivenza sua e della comunità rurale a cui appartiene. La ricostruzione di questa particolare iconosfera, dentro quella che la studiosa definiva una cultura della miseria, mette insieme quindi, una variegata rappresentatività femminile. Dalle immagini delle invasate, mediatrici e garanti del simbolismo magico-rituale e dell’efficacia delle formule di guarigione collettiva, giunge ai ritratti di bambine fotografate durante un pellegrinaggio o un carnevale, dirette discendenti di una religiosità che va sempre più sfumando. Dalle feste religiose, dove le pratiche devozionali ricordano riti rifondati dall’antico, alla vita collettività e al lavoro domestico, il mito e il rito s’incarnano nel femminile scandendo il quotidiano, luogo di un misticismo dentro il quale il ruolo della donna sembra rivalersi dalla società patriarcale.    

Annabella Rossi's anthropological investigations, selecting a series of shots from her photographic corpus, reveal episodes and representations of specific microcosms that the Roman anthropologist has also been able to recount through her camera. Within the field of visual tensions to which she has always exposed herself, a female universe unfolds with pregnant vitality, capable of narrating a religious and secular mysticism at the same time. The woman becomes a key-subject capable of interpreting, beyond the role of guardian of the hearth, a religious dimension necessary for her survival and that of the rural community to which she belongs. The reconstruction of this particular iconosphere, within what the scholar defined as a culture of misery, thus brings together a variegated female representation. From the images of the invaders, mediators and guarantors of magic-ritual symbolism and the efficacy of collective healing formulas, she arrives at portraits of little girls photographed during a pilgrimage or a carnival, direct descendants of a religiosity that is increasingly fading. From religious festivals, where devotional practices recall rituals re-founded from the ancient, to community life and domestic work, myth and ritual are embodied in the feminine, punctuating the everyday, the site of a mysticism within which the role of women seems to be retaliating against patriarchal society.    

 

Lo sguardo dell’antropologa Annabella Rossi (1933-1984) tiene acceso il dibattito sulle scienze umane, l’etnografia e la demologia offrendo spunti di riflessione e prospettive epistemologiche che contemplano anche l’universo delle immagini. Riaprire il caso Rossi, come avviene già da qualche anno, significa, infatti, riconsiderarla nel mestiere di antropologa e fotografa insieme, ricordarla come pioniera tra le studiose italiane nell’utilizzo dei dispositivi visuali durante le sue indagini.

Nelle mani di Annabella Rossi la fotografia – da sempre capace di rafforzare la veridicità scientifica delle indagini antropologiche (Chiozzi 2000, pp. 18-19) – non corrobora solo l’impianto metodologico ma diviene linguaggio indispensabile all’inefficacia delle parole. Se nel ruolo di sceneggiatrice il suo scrivere è stato considerato retorico, come ha dichiarato in un’intervista Luigi Di Gianni, riferendosi alla realizzazione di documentari che portavano la sua firma e la collaborazione della studiosa (Di Gianni 2014), è la stessa Rossi a dichiararsi consapevole di quanto le parole, in forma di ecfrasi e seppur calibrate, siano rese vane davanti alla cultura della miseria, incapaci di esprimere con interezza gli aspetti esistenziali che si manifestano ai suoi occhi. La condizione umana entro cui si immerge e l’impossibilità di raccontarla a parole sembrano obbligare Rossi all’utilizzo della fotografia a tal punto da farne una consuetudine: «mi sono abituata ad usare ‘naturalmente’ la macchina fotografica anche perché, a mio parere, spesso una intera pagina non riesce a documentare, né a trasmettere ciò che può una sola immagine» (Rossi 1971, pp. 26-29). Se l’impronta demartiniana rimane la cifra metodologica riconoscibile all’interno del suo lavoro, è munirsi di un ‘terzo occhio’ che le permette di leggere il senso profondo della realtà, di intuire in primis che è dallo sguardo che l’immagine trae forza e significato. Interposto tra lei e quel mondo, quindi, il dispositivo fotografico diventa un medium che mantiene a debita distanza di sicurezza l’antropologa, pur consentendole allo stesso tempo di avvicinarsi fino ad entrare in contatto con quell’umanità stigmatizzata dal dolore, dalla quale lei stessa non vorrà mai allontanarsi.

