«Spesso mi succede di mettere in scena cose che non conosco con il solo scopo di conoscerle»[1], appunta Luca Ronconi a proposito della sua pluriennale esperienza nel dirigere opere di teatro antico. L’affermazione può essere interpretata in un duplice senso: da un lato il regista denuncia l’impossibilità di comprendere fino in fondo le istanze di un testo così lontano nel tempo e nello spazio; dall’altro mette in luce come la regia sia di per sé uno strumento conoscitivo, che costringe chi la pratica a confrontarsi con i nodi e le questioni irrisolte della drammaturgia originaria. Tanto più l’accesso all’opera risulta impervio, dunque, quanto più il regista è chiamato a prendere importanti decisioni interpretative.
Il Prometeo Incatenato pone al lettore problemi ermeneutici di differente natura, alcuni dei quali sono menzionati o affrontati nelle pagine di questo numero. Ma se si legge la tragedia in una prospettiva squisitamente teatrale, appare chiaro che il testo costituisce una sfida non trascurabile anche per la regia: l’ingresso del protagonista, l’atto di forza con cui viene legato a una roccia, la sua conseguente immobilità sono solo alcune delle concrete difficoltà poste dalla drammaturgia.
Gli studi sulla rappresentazione antica hanno avanzato, in mancanza di dati certi, diverse ipotesi sulla realizzazione e la natura della rupe in scena (forse un pannello ligneo dipinto; forse l’utilizzo di un declivio naturale; forse la piattaforma innalzata del theologeion)[2]; «tutto può essere, o quasi tutto», chiosa con ironia Federico Condello, «e il dibattito minaccia di non cessare mai».[3]