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Una città dello stato di São Paulo, una coppia di artisti posseduti dalla passione per l’arte condivisa, un gruppo di ‘ombromani’ formato da registi, performer, animatori, studenti, studiosi accademici e non: è la comunità che a Taubaté si è aggregata intorno all’ ‘ombra’ di un teatro che deve ancora trovare la sua strada, e che di questo ricercare fa l’elemento propulsore di un confronto vitale, una condizione di fertile incertezza.

FIS, il Festival internazionale di Teatro d’Ombre alla sua quarta edizione, è diretto da Ronaldo Robles e Silvia Godoy, fondatori della Compagnia Quase Cinema che nelle tecniche e nelle poetiche dell’ombra trova il linguaggio più consono per dare forma a una passione che si radica nelle arti visive e nel cinema.

Una direzione artistica eticamente responsabile, che coniuga il progetto di diffusione del genere teatrale delle ombre (peraltro molto più esteso in Brasile che da noi) al programma di decentramento culturale: nonostante le ‘scomodità’ non rinuncia a portare il teatro (spettacoli e laboratori) nelle piazze e nelle scuole rurali di paesi piccoli e piccolissimi, ma anche tra i giovani delle scuole di formazione artistica della città. Impegno della manifestazione è anche mettere in relazione la ricerca artistica e quella scientifica, la formazione e la riflessione, la condivisione e l’accento sulle differenze (oltre ai numerosi momenti di riflessione animatisi spontaneamente nel corso delle giornate, un seminario ha accompagnato il festival nelle ultime due serate).

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Metamorfosi (di forme mutate in corpi nuovi), produzione Fortebraccio Teatro, in scena al Teatro Era di Pontedera il 4 febbraio 2017, adattamento e regia di Roberto Latini, fa dell’idea di metamorfosi una poetica che investe più fronti: contenuto, forma, spazio, e persino spettacolo. Il primo mutamento di forma riguarda il linguaggio, ossia il passaggio dalla letteratura al teatro. Lo spettacolo è strutturato in quadri intitolati come i brani ovidiani, tuttavia esso non vuole «mettere in scena quei Miti», come indica la nota registica; l’interesse risiede anzi nel cercare possibili «derive» teatrali, e attuali, del testo, concedendosi pure di allontanarsi da esso. Non solo l’ordine degli episodi non segue quello ovidiano, ma in più esso è soggetto a modifiche in ogni spettacolo: mutano sia la scelta che l’articolazione dei quadri, regalando un evento unico e non ripetibile. La drammaturgia, definita «mobile», si rinnova di continuo, nell’ottica di un’incessante ricerca, che è al contempo virtù e fine del teatro di Latini.

Parola e azione scenica sono affidate a una troupe di clown di memoria felliniana, contaminati da echi disneyani. Con volto bianco e naso rosso, muniti di parrucche sgargianti, scarpe oltremisura e orecchie da Minnie (i costumi sono firmati Marion D’Amburgo), essi compaiono sulla scena vuota, da un fondale di teli bianchi. Le vicende ovidiane si sviluppano in un’atmosfera in bilico tra comicità e tragedia: dopo una danza sgangherata evocante lo stato primigenio del Caos, fra risate e scambi di battute in grammelot, si incontra un inquietante Minotauro (Savino Paparella) con le scarpe al posto delle corna; ci si imbatte nei terribili racconti di Coronide, Ecuba, e della Sibilla Cumana; ci si commuove dell’ineluttabile separazione di Orfeo ed Euridice (Roberto Latini e Ilaria Drago), che avviene senza il minimo sguardo fra i due, già consapevoli del loro destino. Ogni quadro è valorizzato dalla combinazione della concezione sonora di Gianluca Misiti e delle luci di Max Mugnai. Cangianti e soffuse, queste rendono i contorni delle figure labili, inafferrabili.

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Sogno di vendere sempre più copie, ovunque nel mondo, e sono sempre insoddisfatto, nonostante i risultati siano stati buoni perché io ho un’ambizione ben più grande – e non me ne vergogno – ben più grande di quella di piazzare un po’ di copie e di avere qualche buona recensione. Il sogno è che magari queste mie parole, condividendole, possano davvero diventare uno strumento.

