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Edipo re, una favola nera, in scena al Teatro Elfo Puccini nel marzo 2022, è uno spettacolo che vuole porre l’attenzione sulla rilettura del mito di Edipo con una sfumatura fiabesca e dark. Dalla drammaturgia alla messa in scena del testo, dalle musiche alla scenografia, tutto porta alla creazione di una costellazione sempre più ampia ed esplicativa che permette di decifrare questo mito in chiave contemporanea. Lo scopo che lo spettacolo si prefigge è quello di riflettere sull’archetipo della figura di Edipo e di proporlo al pubblico trasformato e arricchito da tutta la letteratura che questo testo ha ispirato. In particolare, il saggio analizza alcune scene dell’opera e i dispositivi scenici, prestando particolare attenzione al filo conduttore del destino che attraversa l’intera vicenda. 

Edipo re, una favola nera, a play staged at the Teatro Elfo Puccini in March 2022, focuses on a reinterpretation of the Oedipus myth in a dark, fairy-tale key. From the dramaturgy to the staging of the text, from the music to the set design, everything leads to the creation of a broader, more complete and explanatory constellation that allows this myth to be deciphered in a contemporary key. The aim of this performance is to reflect on the archetype of the Oedipus myth and to propose it to the audience under a new key. In particular, this text analyses several scenes from the opera paying particular attention to the common thread of Edipo’s fate that runs through the whole story. 

1. La fiaba nel mito

Tra le produzioni del 2022 il Teatro Elfo Puccini di Milano annovera lo spettacolo Edipo re, una favola nera, andato in scena in prima nazionale il 15 marzo 2022, presso la sala Shakespeare. La regia e l’adattamento del mito, firmati da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, intendono proporre una lettura in chiave contemporanea dell’Edipo re di Sofocle. L’aggiunta di «una favola nera» al titolo, infatti, annuncia un nuovo e diverso punto di vista sulla nota tragedia ed è l’idea centrale da cui affrontare l’analisi di questo spettacolo. Il sottotitolo denuncia, infatti, l’operazione artistica alla base dello spettacolo e va analizzato nei dettagli: il termine ‘favola’ rimanda all’antico genere esopiano, ma la struttura che emerge dal percorso di ripensamento e di montaggio è piuttosto quella tipica della fiaba. L’interferenza tra i due generi probabilmente è dovuta al fatto che c’è un rimando alla favola esopiana, ma la narrazione è assimilabile alla fiaba magica studiata da Propp, poiché l’andamento della storia di Edipo diventa quello del bambino, trovatello, che lentamente va incontro al suo destino affrontando una serie di prove. La conversione del mito in fiaba rispecchia l’idea di teatro dei due registi, cioè quella di narrare storie che possano arrivare al pubblico suscitando domande sul mondo contemporaneo, invitando a un’interrogazione non sul punto di partenza, ma su quello d’arrivo. Trasformare il mito in ‘favola’ implica trasporre una storia adattandola al linguaggio teatrale dell’epoca che lo fruisce; questo processo permette di rendere le tematiche più vicine al pubblico di oggi e di far emergere le relazioni tra il mondo antico e quello attuale, coinvolgendo gli spettatori in un percorso di riflessione e confronto. Il mito, quindi, diventa specchio per analizzare le dinamiche sociali, le ingiustizie, i conflitti o le problematiche di ieri e di oggi, ma riuscendo a mantenere una distanza critica, dal momento che la narrazione, travestita da fiaba, assume l’aspetto di un racconto solo apparentemente non contemporaneo.

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Irina Komissarova is a young Moscow-born stage designer who has lived in Lithuania for many years. From 2017 to 2020, she worked with award-winning director Oskaras Koršunovas, founder in 1998 of the Oskara Koršunovo Teatras (OKT) Vilnius and considered the heir to the great pillar of Lithuanian theatre, Eimuntas Nekrošius. She was struck by his scrupulous work on the text and ability to directly extract scenographic elements from it. Thus, having noticed that Koršunovas did not have a permanent set designer while working with the same composers, choreographers, and light artists, she proposed herself for the role.

