2.2. Rito e comunità ne I dimenticati di Vittorio De Seta (1959)

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  • 'Paesaggi di vita'. Mito e racconto nel cinema documentario italiano (1948-1968) →
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L’articolo analizza il film di Vittorio De Seta I dimenticati del 1959 sulle feste dell'Abete e di Sant’Alessandro in Calabria. L’analisi si focalizza in particolare sul rapporto tra il paesaggio ripreso, le attività rituali e le modalità di ripresa della comunità. La cifra dell’operazione di De Seta risiede nella rivendicazione della ‘dignità della cultura’ attraverso una ‘drammaturgia creativa’ dell’esistenza di un paese del meridione di Italia allora senza strade e lasciato indietro rispetto al miracolo economico.

The article analyses Vittorio De Seta's 1959 film I dimenticati on the festivities of Abete and Sant’Alessandro in Calabria. The analysis focuses in particular on the relationship between the depicted landscape, the ritual activities and the way the community is filmed. The essence of De Seta’s work lies in the claim of the ‘dignity of culture’ through a ‘creative dramaturgy’ of the existence of a town in southern Italy that was then without roads and left behind by the economic miracle.

 

 

Nel 1959 De Seta realizza I dimenticati, cortometraggio che documenta le feste dell’Abete e di Sant’Alessandro con cui Alessandria del Carretto, paese dell’alto Ionio cosentino, celebra l’inizio della primavera (Fofi, Volpi 1999). In una prima fase, un gruppo di abitanti si reca in altura, dove un grosso abete viene abbattuto e trasportato fino al paese, mentre altri approntano cesti di libagioni. Viene poi predisposto un mercato per finanziare la festa del santo attraverso la vendita dei prodotti locali. L’abete viene infine issato nella piazza di fronte alla chiesa e la sua cima addobbata come una cuccagna. Si dà il via a una gara di arrampicata, che vedrà vincitore – come documenta De Seta – chi riuscirà a scalare il tronco fin su in cima. Al termine del rito annuale, la comunità farà ritorno alla vita di ogni giorno.

I dimenticati ha per oggetto la festa, dimensione che spezza l’andamento quotidiano del tempo, sebbene celebri proprio l’operare comune e durevole di una comunità. È infatti la vita collettiva e quotidiana a sostenere il rito, versione drammaturgica di un patto comunitario (Peirano 2000; Turner 1975). La festa afferma dunque una cosmologia e una struttura sociale nel mettere in scena una narrazione: in questo caso, quella della conquista del limen arboreo del mondo naturale, forse il nucleo tematico più evidente de I dimenticati.

Sin dalla didascalia iniziale, il cortometraggio ricorda come ad Alessandria manchino le strade, si debba andare a dorso d’asino: siamo in uno dei ‘mondi perduti’, cronotopi liminali della ricerca di De Seta. Nel seguire la festa l’autore ci presenta un paesaggio che è al contempo pre-culturale e antropico, selvatico e domesticato. È questa messa-in-cultura della natura, nella sua appropriazione da parte della comunità, la forza propulsiva de I dimenticati. Seguiamo inizialmente un gruppo, con gli animali da soma, predisporre la rimozione dell’alto tronco dall’altura boschiva. I soli uomini, poi, trasportano il tronco, in gruppo, verso il paese: lo fanno rotolare a valle, accomoagnandolo nella vertigine della corsa. Lì, le donne, gli anziani, le bambine li attendono sulle stuoie su cui si trovano il formaggio, il vino, il pane, la carne. Il tronco viene poi issato nella piazza del paese. Itifallico nella verticalità, vulvare nella chioma, la sommità agghindata di ciambelle, ghirlande e frutta secca, pare il simbolo di una natura appropriata e governata dalla communitas.