Roberto Saviano

 

 

A dieci anni dalla pubblicazione di Gomorra il ‘caso’ Saviano desta ancora grande interesse anche se l’attenzione si è decisamente spostata dalle vicende biografiche e letterarie del suo autore verso la potenza espressiva della serie televisiva, capace di catalizzare un numero impressionante di spettatori e di mobilitare larghe fasce dell’opinione pubblica. Lungi dall’essersi inaridita, l’onda transmediale di questo testo-feticcio degli anni zero continua a segnare l’immaginario contemporaneo, a suggerire trame, personaggi, icone che meritano di essere ricomposte e analizzate.

Consapevoli della porosità della ‘costellazione-Gomorra’, abbiamo scelto di verificare la tenuta del romanzo guardando oltre il suo orizzonte di carta, puntando l’attenzione sui frammenti visivi che ha generato, sulle scorie che si sono depositate nel passaggio dal teatro al cinema fino all’approdo fatale nell’orbita della serialità. La scelta di ‘rimappare’ le immagini di Gomorra ci ha permesso di recuperare discorsi e approcci differenti, con un taglio per lo più comparatistico ma a partire dai metodi propri dei film e media studies, che abbiamo organizzato secondo quattro direttrici principali.

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«…veramente da vicino non è che fai così paura».

(Roberto Saviano a Salvatore Esposito)[1]

 

 

Quando Arabeschi ha pensato di dedicare una delle sue “Gallerie” ai dieci anni di Gomorra di Roberto Saviano, è stato subito chiaro che quel «Gomorra» non era il libro [fig. 1]. Certo, il libro era stato il punto di partenza, il gesto rivelatore, l’oggetto da cui far scaturire nuove riflessioni sulle forme narrative dell’impegno, ma Gomorra è un universo, di cui il romanzo è solo uno dei pianeti. I dieci anni di Gomorra, dunque, non vanno intesi come il compleanno di quella prima pubblicazione, ma come un lento e inesorabile percorso di ‘colonizzazione mediale’ che ha portato Roberto Saviano, di volta in volta con ‘truppe’ diverse, a marciare sulla carta stampata, sul cinema, sulla televisione, sul web. E tutti sappiamo quanto sia costata a Saviano questa marcia di continuo equivocata e strumentalizzata [fig. 2].

Senza esagerare, si può dire che Gomorra abbia rappresentato, in questo decennio, una sorta di passaggio obbligato sulla via di un’autocoscienza non solo civile e politica, ma in qualche misura anche mediale. Intendo dire che ha certamente rappresentato uno snodo decisivo nelle pratiche di avvicinamento dell’opinione pubblica ai temi della criminalità organizzata, ma ha altresì rappresentato un’occasione di riflessione sulla forma romanzo, sulla questione del realismo e dell’epica italiana, sulle nuove strade e sulla tradizione del nostro cinema (che è stato per la verità il medium che ha saputo sfruttare meno questa occasione, ne parla qui Emiliano Morreale), sulla serialità televisiva (dove gli effetti invece sono stati dirompenti, ben testimoniati da questa galleria) e infine sul web. A questo riguardo, nell’ultima pagina del romanzo, c’è un passaggio che può valere come indicazione di metodo per chi studia e combatte la camorra e al contempo come rivelazione del più complesso funzionamento dell’universo Gomorra:

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Goliarda Sapienza. Tutto è iniziato con la scoperta de L’arte della gioia nel 2008, la lettura appassionata di tutti gli scritti editi e qualche inedito, il desiderio di girare un documentario, l’impazienza e la scelta di mettere in scena uno spettacolo, l’epilogo con un film dedicato a lei ma in cui di lei non si parla, o forse sì. Oggi vorrei ancora lavorare sui suoi scritti ma non so se ciò accadrà. Le sue pagine hanno fatto germogliare in me una pianta che ancora annaffio con cura.

Io ho fatto tutto questo ispirato e dedicato a Goliarda Sapienza – in scena a Catania al centro Zo nel 2009 e nel 2010 – nasce dalla scoperta di una scrittrice straordinaria e dall’urgenza di ricordarla alla sua città d’origine e non solo. Nessuna libreria catanese infatti prima del 2009 aveva i suoi libri, e il suo nome in città per i più sembrava inventato e in Italia quasi sconosciuto. Ho scoperto Goliarda in occasione della pubblicazione di Einaudi de L’arte della gioia nel 2008. Lessi il romanzo in un fiato passando poi, in preda ad un innamoramento appassionato, alla lettura di tutti i suoi testi editi: Lettera aperta, Il filo di mezzogiorno, Destino coatto, L’università di Rebibbia, Le certezze del dubbio. Tra luglio e settembre avevo letto tutto.