Koršunovas’ method for creating the scenes, as Komissarova says, is that of a «universal Meccano»: he starts with a first basic element, which he identifies before letting the set designer access the material to enrich it. For the collaborator, this is a real «leap into the void» because, after an initial approach of clarification with the director, they are alone and have the reins of the visual project, all the responsibility for the scene, and must make decisions.

Komissarova collaborated with Koršunovas on Russian Novel (2018) based on the play by Marius Ivaškevičius, one of Lithuania’s leading contemporary playwrights. The play dwells on the story and last months of life of a world famous Russian novelist Lev Tolstoy (1828-1910). In the centre of the play is writer’s wife Sofia Andrejevna, her fate and life upon turning into the wife of a world-class genius. This is also Koršunovas’ first production to include a video projection conceived as a space continue by a set designer. 

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Mettere in scena la tragedie di Pasolini è un’operazione da far tremare i polsi; lo dimostra l’esiguità di regie tratte dal Teatro di Parola in un contesto, come quello del centenario dell’autore ormai alle ultime battute, che ha visto una fioritura di convegni, mostre, iniziative, e anche spettacoli teatrali – tra cui è da ricordare Questo è il tempo in cui aspetto la grazia, biografia poetica di PPP ad opera di Fabio Condemi e Gabriele Portoghese.[1] Se poche e pochi hanno avuto il coraggio di attraversare il corpus pasoliniano lungo questa direttrice, è quindi particolarmente meritorio il programma Come devi immaginarmi / Progetto Pasolini, curato dal direttore di Emilia Romagna Teatro Valter Malosti insieme a Giovanni Agosti, che ha commissionato allestimenti di tutti i testi teatrali di Pasolini, ideati nel 1966 (durante un grave attacco di ulcera): prima di Pilade, in scena dal 16 al 19 febbraio 2023, ha aperto il ciclo il Calderón diretto da Fabio Condemi; seguiranno Bestia da stile diretto da Stanislas Nordey, Orgia di Federica Rosellini e Gabriele Portoghese, Porcile a cura di Michela Lucenti e Balletto Civile insieme alla compagnia Arte e Salute di Nanni Garella, e Affabulazione di Marco Lorenzi. Un parterre di artiste e artisti diversamente ‘giovani’ (in un paese dove la gioventù artistica è una condanna che affligge ben oltre il mezzo del cammin dantesco) alle prese con una forma, la performance dal vivo, in cui la tendenza alla museificazione può avere effetti devastanti, e la contaminazione con il tempo presente è una necessità imprescindibile.

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In occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini (Bologna, 1922 – Roma, 1975), il direttore di ERT Valter Malosti ha ideato insieme a Giovanni Agosti, storico dell’arte e docente presso l’Università Statale di Milano, il progetto intitolato Come devi immaginarmi per la stagione teatrale 2022/2023 con il proposito di sondare come le nuove generazioni riescono ancora ad ‘immaginare’ l’opera di Pasolini. Infatti, il titolo dell’intero progetto è tratto da quella sorta di trattatello pedagogico che è la sezione ‘Gennariello’ delle Lettere luterane, la raccolta di saggi pubblicata postuma nel 1976. L’ambizioso obiettivo del progetto è stimolare un confronto diretto con il teatro di Pasolini, evitando di ricalcare le categorie critiche già stabilite e promuovendo interpretazioni innovative e originali. È la prima volta che in una sola stagione teatrale viene messo in scena l’intero corpus dei sei testi teatrali pasoliniani (grazie all’autorizzazione concessa da Graziella Chiarcossi), scritti tutti, com’è noto, nel giro di pochi mesi nella primavera del 1966 durante la convalescenza per una dolorosa ulcera allo stomaco, sebbene alcuni rielaborati in seguito.