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Il saggio esplora il ruolo del cinema amatoriale italiano come testimone e interprete dei cambiamenti socio-culturali del paese, concentrandosi in particolare sul patrimonio audiovisivo privato, conservato presso l’Archivio Nazionale del Film di Famiglia "Home Movies". Attraverso l’analisi di sequenze di film di famiglia, il saggio evidenzia come immagini apparentemente intime e personali acquistino un valore storico e simbolico, offrendo un punto di vista unico sui mutamenti del paesaggio sociale, culturale e territoriale italiano.

The essay explores the role of Italian amateur cinema as a witness and interpreter of the country's socio-cultural changes, focusing on the private audiovisual heritage, preserved at the National Archive of Family Film ‘Home Movies’. Through the analysis of family film sequences, the essay highlights how apparently intimate and personal images acquire a historical and symbolic value, offering a unique point of view on the changes in the Italian social, cultural and territorial landscape.

 

1. I film di famiglia e le mutazioni di metà secolo

È una domenica mattina. Il cartello iniziale, traballante e incerto nei sedici frames per secondo di quella pellicola formato ridotto 9.5mm, messa a dura prova dal tempo, ci rivela il giorno esatto: 27 Febbraio 1955. Una piccola folla, in un bianco e nero un po’ sbiadito, esce fuori dal portale centrale del Santuario della Beata Vergine Maria del Santo Rosario di Pompei. Sono donne e uomini, bambini e anziane, tutti elegantemente vestiti con lunghi cappotti, raffinati copricapo e giacche ben stirate, abbigliamento che denuncia l’inequivocabile appartenenza sociale alla classe borghese. Anche senza l’indicazione del cartello, non sarebbe difficile capire che siamo nel pieno del boom economico italiano, soprattutto dalle immagini che seguono: due uomini, tra quelli che abbiamo visto poco prima, fumano rilassati, davanti a un’auto parcheggiata, nuova di zecca. Aprono il cofano, soddisfatti. Un sacerdote, in paramenti liturgici, è accanto a loro, e tiene in una mano un piccolo breviario, nell’altra, un aspersorio. Coadiuvato da un altro uomo che regge l’acqua benedetta, con sottobraccio un cappello da custode, inizia la benedizione: ma non dei presenti, bensì ̶ sotto lo sguardo curioso di questi ultimi ̶ di tre automobili. Sono le tre ‘caravelle’ che appaiono nel goliardico titolo riportato nel cartello iniziale [fig. 1], insieme alla data: «BENEDIZIONE ALLE TRE CARAVELLE: L’ADRI - LA MERY E LA CACCAVELLA». Un titolo che, nel suo intento dichiaratamente ironico, denuncia un tema che, come vedremo, è in realtà cruciale: l’avvento di una nuova era immortalata dal cinema di famiglia. Questo breve estratto, proveniente dal fondo Longo (HMLONGREN-0009) conservato presso l’Archivio Nazionale del Film di Famiglia Home Movies di Bologna, catturava nelle intenzioni del cineamatore un momento certo importante, degno quantomeno di essere ripreso e conservato, ma afferente alla sfera privata e personale.

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L’articolo analizza il film di Vittorio De Seta I dimenticati del 1959 sulle feste dell'Abete e di Sant’Alessandro in Calabria. L’analisi si focalizza in particolare sul rapporto tra il paesaggio ripreso, le attività rituali e le modalità di ripresa della comunità. La cifra dell’operazione di De Seta risiede nella rivendicazione della ‘dignità della cultura’ attraverso una ‘drammaturgia creativa’ dell’esistenza di un paese del meridione di Italia allora senza strade e lasciato indietro rispetto al miracolo economico.