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Goliarda Sapienza nasce a Catania il 10 maggio del 1924 e muore a Gaeta il 30 agosto 1996. Figlia di Maria Giudice, figura storica della sinistra italiana e prima dirigente donna della Camera del lavoro di Torino, e Peppino Sapienza, militante antifascista iscritto al partito socialista, trascorre l’infanzia a Catania in un contesto familiare eccentrico, libero e anticonformista. Il suo talento multiforme e versatile trova espressione prima nel teatro e nel cinema e poi nella letteratura.

La sua «(ri)nascita» come scrittrice avviene solo in età adulta, quando decide di rinunciare alla recitazione, che da bambina aveva vissuto come la vocazione prediletta attraverso cui esprimere il suo estro e la sua creatività. Lei stessa indica le coordinate all’interno delle quali si sviluppa la propria inclinazione attoriale:

Amante del teatro, il padre Peppino la sostiene con grande fiducia, iscrivendola, a sua insaputa, all’esame di ammissione per entrare all’Accademia di Arte Drammatica di Roma diretta da Silvio D’Amico. Nell’autunno del 1941 Goliarda e la madre intraprendono il viaggio verso Roma. Con la gioia nel cuore e la paura di non esserne all’altezza, la scrittrice viene ammessa all’Accademia grazie all’enfasi della sua recitazione:

L’euforia di poter accedere alla scuola d’arte drammatica più illustre d’Italia si sostituisce presto alla sofferenza di essere stata ammessa con riserva: il talento c’è, ma prima della fine dell’anno, allo scadere di tre mesi, deve dimostrare di aver saputo correggere la sua disastrosa pronuncia siciliana. Quel che sembrava in apparenza impraticabile diviene possibile grazie alla sua incrollabile volontà:

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Non c’è bisogno di arrivare alla fine di questa intervista per capire che Alessio Pizzech (Livorno, classe 1972) è un regista sui faber: a nove anni la folgorazione per il teatro, luogo in cui la fragilità può rivelarsi forza, poi tanta gavetta autonoma (preferita alla tradizionale sequela). Adesso è una delle personalità più interessanti del panorama teatrale internazionale e con disinvoltura oltrepassa (o forse abita) la soglia che separa prosa e teatro musicale. Da sempre alla ricerca di autori complessi e scomodi di cui sviscerare le domande, ritiene che il teatro (italiano) abbia bisogno di direzioni curiose e coraggiose. La regia? Un mestiere ancora assai giovane. Il regista? Un abusivo…

Biagio Scuderi: Quando è nata la passione per il teatro?

 

Alessio Pizzech: Ricordo che a nove anni, mentre recitavo un pezzo da un poemetto conviviale di Pascoli intitolato La scuola dei paggi, mi inginocchiai su un lettino che faceva parte della scenografia e cominciai a piangere, recitavo piangendo; alzai gli occhi e mi accorsi che attorno a me piangevano tutti. Era successo qualcosa, quella fragilità che contraddistingueva il mio carattere in quel momento era diventata una forza, qualcosa che poteva essere ‘utile’, forse una piccola forma di potere, ciò che sentivo io lo sentivano anche gli altri; mi sembrò una sorta di rivelazione, una strada per me e per la mia vita.

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Il saggio è dedicato allo spettacolo Oratorio per Eva, seconda tappa del più recente progetto realizzato dall’artista catanese Roberto Zappalà: Transiti Humanitatis. Tale percorso coreografico intende esplorare l’umanità nella sua complessa interezza, partendo dal corpo, dalla materialità delle carni, per poi giungere alla poesia dell’universale, dell’assoluto, dell’umano. In Oratorio per Eva è centrale il tema dell’essere donna all’interno di un mondo dominato storicamente da un androcentrismo imperante che vede la femminilità in un dualistico rapporto di opposti: santa o puttana, madre o amante. In un sussulto di muscoli e ossa, di musiche e voci, il corpo della danzatrice Maud de la Purification narra il dolore di una femminilità oppressa, violata e abusata in una storia raccontata da uomini (i corpi in transito presenti in scena); ciò che emerge però, in conclusione, è un respiro di speranza, di ottimismo, di catarsi. D’umanità, per l’appunto. 