L’aspetto ancora più rilevante di Come devi immaginarmi, tuttavia, è il fatto che le registe e i registi coinvolti, perlopiù giovani, siano stati invitati a rielaborare il teatro di parola pasoliniano attraverso nuove sperimentazioni espressive che consentano di avvicinarlo alla sensibilità contemporanea, ben diversa da quella della platea borghese degli anni Sessanta (qui la programmazione completa). Si tratta di un progetto volto non solo a far conoscere ad un pubblico giovane l’opera teatrale di Pasolini – di ardua ricezione allora come oggi – ma soprattutto a verificare la tenuta della lezione etica della parola pasoliniana attraverso le rielaborazioni proposte da compagnie molto diverse tra loro, che portano sulla scena istanze artistiche assai disomogenee. Si coglie un esplicito intento pedagogico da parte degli ideatori del progetto, proprio sulle orme del Pasolini ‘luterano’ che si rivolge a un ragazzino partenopeo, Gennariello, nella speranza di trasmettergli la stessa viscerale passione con la quale egli ha tentato strenuamente di mantenere viva la forza autentica della tradizione popolare difendendola dall’aggressione dell’omologazione neocapitalista.

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Ci sono due Pasolini, sostiene Ascanio Celestini in una recente intervista:[1] quello che è stato ammazzato nel ’75, e che fino a quella data ha continuato a esprimersi pubblicamente; poi c’è un secondo Pasolini, con tutto quello che gli facciamo dire noi dal ’75 in avanti. È questo ‘secondo Pasolini’ che il centro universitario DAMSLab – La Soffitta di Bologna, incardinato nel Dipartimento delle Arti, ha convocato lungo il corso del centenario del 2022, attraverso una teoria di eventi multidisciplinari come è sua consuetudine (convegni, incontri, proiezioni, letture, spettacoli fra cinema, arti visive, sociologia, teatro). In questo contributo ci occupiamo, scendendo a ritroso dalla più recente a quella che ha aperto l’anno, di alcune proposte teatrali che sono state capaci di ampliare la portata del ‘secondo Pasolini’ con il precipuo obiettivo di riportare nel presente qualcosa del ‘primo’, pensando in particolare a chi oggi sta crescendo e studiando.

Nella parte finale del 2022 si sono svolti alcuni importanti convegni, come P.P.P. in danza, sull’eredità vivente di Pasolini nella coreografia italiana (13 dicembre, a cura di Elena Cervellati) e Pasolini, l’UNESCO e la marginalità dei luoghi (17-18 novembre, a cura di Matteo Paoletti). Il ricco programma di Pasolini Giornalista, convegno a cura di Gerardo Guccini e Stefano Casi (23-24 ottobre) ha invece interrogato da diverse prospettive disciplinari la dimensione giornalistica nelle opere del poeta. Incastonato fra primo e secondo giorno, Corpo eretico di Marco Baliani è una prova di lettura e oralità: si tratta di una lettera inviata da Baliani a Pasolini, letta in pubblico per la prima volta, così che noi spettatori diveniamo testimoni di una prova d’attore e delle potenzialità della parola scritta in un contesto pubblico. Baliani si presenta con una pila di fogli, ci sono tre blocchetti che leggerà riga per riga, mettendo la pagina appena letta sotto all’ultima, e così fino al termine impilandole in un leggio. Una lettera rivolta a «Pa’» da Marco, giovane delle borgate che stava crescendo nella stessa Roma di Pasolini, una scrittura che è certamente una lettera d’amore inviata a chi gli ha insegnato a guardare il mondo, ma soprattutto è un confronto che sfiora l’invettiva perché Pasolini non aveva voluto capire i giovani di allora, fra i quali c’era anche lui, Marco Baliani.

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Il 23 marzo 2022 la redazione di Arabeschi ha incontrato e intervistato Marco Antonio Bazzocchi per discutere di Alfabeto Pasolini, pubblicato da Carocci (2022), seconda edizione rivista di "Pier Paolo Pasolini" (Mondadori, 1998). L'incontro si è svolto in occasione del convegno Lampeggiare nello sguardo: attrici e attori nel cinema di Pasolini, tenutosi il 24 marzo 2022 presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università di Catania per celebrare il centenario della nascita dello scrittore. La nuova edizione dello studio rappresenta l'occasione per tornare ad attraversare alcuni nodi essenziali della poetica pasoliniana, sintetizzati nel volume in forma di lemmi, secondo la formula già rodata dell'alfabeto-atlante. La conversazione si è mossa a partire da alcune considerazioni relative al processo di aggiornamento del vocabolario e ha poi affrontato diverse questioni cruciali per intendere l'itinerario artistico di Pasolini.