The article analyses Vittorio De Seta's 1959 film I dimenticati on the festivities of Abete and Sant’Alessandro in Calabria. The analysis focuses in particular on the relationship between the depicted landscape, the ritual activities and the way the community is filmed. The essence of De Seta’s work lies in the claim of the ‘dignity of culture’ through a ‘creative dramaturgy’ of the existence of a town in southern Italy that was then without roads and left behind by the economic miracle.

 

 

Nel 1959 De Seta realizza I dimenticati, cortometraggio che documenta le feste dell’Abete e di Sant’Alessandro con cui Alessandria del Carretto, paese dell’alto Ionio cosentino, celebra l’inizio della primavera (Fofi, Volpi 1999). In una prima fase, un gruppo di abitanti si reca in altura, dove un grosso abete viene abbattuto e trasportato fino al paese, mentre altri approntano cesti di libagioni. Viene poi predisposto un mercato per finanziare la festa del santo attraverso la vendita dei prodotti locali. L’abete viene infine issato nella piazza di fronte alla chiesa e la sua cima addobbata come una cuccagna. Si dà il via a una gara di arrampicata, che vedrà vincitore – come documenta De Seta – chi riuscirà a scalare il tronco fin su in cima. Al termine del rito annuale, la comunità farà ritorno alla vita di ogni giorno.

I dimenticati ha per oggetto la festa, dimensione che spezza l’andamento quotidiano del tempo, sebbene celebri proprio l’operare comune e durevole di una comunità. È infatti la vita collettiva e quotidiana a sostenere il rito, versione drammaturgica di un patto comunitario (Peirano 2000; Turner 1975). La festa afferma dunque una cosmologia e una struttura sociale nel mettere in scena una narrazione: in questo caso, quella della conquista del limen arboreo del mondo naturale, forse il nucleo tematico più evidente de I dimenticati.

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Il presente contributo intende prendere in esame il cinema di Michele Gandin riflettendo sulla dinamica performativa del documentario, tra la rimessa in scena di gesti antichi, solenni, senza tempo, atta a restituire una dimensione astorica e ancestrale al rito, e l’azione pratico-politica tesa a sollecitare e promuovere una presa di coscienza, di emancipazione da parte della popolazione del Sud.

This paper aims to examine Michele Gandin's cinema by reflecting on the performative dynamic of the documentary, between reenacting ancient, solemn, timeless gestures, apt to restore an ahistorical and ancestral dimension to the ritual, and the practical-political action aimed at soliciting and promoting an awareness, emancipation on the part of the population of the South.

 

Dopo aver lavorato come assistente di Vittorio De Sica in Teresa Venerdì (1941) e, l’anno seguente, in Un garibaldino al convento (1942), Michele Gandin nel dopoguerra affianca l’attività documentaristica, concentrandosi prevalentemente sulle classi subalterne, gli emarginati, la comunità contadina e i bambini, a quella di critico cinematografico per il periodico «Cinema» (Gandin, 1950). Nel 1950, sulle pagine della rivista, il regista traccia gli elementi portanti della sua poetica, suggerendo ai lettori di cogliere il lato nascosto della realtà, prima con una macchina fotografica e in seguito con la macchina da presa, il dettaglio e tutto ciò che una visione superficiale non permette di vedere (Antichi 2023). Gandin sostiene che la fotografia sia uno strumento più adatto rispetto al cinema per effettuare una prima indagine del reale, sia perché la fotocamera è «enormemente più maneggevole e più rapida nell’uso, meno visibile», in grado di «poter agire in qualsiasi condizione di spazio e di luce», sia perché, sostituendo una realtà in movimento con una realtà immobile, «permette alla macchina da presa un lavoro di analisi – nell’interno dell’inquadratura – altrimenti impossibile. […] Senza contare che un’immagine – se fermata intelligentemente ad un momento X – ha quasi sempre una capacità rivelatrice molto maggiore della stessa immagine in movimento e permette quindi impensati approfondimenti psicologici e sociali» (Gandin, 1950, p. 153).

