«…veramente da vicino non è che fai così paura».

(Roberto Saviano a Salvatore Esposito)[1]

 

 

Quando Arabeschi ha pensato di dedicare una delle sue “Gallerie” ai dieci anni di Gomorra di Roberto Saviano, è stato subito chiaro che quel «Gomorra» non era il libro [fig. 1]. Certo, il libro era stato il punto di partenza, il gesto rivelatore, l’oggetto da cui far scaturire nuove riflessioni sulle forme narrative dell’impegno, ma Gomorra è un universo, di cui il romanzo è solo uno dei pianeti. I dieci anni di Gomorra, dunque, non vanno intesi come il compleanno di quella prima pubblicazione, ma come un lento e inesorabile percorso di ‘colonizzazione mediale’ che ha portato Roberto Saviano, di volta in volta con ‘truppe’ diverse, a marciare sulla carta stampata, sul cinema, sulla televisione, sul web. E tutti sappiamo quanto sia costata a Saviano questa marcia di continuo equivocata e strumentalizzata [fig. 2].

Senza esagerare, si può dire che Gomorra abbia rappresentato, in questo decennio, una sorta di passaggio obbligato sulla via di un’autocoscienza non solo civile e politica, ma in qualche misura anche mediale. Intendo dire che ha certamente rappresentato uno snodo decisivo nelle pratiche di avvicinamento dell’opinione pubblica ai temi della criminalità organizzata, ma ha altresì rappresentato un’occasione di riflessione sulla forma romanzo, sulla questione del realismo e dell’epica italiana, sulle nuove strade e sulla tradizione del nostro cinema (che è stato per la verità il medium che ha saputo sfruttare meno questa occasione, ne parla qui Emiliano Morreale), sulla serialità televisiva (dove gli effetti invece sono stati dirompenti, ben testimoniati da questa galleria) e infine sul web. A questo riguardo, nell’ultima pagina del romanzo, c’è un passaggio che può valere come indicazione di metodo per chi studia e combatte la camorra e al contempo come rivelazione del più complesso funzionamento dell’universo Gomorra:

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Goliarda Sapienza. Tutto è iniziato con la scoperta de L’arte della gioia nel 2008, la lettura appassionata di tutti gli scritti editi e qualche inedito, il desiderio di girare un documentario, l’impazienza e la scelta di mettere in scena uno spettacolo, l’epilogo con un film dedicato a lei ma in cui di lei non si parla, o forse sì. Oggi vorrei ancora lavorare sui suoi scritti ma non so se ciò accadrà. Le sue pagine hanno fatto germogliare in me una pianta che ancora annaffio con cura.

Io ho fatto tutto questo ispirato e dedicato a Goliarda Sapienza – in scena a Catania al centro Zo nel 2009 e nel 2010 – nasce dalla scoperta di una scrittrice straordinaria e dall’urgenza di ricordarla alla sua città d’origine e non solo. Nessuna libreria catanese infatti prima del 2009 aveva i suoi libri, e il suo nome in città per i più sembrava inventato e in Italia quasi sconosciuto. Ho scoperto Goliarda in occasione della pubblicazione di Einaudi de L’arte della gioia nel 2008. Lessi il romanzo in un fiato passando poi, in preda ad un innamoramento appassionato, alla lettura di tutti i suoi testi editi: Lettera aperta, Il filo di mezzogiorno, Destino coatto, L’università di Rebibbia, Le certezze del dubbio. Tra luglio e settembre avevo letto tutto.

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Goliarda Sapienza nasce a Catania il 10 maggio del 1924 e muore a Gaeta il 30 agosto 1996. Figlia di Maria Giudice, figura storica della sinistra italiana e prima dirigente donna della Camera del lavoro di Torino, e Peppino Sapienza, militante antifascista iscritto al partito socialista, trascorre l’infanzia a Catania in un contesto familiare eccentrico, libero e anticonformista. Il suo talento multiforme e versatile trova espressione prima nel teatro e nel cinema e poi nella letteratura.

La sua «(ri)nascita» come scrittrice avviene solo in età adulta, quando decide di rinunciare alla recitazione, che da bambina aveva vissuto come la vocazione prediletta attraverso cui esprimere il suo estro e la sua creatività. Lei stessa indica le coordinate all’interno delle quali si sviluppa la propria inclinazione attoriale:

Amante del teatro, il padre Peppino la sostiene con grande fiducia, iscrivendola, a sua insaputa, all’esame di ammissione per entrare all’Accademia di Arte Drammatica di Roma diretta da Silvio D’Amico. Nell’autunno del 1941 Goliarda e la madre intraprendono il viaggio verso Roma. Con la gioia nel cuore e la paura di non esserne all’altezza, la scrittrice viene ammessa all’Accademia grazie all’enfasi della sua recitazione:

L’euforia di poter accedere alla scuola d’arte drammatica più illustre d’Italia si sostituisce presto alla sofferenza di essere stata ammessa con riserva: il talento c’è, ma prima della fine dell’anno, allo scadere di tre mesi, deve dimostrare di aver saputo correggere la sua disastrosa pronuncia siciliana. Quel che sembrava in apparenza impraticabile diviene possibile grazie alla sua incrollabile volontà:

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Non c’è bisogno di arrivare alla fine di questa intervista per capire che Alessio Pizzech (Livorno, classe 1972) è un regista sui faber: a nove anni la folgorazione per il teatro, luogo in cui la fragilità può rivelarsi forza, poi tanta gavetta autonoma (preferita alla tradizionale sequela). Adesso è una delle personalità più interessanti del panorama teatrale internazionale e con disinvoltura oltrepassa (o forse abita) la soglia che separa prosa e teatro musicale. Da sempre alla ricerca di autori complessi e scomodi di cui sviscerare le domande, ritiene che il teatro (italiano) abbia bisogno di direzioni curiose e coraggiose. La regia? Un mestiere ancora assai giovane. Il regista? Un abusivo…

Biagio Scuderi: Quando è nata la passione per il teatro?

 

Alessio Pizzech: Ricordo che a nove anni, mentre recitavo un pezzo da un poemetto conviviale di Pascoli intitolato La scuola dei paggi, mi inginocchiai su un lettino che faceva parte della scenografia e cominciai a piangere, recitavo piangendo; alzai gli occhi e mi accorsi che attorno a me piangevano tutti. Era successo qualcosa, quella fragilità che contraddistingueva il mio carattere in quel momento era diventata una forza, qualcosa che poteva essere ‘utile’, forse una piccola forma di potere, ciò che sentivo io lo sentivano anche gli altri; mi sembrò una sorta di rivelazione, una strada per me e per la mia vita.

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Il saggio è dedicato allo spettacolo Oratorio per Eva, seconda tappa del più recente progetto realizzato dall’artista catanese Roberto Zappalà: Transiti Humanitatis. Tale percorso coreografico intende esplorare l’umanità nella sua complessa interezza, partendo dal corpo, dalla materialità delle carni, per poi giungere alla poesia dell’universale, dell’assoluto, dell’umano. In Oratorio per Eva è centrale il tema dell’essere donna all’interno di un mondo dominato storicamente da un androcentrismo imperante che vede la femminilità in un dualistico rapporto di opposti: santa o puttana, madre o amante. In un sussulto di muscoli e ossa, di musiche e voci, il corpo della danzatrice Maud de la Purification narra il dolore di una femminilità oppressa, violata e abusata in una storia raccontata da uomini (i corpi in transito presenti in scena); ciò che emerge però, in conclusione, è un respiro di speranza, di ottimismo, di catarsi. D’umanità, per l’appunto. 

This essay is dedicated to Oratorio per Eva, second step of the most recent project performed by the artist Roberto Zappalà: Transiti Humanitatis. This choreographic path intends to explore the humanity in its complex entirety, departing from the body to reach the poetry of the universe. One of the most sensitive theme of Oratorio per Eva it’s the condition of woman inside a world historically dominated by a male power that considers femininity in a dualistic relationship: holy or whore, mother or lover. In a wince of muscles and bones, of music and voices, the dancer's body of Maud de the Purification represents the pain of an oppressed femininity; despite everything, we can see, in conclusion, a breath of hope, of optimism, of catharsis. Of humanity, for sure.

 

1. Corpi pensanti nella danza di Roberto Zappalà

Catania è una città dicotomicamente sospesa tra Mediterraneo ed Etna, tra acqua e lava; non è quindi semplice riuscire a dare concretezza e materialità a un universo fatto di istinti e poesia, di corpi impastati di terra e di contraddittorie passioni.

Roberto Zappalà, coreografo contemporaneo catanese, ha creato un linguaggio tecnico-espressivo assolutamente unico; concentratosi dapprima sulla ‘sicilianità' (si ricordino soprattutto i progetti Re-Mapping Sicily e Instruments, 2007), è approdato a una narrazione scenico-corporea assolutamente trasversale in grado di abbracciare, e raccontare, tematiche dal sapore universale. Questa apertura non ha implicato l’abbandono del gusto ‘dolce-amaro’ tipico della Sicilia: i ‘suoi’ corpi rispondono ancora a quell’istintualità primitiva teorizzata all’interno del testo Corpo Istintivo,[1] un vero e proprio ‘divenire animali’ in costante dialettica con la terra e con la parte più intima del Sé.