 

Riprese audio-video: Alessandro Di Costa

Montaggio: Alessandro Di Costa, Giovanna Santaera

 

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La straordinaria vitalità del teatro pugliese contemporaneo si dimostra in questa stagione estiva di festival – la seconda dopo l’emergenza epidemiologica – con numerosi artisti e compagnie presenti nella programmazione delle maggiori manifestazioni distribuite sul territorio italiano. Inequilibrio Festival 2022 – Armunia ospita infatti Oscar De Summa con L’ultima eredità, mentre Giacomo del Teatro dei Borgia va in scena al Pergine Festival, alla LXXVI Festa del Teatro di San Miniato e infine al Kilowatt Festival, nella sede di Cortona. Ma la Puglia si conferma terra feconda di sperimentazione teatrale anche dando vita a festival di rilievo nel contesto nazionale, con una missione artistica chiara e ben definita.

È il caso di Teatro dei Luoghi Fest – 2022, manifestazione trasversale di teatro, musica, danza e incontri su temi culturali, promossa dai Cantieri Teatrali Koreja a Lecce e giunta ormai alla sua XVI edizione. «Disimparare il confine» è il motto che presiede il fitto calendario di eventi previsti presso l’ormai iconica sede – completamente restaurata dall’architetto Luca Ruzza – del teatro Koreja, ma anche in molti altri luoghi e spazi cittadini, rendendo la città cornice di incontri ed occasioni, nello stesso tempo, radicati ed itineranti. Al centro della riflessione, il tema dei confini: confini geografici, ma anche emotivi ed esistenziali, che solo l’arte, attraverso i suoi molteplici linguaggi può raccontare. Il Teatro dei Luoghi diventa così pretesto per raccontare il quotidiano, il politico e il sociale, offrendo agli spettatori uno nuovo strumento per modificare la propria percezione di sé e del mondo che li circonda.

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Anagoor riparte da Rivelazione, da quel cartiglio bianco, puro geroglifico traslucido, tratto dal Fregio oracolare o delle Arti di Casa Giorgione, che nel 2009 – con la conclusiva citazione «Si prudens esse cupis in futura prospectum intende» – lasciava presagire un possibile recupero dell’incongruente scrittura della Storia. Ora quella pietra di luce prende nuovamente a vibrare, pulsando di un bianco opalescente tra altri tre schermi lapidei, che la regia di Derai sceglie quali oggettivazioni di labirintiche configurazioni traumatiche. Ideato come un’insostenibile catabasi distrofica e linguistica, Germania. Römischer Komplex (UA) – spettacolo prodotto dal Theater and der Ruhr – trascina lo spettatore tra perigliosi intrecci discorsivi, dispiegando ancora una volta le coordinate cronotopiche di odiose pianificazioni di annientamento. E sull’antico aedo Marco Menegoni – attore feticcio del tragico universo anagooriano, condannato ad un inesausto peregrinaggio ontologico sul limite ermeneutico della rappresentazione e dei suoi indecifrabili segni – Derai sovrascrive ora tutti i suoi didaskaloi – dal pensieroso Marescalchi di Socrate il Sopravvisuuto (2016) all’umanissimo Didaskalos/aggelos dell’Orestea (2018) – secondo un’operazione drammaturgica pervasiva che fa riemergere Menegoni dai crematori dei Sonderkommando di Lingua Imperii (2012), per confondersi con quel Virgilio trasognato che in Virgilio Brucia nel 2014 svelava il perturbante dolore di una scrittura soggiogata al potere.