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L’opera documentaria di Luigi Di Gianni prende le mosse dalle ricerche dell’etnologo Ernesto De Martino e mostra un notevole interesse per le pratiche magico-religiose, ancora presenti nel Meridione tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Settanta. Magia Lucana (1958), documentario d’esordio, presenta stilemi caratteristici della prima fase della sua produzione, quali il rigore formale delle inquadrature e l’organizzazione ‘registica’ degli eventi, le cui scene vengono rievocate dagli stessi individui che li vivono quotidianamente, quasi come un film di finzione. Il male di San Donato (1965) costituisce una svolta stilistica che segna l’apertura alle riprese ‘frontali’ degli eventi e l’utilizzo del sonoro in presa diretta. All’oggettività della disciplina etnografica, Di Gianni contrappone la poetica della soggettività come parte integrante della realtà catturata dalla macchina da presa. Il suo sguardo autoriale trascende l’impostazione storico-sociale della scuola demartiniana, proponendo una prospettiva diversa sulle pratiche magico-rituali, non più legate a necessità materiali o frutto della superstizione, bensì rifugio da un’angoscia metafisica (che ha legami con la filosofia di Heidegger), un foucaultiano strumento di tecnologia del sé contro l’inquietudine esistenziale, che sembra anticipare le conclusioni ritrovate negli scritti di De Martino, pubblicati postumi.

Luigi Di Gianni’s documentary work takes its cue from the research of ethnologist Ernesto De Martino and demonstrates a notable interest in the magical-religious practices that persisted in Southern Italy between the late 1950s and early 1970s. Magia Lucana (1958), his debut documentary, exemplifies the stylistic hallmarks of the first phase of his production, including the meticulousness of the shots and the ‘directorial’ organization of the events, which are re-enacted by the very individuals who experience them, almost like a fictional film. Il male di San Donato (1965) represents a stylistic turning point that marks the opening to the ‘frontal’ filming of events and the use of live sound. Against the objectivity of ethnographic methodology, Di Gianni counterpoints the poetics of subjectivity as an integral aspect of the reality captured by the camera. His authorial perspective transcends the social-historical approach of the Demartinian school, proposing an alternative view on magical-ritual practices. These are no longer linked to material necessity or the result of superstition. Instead, they offer a refuge from a metaphysical anguish (which has links with Heidegger's philosophy) and can also be seen as a Foucaultian instrument of self-technology against existential uneasiness. This approach seems to anticipate the conclusions found in De Martino’s posthumously published works.

All’interno della cerchia dei registi demartiniani, Luigi Di Gianni si distingue per uno sguardo sulle pratiche magico-rituali derivante da una dimensione filosofica, squisitamente esistenziale, ancor prima che estetica e documentaria. La compresenza di realtà e finzione nelle sue opere non è solo scelta stilistica e simbolica, ma diventa strumento imprescindibile per un’indagine del reale. È su questo terreno ibrido, “onirico” – per citare il suggestivo contributo di Gaudiosi (2023, pp. 39-46) – che il suo cinema percorre sentieri inesplorati, si costituisce come forza rivelatrice del rapporto tra uomo e mondo.

In questa direzione, si è scelto di analizzare alcune sequenze di Magia Lucana (1958) e Il male di San Donato (1965), entrambi incentrati su riti arcaici, episodi di possessione e fascinazione, e segnanti due fasi differenti della sua produzione. Partendo dalla potenza evocativa dei fotogrammi in bianco e nero, si cercherà di mostrare come – nonostante le importanti differenze – i documentari di Di Gianni siano entrati in dialogo con le teorie De Martino e ne abbiano superato l’impostazione storico-sociale, anticipando una concezione metafisica, esistenziale, della ritualità, che emerge negli ultimi scritti dell’etnologo napoletano.

 

1. Magia lucana

Nuvola,

nuvola scura,

ca se venut’à ffa?

Va’ via, vattinne luntano, vattinne a lu bosco.