Il récit desetiano sembra rispecchiare un racconto simbolico e un atto sociale della comunità: il tronco sembra simboleggiare le sfide a cui è chiamata la comunità. Il giovane alessandrino che, unico tra i tanti, riesce a scalarlo a mani nude afferma non solo la propria prodezza, ma anche il carattere collaborativo di quella società che, ultimato il rito, tornerà alla vita quotidiana. La pioggia, che accompagna la festa a fasi alterne, pare un monito sulle incessanti offese del mondo naturale. De Seta fa entrare e uscire di scena le intemperie assecondandone la volubilità e lasciando che punteggino alcune delle immagini più marcatamente icastiche del cortometraggio. L’acqua inzuppa la terra calcata dagli zoccoli degli asini, rendendo scivoloso il selciato ingovernabile su cui gli equini, curvi sotto la soma, sgambettano cauti sotto la briglia [fig. 1]. Un ampio rigagnolo invade il paese, mentre nelle abitazioni viene cagliato il formaggio e si preparano le ciambelle di pane e i dolci che allieteranno la festa [fig. 2]. La pioggia, però, risparmia gli alessandrini nel saliscendi del tronco tra bosco e paese [fig. 3]; non intacca le cuddjure di pane e il vino, il formaggio e le salsicce consumate da donne e uomini, anziani e infanti nelle radure e nel paese in festa [figg. 4-5]. La banda del paese, armata di ombrelli, non si salva dall’acqua [fig. 6], mentre altri, non domi, issano il tronco con pesanti blocchi di pietra al ritmo dei tamburi che scandiscono le melodie della festa [fig. 7]. La pioggia infine si dissipa, quasi per capriccio, quasi per non volere baciare il vincitore della scalata, che celebra l’impresa lasciandosi ciondolare sulla vetta mentre riceve il plauso della piazza [fig. 8].

Nel complesso, alternando scorci e volti, campi medi e ravvicinati, e ricostruendo sempre i suoni d’ambiente, della natura e delle musiche delle feste (Catanese 2016) ̶ zoccoli e sonagli degli animali, il taglio del tronco, i canti e gli strepiti durante il trasporto il vociare del mercato, la banda nella piazza del paese ̶ De Seta mette in scena un paesaggio che trae senso dalla sua relazione con la comunità. È questo un paesaggio come «forma di vita» (Bertozzi 2021), vita che De Seta restituisce allo sguardo nella sua attenzione viva per le forme rituali e comunitarie, in anni in cui l’antropologia e aree della letteratura, della poesia e del cinema dell’epoca esperiscono quasi come intenti a un salvataggio (Guerra 2010, pp. 180-183). In questo caso, e ciò è cruciale, il paesaggio sottende a una comunità che un agente implicito della narrazione – la storia – ha temporaneamente ‘scordato’ di cancellare. Ciò che per il paese è espressione di vita comunitaria, per gli intellettuali dell’epoca è infatti un mondo perduto che sopravvive in isolate sacche della penisola. Lì, il progresso non ha ancora portato i suoi benefici: sollevare dalle fatiche manuali, illuminare la notte, riavvicinare una nazione che si incontra, viaggia, si ammoderna. Ma il temuto dazio del progresso è l’oblio di una cultura, di pratiche, poetiche e cosmologie antiche, minacciate dalla modernità dello sviluppo «senza progresso» (Pasolini [1975] 2011).

È in questo senso che lo sguardo estetico e poetico de I dimenticati offre una messa in scena della ritualità tradizionale in cui si esprime un senso antropico della comunità. Nel cortometraggio, raggruppato nella ‘Formula dieci’, anche se si presenta inizialmente con una durata di venti minuti, poi sedici nella versione restaurata (Fofi, Volpi 1999), si assiste a una terra degli ultimi, sottratti al progresso, ma anche degli ultimi a vivere un mondo che ci si affretta a documentare. Nella sua drammaturgia creativa sopravvivono frammenti di pratiche quotidiane delle classi popolari, del lavoro e delle divisioni di genere, dell’organizzazione sociale e zoo-antropica, che sarebbero stati presto spazzati via dalla modernità e dallo spopolamento (Barberis 1961). Alle migrazioni De Seta qui non accenna, ma se in Isole di fuoco (1954) si leggeva che «gli uomini abbandonano le isole» e «migrano verso altri continenti» (Fofi, Volpi 1999), I dimenticati mostra ciò che la migrazione minaccia di sgretolare.