I danzatori di Roberto Zappalà sono potenti, forti, flessibili, e giocano con le articolazioni sfruttando l’energia del pavimento, come se i propri arti fossero delle radici che si nutrono del suolo. Nelle sue coreografie sono ben evidenti quegli elementi di rottura dalla tradizione ballettistica tipici della danza contemporanea, primo fra tutti una nuova concezione del corpo e delle sue possibili interazioni con lo spazio:[2] il corpo del ‘nuovo danzatore’ è innanzitutto un unicum con la mente, un’opera d’arte assoluta che parla di sé e del mondo circostante mediante una pluralità di codici espressivo-linguistici mutuati dalla danza, dal teatro, dalla musica, dalla pittura.

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Con Tre di coppie, andato in scena in prima assoluta al Teatro Biondo di Palermo dal 24 al 28 febbraio 2016, Franco Maresco conferma l’attenzione verso la parabola di Franco Scaldati dopo il sentito omaggio visivo Gli uomini di questa città non li conosco. Il titolo, con un riuscito gioco onomastico, si ricollega alla breve esperienza de Il re di coppe, teatro situato al centro del capoluogo siciliano e fondato dallo stesso artista palermitano. Non si tratta di una semplice antologia scaldatiana ma, per stessa ammissione del regista, di «una serie di “variazioni” sul tema del doppio». Quelle ricomposte da Maresco e Claudia Uzzo sono tutte coppie che dialogano con un ‘tre’, il numero effettivo degli attori presenti in scena: Gino Carista, Giacomo Civiletti e Melino Imparato si scambiano costantemente ruoli e battute, incarnando alcuni dei personaggi più celebri del denso universo teatrale del ‘Sarto’.

Il buio e la notte si configurano come le coordinate privilegiate della messa in scena, che già dall’incipit dichiara il proprio omaggio all’astro lunare da sempre al centro della scrittura di Scaldati; se una grossa luna piena domina il fondale scuro, una slabbrata costellazione di volti si illumina evocando un mondo di poesia nel quale il sonno rimeggia con la morte.

I visi degli attori appaiono dentro cerchi di luce, in un persistente gioco a nascondere che disegna straniate traiettorie: non ci sono corpi, in questo frammentato spazio d’ombre, ma solo bocche che parlano un dialetto palermitano carico di sonorità e di arzigogolati giochi di parole.

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La posizione di Stefano Bessoni, regista e illustratore, è per molti versi originale rispetto al contesto culturale di cui è protagonista. Il cinema rappresenta per lui il mezzo ideale per estendere le potenzialità delle idee catturate con carta e matita. Fugge dalle etichette di un certo cinema di genere horror sin dalle sue prime esperienza legate al video teatro. A partire dai lavori degli anni ’90 in cui si sperimenta con un cinema che potremmo definire ‘concettuale’, fino ad arrivare ai progetti  cinematografici, nel senso commerciale e standardizzato del termine, è evidente la sua cifra stilistica di matrice visiva, grottesca, fumettistica e molto poetica che molto deve a ‘padri’ cinematografici quali Peter Greenaway, Wim Wenders, Jean-Pierre Jeunet ed altri. Un cinema a tinte orrorifiche che affonda le proprie radici nelle paure più profonde che si nascondono nel cuore dell'animo umano.

The role of Stefano Bessoni, film director and illustrator, is original in many ways, expecially compared to the cultural context of which he is protagonist. The cinema for him is the ideal way to extend the potentialities of ideas captured with pencil and paper. Since of his first experience related to the video-theater, he flees from the labels of a certain kind of horror film. Starting from the works of the 90’s, a group of visual texts that we could define ʻconceptualʼ, until to the real cinematographic projects, which are for some aspects commercial and standardized, it is clear his stylistic hallmark of visual, grotesque, comic and poetic matrix, which owes much to ʻfathersʼ such as Peter Greenway, Wim Wenders, Jean-Pierre Jeunet and others. Bessoni’s cinema has its roots in the deepest fears that lurk in the human heart.

Quando ti guardi in uno specchio, sei sicuro di esserne al di fuori, di non essere te il riflesso di quel personaggio che emerge dalle acque oscure, dal di dentro te, altro?

Michel Schneider

 

 

1. Breve premessa

Lo sguardo filtrato attraverso la lente del perturbante che ritroviamo in pittori come Hieronymus Bosch e Pieter Brueghel, il mondo grafico oscuro proveniente dai paesi dell’Est, l’incisore «principe delle ombre» Mario Scarpati, artisti quali Fèlicien Rops e Alfred Kubin, fino ad arrivare a Dusan Kallay e Arthur Rackham. E poi l’incontro con creatori d’immagini e sperimentatori visivi quali Peter Greenaway, Wim Wenders, o i pionieri dell’animazione stop motion come Jan Švankmajer e i fratelli Quay. A questi aggiungiamo le ballate di Nick Cave e le fotografie di Joel Peter Witkin. Questo e non solo è l’universo che popola le opere di Stefano Bessoni che, con gli anni, grazie alle letture che spaziano dai trattati di zoologia e anatomia fino ad arrivare a Franz Kafka de La metamorfosi e al Bruno Schulz de Le botteghe color cannella passando per Lewis Carroll e la sua Alice e il Pinocchio di Collodi, è riuscito a creare una sua cifra stilistica originale. Illustrazione e cinema sono i due pilastri che reggono il suo universo, qui ci vogliamo soffermare sulle esperienze cinematografiche che gli hanno permesso di materializzare quello che «galleggiava in stato larvale sulla carta».[1]