Ristuccia, ristuccia

Vattinne da chilla parte scura, dove non canta lu gallo

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L’articolo esplora il tema del rapporto fra paesaggi, corpi e azioni nel cinema di Ugo Saitta a partire dall’elaborazione di un insieme di ‘schemi rituali’ della realtà tradotti e restituiti in forma filmica. L’analisi si concentra in particolare sulle retoriche ricorrenti, i punti di vista e le forme che ritornano, ogni volta con un accento differente. Il cinema di Ugo Saitta si presenta come un cinema ‘artigianale’ che con mezzi ridotti ha saputo restituire il sostrato mitico della Sicilia e la sua storia da metà del dalla ricostruzione del Secondo dopoguerra fino agli opulenti anni Ottanta, senza mai trascurare la radice costitutiva dell’isola, fatta di tradizioni e costumi millenari. Un film dopo l’altro, il regista catanese traccia un paesaggio di figure periodiche, una sorta di alfabeto di fatti e situazioni da cui attinge per raccontare ogni volta una storia diversa.L’articolo esplora il tema del rapporto fra paesaggi, corpi e azioni nel cinema di Ugo Saitta a partire dall’elaborazione di un insieme di ‘schemi rituali’ della realtà tradotti e restituiti in forma filmica. L’analisi si concentra in particolare sulle retoriche ricorrenti, i punti di vista e le forme che ritornano, ogni volta con un accento differente. Il cinema di Ugo Saitta si presenta come un cinema ‘artigianale’ che con mezzi ridotti ha saputo restituire il sostrato mitico della Sicilia e la sua storia da metà del dalla ricostruzione del Secondo dopoguerra fino agli opulenti anni Ottanta, senza mai trascurare la radice costitutiva dell’isola, fatta di tradizioni e costumi millenari. Un film dopo l’altro, il regista catanese traccia un paesaggio di figure periodiche, una sorta di alfabeto di fatti e situazioni da cui attinge per raccontare ogni volta una storia diversa.

The article explores the theme of the relationship between landscapes, bodies and actions in Ugo Saitta's cinema, starting from the elaboration of a set of ‘ritual patterns’ of reality translated and recreated in filmic form. The analysis focuses in particular on recurring rhetoric, points of view and forms that return, each time with a different accent. Ugo Saitta's cinema presents itself as a ‘craft’ cinema that, with reduced means, has been able to restore the mythical substratum of Sicily and its history from the post-World War II reconstruction to the opulent 1980s, without ever neglecting the island's constitutive root, made up of millenary traditions and customs. One film after another, the director from Catania traces a landscape of periodic figures, a sort of alphabet of facts and situations from which he draws to tell a different story each time.

 

Corpi che tessono un dialogo vivace con il paesaggio che li circonda: paesaggio fisico, culturale, naturale, antropico o in fieri. È questa l’immagine più ricorrente del cinema di Ugo Saitta, autore che ha raccontato la Sicilia del pieno Novecento, dalla ricostruzione del Secondo dopoguerra fino agli opulenti anni Ottanta, senza mai trascurare la radice costitutiva dell’isola, fatta di tradizioni e costumi millenari. La sua opera conferma quanto il policentrismo delle strutture produttive del cinema italiano (Brunetta 2003, p. 14), attestatosi nel periodo del muto, continui la propria parabola nei decenni successivi, tendendo al contempo verso una koinè nazionale.

Saitta ha avuto con il cinema una relazione simile a quella che lega un artigiano al suo mestiere. Un rapporto fatto di aggiustamenti, di scelte pratiche nella produzione di film per lo più realizzati in un contesto circoscritto e con mezzi limitati, per scopi anche lontani dalla semplice espressione autoriale. Eppure, allo stesso modo di Vittorio De Seta e Giuseppe Alliata, egli è riuscito a restituire il sostrato mitico della sua terra, individuando, grazie alla concretezza del suo approccio al lavoro e alla realtà, una linea di narrazione unica e personale. Senza fermarsi alla bellezza della Trinacria, il regista catanese ha raccontato in che modo l’uomo sia riuscito a rendere contemporaneo l’orizzonte leggendario della più grande isola del Mediterraneo. Ma per farlo ha dovuto costruirsi un vocabolario personale, un frasario chiaro a cui riferirsi, un ‘canovaccio di norme’ che è diventato la sua cifra distintiva.