La posta in gioco del rito non è, del resto, solo il suo contenuto simbolico, vale a dire l’affermazione dell’umano sul mondo naturale, ma la vita che mette in scena, la struttura sociale che lo produce e di cui esso afferma l’esistenza. La cifra dell’operazione di De Seta risiede nella rivendicazione della dignità di questa esistenza. Alessandria è, sì, uno di quei paesi senza strade, lasciati indietro dal miracolo economico. Pur tuttavia, questa è una comunità, di cui viene messa in scena la dignità della cultura. I dimenticati presenta così una critica – che si può credere più o meno conscia e intenzionale – ai pregiudizi mediterraneisti che presentano il Meridione (e in generale l’Europa meridionale) come terra popolata di genti incapaci di pervenire a un progresso collettivo: per l’Europa continentale, che si crede progredita e razionale, il Sud appare infatti irreparabilmente condannato all’arretratezza (Alcaro 1999). Nel 1958, queste idee si erano cristallizzate nel concetto di «familismo amorale», una formula con cui il sociologo statunitense Edward Banfield spiegò l’arretratezza del Sud come una disfunzione sociale, causata dagli interessi particolaristici delle famiglie nucleari, incapaci, ai suoi occhi, di collaborare per perseguire il bene della collettività (Banfield 1958). Per le scienze sociali atlantiche e nord-europee del periodo, tale incapacità avrebbe fatto capo a un radicato ethos (e, inconfessatamente, a una predisposizione ‘naturale’) dei popoli del Meridione. De Seta pare mettere costantemente in crisi questa narrazione, mostrando la partecipazione di una comunità a un rito che è simbolicamente e funzionalmente dipendente dalla sua coesione. Possiamo infatti riflettere, seguendo il sociologo francese Émile Durkheim, su come sia proprio attraverso atti sociali e di azione comune che una società si dà a sé stessa (Durkheim 1965); in questa ottica, il rito non è solo un sistema di segni, ma un insieme di mezzi e azioni che concorrono tanto alla messa in scena di una storia quanto al rinsaldo di una comunità intorno ad obiettivi comuni.

Quello di De Seta, certo, non è uno sguardo strettamente e formalmente correlabile né alla urgent anthropology dell’epoca né alla riflessione sociologica: il regista vuole conoscere e raccontare artisticamente e liberamente (Guerra 2010, p. 181). Della comunità non osserviamo contraddizioni, bensì la sua drammaturgia creativa. De Seta è un intellettuale illuminato e resta lontano dal vissuto delle classi popolari (Fofi, Volpi 1999). La sua visione dei fenomeni è perlopiù destoricizzata: in essa, il presente collassa sull’antico (Gallini 1981). Pur tuttavia, in De Seta risuonano un interesse per il mondo popolare e il Meridione; la lezione demartiniana sulla dignità delle culture subalterne (De Martino [1975] 2019); un tentativo di immersione nella comunità, di sceneggiatura dal basso, di restituzione di una voce. Nel suo «tenace, disperato aggrapparsi a una civiltà perduta» (Nappi 2016, p. 11), De Seta addita una nazionalizzazione che dimentica e, al contempo, inferiorizza le diversità locali (Feltrinelli 2009).

I dimenticati resta dunque uno spaccato di frammenti preziosi di una festa che, in quanto rito, presenta specifici caratteri cosmologici e performativi (Tambiah 1985). Film e regista entreranno a far parte di tale ciclo rituale. Quando De Seta continuerà a condannare il Sud deturpato da predazione edilizia e mafie, dallo spopolamento e dai pregiudizi, lo farà spesso a partire dalla Calabria, terra di un suo nostos personale ed ancestrale. Nel 2009, la comunità di Alessandria ha canonizzato I dimenticati, proiettandolo nella Chiesa Madre alla presenza del regista. Gli alessandrini hanno anche reso il regista cittadino onorario di una terra di cui si è fatto «felice interprete», immortalando «la Terra Madre nella sua operosa bellezza» e la storia di quella comunità (Comune di Alessandria, s.d.).

 

Bibliografia

M. Alcaro, Sull’identità meridionale: forme di una cultura mediterranea, Torino, Bollati Boringhieri, 1999.

E. Banfield, Amoral Familism: The Moral Basis of a Backward Society, New York, Free Press, 1958.

C. Barberis, Le migrazioni rurali in Italia, Milano, Feltrinelli, 1961.

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E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali [1977], a cura di G. Charuty, D. Fabre e M. Massenzio, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2019.

E. Durkeim, The Elementary Forms of the Religious Life, New York, The Free Press, 1965.

Feltrinelli, ‘Vittorio De Seta e Goffredo Fofi: "Il mondo perduto”’, 2009, https://www.youtube.com/watch?v=EbhTegy4kko&list=PL3C65E2C22C00FB42&index=11> [accessed 15 July 2024] .

G. Fofi, G. Volpi, Vittorio De Seta: Il mondo perduto, Torino, Lindau, 1999.

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M. Guerra, Gli ultimi fuochi. Cinema italiano e mondo contadino dal fascismo agli anni Settanta, Milano, Bulzoni, 2010, pp. 180-183.

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P.P. Pasolini, Scritti corsari [1975], Milano, Garzanti, 2011.

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S.J. Tambiah, Culture, Thought, and Social Action. An Anthropological Perspective. Cambridge, Harvard University Press, 1985.

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