Consapevole dell’immaginario iconografico legato alla potenza ecfrastica della parola, Menegoni imprigiona nuovamente lo spettatore nel tempo dell’effrazione linguistica della visione, per raccontare dell’invenzione dello straniero, questa volta individuato nel popolo dei Germani, maledetto dal Tacito degli Annales. L’evocazione paurosa di una «razza d’uomini d’animali smisuratamente bestiale, vomitata fuori dal fango e dall’ombra delle querce»[1] terrorizza adesso una Roma molle e civilizzata, sconvolta innanzi alla strage delle proprie legioni, guidate dal virtuoso Varo. Intorno al ricordo della carneficina colonialista Tacito/Menegoni convoca «un corteo furioso di vivi e morti che dà fuoco alla foresta, con teschi inchiodati ai tronchi»[2] all’interno di una costellazione di immagini-sintomo che luccicano con survivance warburghiana. E così, mentre le onde del gelido mare del Nord si confondono con quella tempesta capricciosa dell’Egeo che in Orestea non permetteva ad Agamennone di salpare, negli schermi video si raddensa l’azzurro pastellato della già nota domus augustea che in Virgilio Brucia – secondo il principio della latenza individuato da Didi-Huberman per i marmi nella Madonna del Beato Angelico – accoglieva il naufragio infigurabile dell’olocausto di Troia.

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Questo numero monografico di Arabeschi inizia un confronto fra arte e teatro nel decennio Sessanta in Italia, un periodo caratterizzato dall’intensificarsi di sconfinamenti fra linguaggi artistici. La ricerca, tanto nelle arti figurative quanto nel teatro, converge in quegli anni nell’interesse comune per la contaminazione tra linguaggi (visivo, teatrale, musicale) e codici (visivo, gestuale, musicale, sonoro, verbale), rinnova il rapporto con lo spazio e contemporaneamente inaugura una nuova dimensione di relazione (dell’autore con l’opera, del fruitore con l’opera e dell’autore con il fruitore). Si afferma la dimensione della ‘presenza’ in chiave anti-rappresentativa. 

This monographic issue of Arabeschi begins a comparison between art and theatre in the 1960s in Italy, a period characterised by the intensification of cross-fertilisation between artistic languages. Research, both in the figurative arts and in the theatre, converged in those years in the common interest in the contamination of languages (visual, theatrical, musical) and codes (visual, gestural, musical, sound, verbal), renewing the relationship with space and, at the same time, inaugurating a new dimension of relationship (of the author with the work, of the spectator with the work and of the author with the spectator). The dimension of ‘presence’ is affirmed in an anti-representational key.

 

 

Questo numero monografico di Arabeschi nasce da un’idea comune delle due curatrici: avviare un confronto fra discipline su un territorio della ricerca nel contemporaneo, il decennio Sessanta in Italia, caratterizzato dall’intensificarsi di sconfinamenti ed erosioni dei confini fra linguaggi artistici. La ricerca, tanto nelle arti figurative quanto nel teatro, converge in quegli anni nell’interesse comune per la contaminazione tra linguaggi (visivo, teatrale, musicale) e codici (visivo, gestuale, musicale, sonoro, verbale), per un rinnovato rapporto con lo spazio e una nuova dimensione di relazione (dell’autore con l’opera, del fruitore con l’opera e dell’autore con il fruitore), e per l’affermazione della dimensione della ‘presenza’, in chiave anti-rappresentativa.

È allora che le arti visive sviluppano una declinazione particolare del gesto, della materia, del corpo, dell’azione, dell’esperienza, mentre il teatro inizia a infrangere il suo legame con il testo e con il quadro scenico, mettendo in discussione l’intera gerarchia dei codici linguistici. In entrambi i campi della ricerca si reinventano le forme, gli spazi, i vocabolari. Si evidenzia ad esempio, tanto nell’ambito delle arti visive quanto nel teatro, una vicinanza alla realtà (quella delle cose, del quotidiano ma anche quella della politica e dei temi sociali), lo sviluppo di nuove forme espressive come l’happening, capace di soddisfare la fuoriuscita dal quadro (opera e scena), l’aspirazione ad aprirsi alla comunità (invitando il pubblico a una partecipazione attiva), l’esperienza di nuovi luoghi e spazi di incontro tra opera e pubblico. Tutto con, sullo sfondo, un decennio complesso, proveniente contemporaneamente dalle ceneri del dopoguerra e dal nuovo volto moderno del Paese.

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