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Il Purgatorio del Teatro delle Albe (co-produzione Ravenna Festival/Teatro Alighieri e Fondazione Matera-Basilicata 2019) è il secondo ‘pannello’ che compone il ‘polittico’ del Cantiere Dante. Il mastodontico progetto, nato nel 2017 con l’Inferno e che si concluderà nel 2021 con l’intero trittico dantesco, è realizzato grazie alla ‘Chiamata Pubblica’ che ha permesso di coinvolgere, accanto ai componenti della compagnia, più di mille cittadini sia tra gli organizzatori che sulla scena. Questo Purgatorio, in particolare, realizzato come una ‘liturgia della poesia’, sembra configurarsi come la cantica del teatro e dell’arte stessa, nel suo essere ‘cantica del ricominciare’, della creazione dopo lo sprofondamento e il buio. Una risalita che, tra Matera e Ravenna, assume prospettive differenti: fisiche e reali nella prima tappa, dello sguardo e della percezione nella seconda. In entrambi i casi, comunque, una risalita per reinventare l’arte, la vita e la loro inscindibilità.

Teatro delle Albe’s Purgatorio (a co-production of Ravenna Festival/Teatro Alighieri and Fondazione Matera-Basilicata 2019) is the second ‘panel’ of the ‘polyptych’ of the Cantiere Dante. The enormous project, born in 2017 with Inferno and that will be concluded in 2021 with the entire Dante’s triptych, is realized thanks to the ‘Chiamata Pubblica’ which involved, in addition to the members of the company, more than a thousand citizens, both in the organization and on stage. In particular, this Purgatorio, realized as a ‘liturgy of poetry’, seems to represent the cantica of theatre and art itself, in its being the ‘cantica of starting over’, of the creation after sinking and dark. An ascent which assumes, between Matera and Ravenna, different perspectives: physical and real in the first case, ascent of gaze and perception in the second one. In both cases, however, an ascent to reinvent art, life and their inseparability.

1. La fossa, la creazione alchemica e la liturgia della poesia

Si potrebbe partire dalla Ermanna bambina di Miniature campianesi che deve misurarsi con la propria fatica nella creazione collettiva dei cori della scuola e che preferisce, ogni giorno, scavare «un buco nel giardino per ascoltare le voci dal fondo della terra».[1] Si può partire da lì per osservare come quel buco, in tanti anni, sembra non essersi mai chiuso. Come, anzi, tutti questi decenni di lavoro artistico siano stati quasi lo sfiancante sforzo di tenerla spalancata, quella fossa. Tanto che la Ermanna Montanari del 2019 afferma: «Cerco sempre il buco, chiamiamolo così, la fossa invisibile. Poi arrivano gli umani, i corpi e il loro mistero».[2] Fossa come soglia, insomma, come l’unica via d’accesso a un luogo, il più recondito possibile, nel quale poter scagliare il reale per oscurarlo, per acceccarlo. Non per farlo fuori definitivamente, ma per vedere cosa da esso quel buio sappia generare e tornare poi ad affrontare il mondo attraverso quella generazione per oscuramento, attraverso l’arte, il teatro.

Un percorso dantesco, insomma. Scagliare il mondo, la realtà, al centro della terra, come fu per Lucifero, perché quello schianto possa far sorgere, per smottamenti e frane, il monte, l’ascesa di un salvifico percorso da battere, con tutta l’enorme fatica che questo comporta, per giungere alla creazione. «L’arte, alla sua maniera», chiosa Marco Martinelli nel suo ultimo libro, dedicato proprio a Dante, «nasce dalla terra e indica il cielo»[3] e, per questo motivo, è proprio in Purgatorio che vengono collocati, nella quasi totalità, gli artisti presenti nella Commedia.