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Stefano Bessoni (1965), regista cinematografico, illustratore e animatore stop motion, è nato a Roma dove si diploma presso l’Accademia di Belle Arti. Sotto la guida dell’incisore Mario Scarpati inizia la propria formazione in campo artistico, apprende le tecniche calcografiche ed entra in contatto con la grafica dei paesi dell’Est. Autori come Roland Topor, Fèlicien Rops insieme con artisti quali Dave McKean e Mark Ryden e gli esponenti del Pop Surrealism diventano la radice del suo immaginario visivo.

Frequenta per alcuni anni il corso di laurea in Scienze Biologiche, interessandosi di zoologia e anatomia, da qui l’interesse per il mondo della scienza che, insieme al coté fiabesco, costituisce il nucleo centrale per sviluppare la sua ricerca poetica.

Dal 1989 realizza film sperimentali, documentari e installazioni video-teatrali, destando l’attenzione della critica e ricevendo i primi riconoscimenti in festival nazionali e internazionali. Per lui il cinema è il mezzo ideale per accrescere le potenzialità delle idee catturate dalla matita e impresse sul foglio di carta.

Il suo esordio come film-maker lo vede confrontarsi con il teatro della crudeltà di Artaud (Grimm e il teatro della crudeltà) e con il racconto di Jorge Luis Borges La casa di Asterione (Asterione). Approda poi al cinema cosiddetto ‘commerciale’ con Frammenti di scienze inesatte che in un certo senso anticipa i progetti futuri (Immago mortis, Krokodyle e, nel 2013, i Canti della forca).

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A parlare è Giuseppe Bertolucci, il regista di 'Na specie de cadavere lunghissimo, spettacolo prodotto dal Teatro delle Briciole di Parma e dalla Fondazione culturale Edison (oggi Solares Fondazione delle Arti), andato in scena per la prima volta, a Napoli, il 4 febbraio 2004. Un progetto nato dalla scoperta, fatta da Gifuni, di Il Pecora, la prima parte dell'attuale Poemetto in due deliri di Giorgio Somalvico, scritto su commissione nel 1995, per i vent’anni della morte di Pier Paolo Pasolini; testo in cui si prova a costringere in metrica il delirio dell’omicida del poeta, in fuga da Ostia, in un’immaginaria scorribanda notturna alla guida dell’Alfa GT. Il poemetto, pensato dall’autore come un melologo (genere musicale in bilico tra recitazione e canto: partitura musicale per voce ‘intonata’), alterna, stando a quanto evidenziato dallo stesso attore:

È attorno a questo testo che prende forma l’idea dello spettacolo. Come racconta Gifuni: «La lettura di tutti gli scritti civili pasoliniani, che da tempo mi accompagnava, non poteva forse sposarsi, in un matrimonio incestuoso, con i versi di Giorgio Somalvico?». Ecco allora che la riflessione di Pasolini, quella che apre Lettere luterane, diventa il fulcro tanto dell’ideazione quanto, poi, della messinscena:

La prima parte dello spettacolo è una summa del pensiero politico di Pasolini, costruita su estratti ripresi, oltre che da Lettere luterane, da Scritti corsari, e da Siamo tutti in pericolo (l’ultima intervsita rilascata a Furio Colombo). L’intento di Bertolucci e Gifuni, in strettissimo rapporto di interazione e coautorialità, è quello di trasmettere il teorema pasoliniano – genocidio culturale, imbarbarimento consumistico, uso strumentrale dei media da parte del Nuovo Fascismo – sotto forma di un unico ragionamento socratico. Lavorando su frammenti di testi saggistici un’esposizione frontale avrebbe causato un sovraccarico declamatorio, dando così l’impressione di trovarsi di fronte a una predica o a un comizio. Da qui la scelta di creare una situazione colloquiale: immergere l’attore nel pubblico e fare dello spettatore un elemento teatrale con cui, chi è in scena, deve dialogare. Per stabilire questa idea di confronto i coaturi decidono di cominciare lo spettaccolo riprendendo la Lettera aperta a Italo Calvino, e quel «tu» su cui si apre il testo è il gesto d’interpellazione che permette a Gifuni di demolire del tutto la cosiddetta quarta parete:

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