This essay is dedicated to Oratorio per Eva, second step of the most recent project performed by the artist Roberto Zappalà: Transiti Humanitatis. This choreographic path intends to explore the humanity in its complex entirety, departing from the body to reach the poetry of the universe. One of the most sensitive theme of Oratorio per Eva it’s the condition of woman inside a world historically dominated by a male power that considers femininity in a dualistic relationship: holy or whore, mother or lover. In a wince of muscles and bones, of music and voices, the dancer's body of Maud de the Purification represents the pain of an oppressed femininity; despite everything, we can see, in conclusion, a breath of hope, of optimism, of catharsis. Of humanity, for sure.

 

1. Corpi pensanti nella danza di Roberto Zappalà

Catania è una città dicotomicamente sospesa tra Mediterraneo ed Etna, tra acqua e lava; non è quindi semplice riuscire a dare concretezza e materialità a un universo fatto di istinti e poesia, di corpi impastati di terra e di contraddittorie passioni.

Roberto Zappalà, coreografo contemporaneo catanese, ha creato un linguaggio tecnico-espressivo assolutamente unico; concentratosi dapprima sulla ‘sicilianità' (si ricordino soprattutto i progetti Re-Mapping Sicily e Instruments, 2007), è approdato a una narrazione scenico-corporea assolutamente trasversale in grado di abbracciare, e raccontare, tematiche dal sapore universale. Questa apertura non ha implicato l’abbandono del gusto ‘dolce-amaro’ tipico della Sicilia: i ‘suoi’ corpi rispondono ancora a quell’istintualità primitiva teorizzata all’interno del testo Corpo Istintivo,[1] un vero e proprio ‘divenire animali’ in costante dialettica con la terra e con la parte più intima del Sé.

I danzatori di Roberto Zappalà sono potenti, forti, flessibili, e giocano con le articolazioni sfruttando l’energia del pavimento, come se i propri arti fossero delle radici che si nutrono del suolo. Nelle sue coreografie sono ben evidenti quegli elementi di rottura dalla tradizione ballettistica tipici della danza contemporanea, primo fra tutti una nuova concezione del corpo e delle sue possibili interazioni con lo spazio:[2] il corpo del ‘nuovo danzatore’ è innanzitutto un unicum con la mente, un’opera d’arte assoluta che parla di sé e del mondo circostante mediante una pluralità di codici espressivo-linguistici mutuati dalla danza, dal teatro, dalla musica, dalla pittura.

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Con Tre di coppie, andato in scena in prima assoluta al Teatro Biondo di Palermo dal 24 al 28 febbraio 2016, Franco Maresco conferma l’attenzione verso la parabola di Franco Scaldati dopo il sentito omaggio visivo Gli uomini di questa città non li conosco. Il titolo, con un riuscito gioco onomastico, si ricollega alla breve esperienza de Il re di coppe, teatro situato al centro del capoluogo siciliano e fondato dallo stesso artista palermitano. Non si tratta di una semplice antologia scaldatiana ma, per stessa ammissione del regista, di «una serie di “variazioni” sul tema del doppio». Quelle ricomposte da Maresco e Claudia Uzzo sono tutte coppie che dialogano con un ‘tre’, il numero effettivo degli attori presenti in scena: Gino Carista, Giacomo Civiletti e Melino Imparato si scambiano costantemente ruoli e battute, incarnando alcuni dei personaggi più celebri del denso universo teatrale del ‘Sarto’.

Il buio e la notte si configurano come le coordinate privilegiate della messa in scena, che già dall’incipit dichiara il proprio omaggio all’astro lunare da sempre al centro della scrittura di Scaldati; se una grossa luna piena domina il fondale scuro, una slabbrata costellazione di volti si illumina evocando un mondo di poesia nel quale il sonno rimeggia con la morte.

I visi degli attori appaiono dentro cerchi di luce, in un persistente gioco a nascondere che disegna straniate traiettorie: non ci sono corpi, in questo frammentato spazio d’ombre, ma solo bocche che parlano un dialetto palermitano carico di sonorità e di arzigogolati giochi di parole.

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