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Lo spettacolo Kanata-Episode 1. La controverse ha debuttatoil 15 dicembre 2018 alla Cartoucherie, sede storica della compagnia del Théâtre du Soleil; in questa occasione, per la prima volta, Ariane Mnouchkine ha rinunciato alla regia per lasciare la guida della sua compagnia al pluripremiato regista franco-canadese Robert Lepage. Con KanataMnouchkine e Lepage intendono mostrare la condizione attuale degli Indiani del Canada: una comunità sterminata in cinquecento anni di storia coloniale, oggi emarginata nelle riserve, costretta a dipendere da sussidi di Stato e da una coercitiva assimilazione nella società canadese. A partire da una ricognizione storica del fenomeno, il saggio affronta la controversiainternazionale sorta attorno alla scelta dei registi di non portare in scena degli indiani autoctoni, affidando invece a degli attori la rappresentazione delle loro vicende. Tale decisione, infatti, è stata vista dalla comunità delle Prime Nazioni come una forma di ‘appropriazione culturale’; concetto che viene esplorato attraverso la ‘crisi della presenza’ trattata da Ernesto de Martino ne Il mondo magico, e la ‘realtà proxy’, la politica del sostituto, smascherata dall’artista giapponese Hito Steyerl.

The show Kanata - Episode 1. La controversedebuted on December 15 2018 at the Cartoucherie, the historic headquarters of the company Théâtre du Soleil;on this occasion, for the first time, Ariane Mnouchkine gave up directing to leave the leadership of her company to the award-winning french-canadian director Robert Lepage. With KanataMnouchkine and Lepage want to show the current condition of the Indians of Canada: a community exterminated in five hundred years of colonial history, today marginalized in the reserves, forced to depend on state subsidies and a coercive assimilation in Canadian society.Starting from a historical recognition of the phenomenon, the essay deals with the international controvers that arose from the choice of the directors not to bring indigenous Indians to the stage, instead entrusting the representation of their stories to the actors. In fact, this decision was seen by the First Nations community as a form of ‘cultural appropriation’; concept that is explored through the ‘crisis of presence’ treated by Ernesto de Martino in Il mondo magico, and the idea of ‘proxy reality’, of a substitute politician, which has been exposed by the japanese artist Hito Steyerl.

 

1. La controversia teatrale

Al Festival d’Automne di Parigi 2018 Kanata- Episode 1. La controverse è stato sicuramente lo spettacolo più ambito del ricco programma, ma anche il più controverso, tanto che questa parola è diventata parte integrante del titolo per volontà degli autori.

Kanata, che significa ‘villaggio’ nella lingua degli Indiani del Canada (dalla metà degli anni Ottanta chiamati ‘Prime Nazioni’) è andato in scena in una versione ridotta e ancora in forma di ‘prova generale’,[1] il 15 dicembre 2018 alla Cartoucherie, sede storica della compagnia del Théâtre du Soleil. Per la prima volta Ariane Mnouchkine ha rinunciato alla regia per lasciare la guida della sua compagnia al pluripremiato regista franco-canadese Robert Lepage.[2]

Considerata da un lato la composizione multiculturale del Théâtre du Soleil diretto da Ariane Mnouchkine,[3] il suo impegno verso le problematiche sociali degli immigrati e dei sans-papiers, e dall’altro l’attenzione di Robert Lepage verso le minoranze asiatiche in Nordamerica sin dall’epoca de La Trilogia dei dragoni (1989), non stupisce affatto lo sguardo teatrale rivolto dai registi alla ‘visible minority’ delle Prime Nazioni (634 registrate in tutto il Canada, pari al 4% della popolazione, localizzate soprattutto nella zona dell’English Columbia e dell’Ontario). Una comunità sterminata nei cinquecento anni di storia coloniale, oggi emarginata nelle riserve[4] o costretta a dipendere da sussidi di Stato e da una coercitiva assimilazione nella società canadese, attraverso il famigerato sistema delle ‘scuole residenziali’ del XIX secolo che separava i bambini dalle famiglie affidandoli a chiese cristiane. Ai nativi che frequentavano le scuole dei coloni era proibito parlare la loro lingua o mantenere la tradizione della tribù di appartenenza; qui molti giovani avrebbero subito violenze fisiche e sessuali (di questo parla un documentario-verità a firma di Louise Lawless). Solo nel 2008 il governo canadese si è ufficialmente scusato con le vittime di questi abusi e con le loro famiglie.[5]

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