Goliarda Sapienza. Profilo

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Goliarda Sapienza nasce a Catania il 10 maggio del 1924 e muore a Gaeta il 30 agosto 1996. Figlia di Maria Giudice, figura storica della sinistra italiana e prima dirigente donna della Camera del lavoro di Torino, e Peppino Sapienza, militante antifascista iscritto al partito socialista, trascorre l’infanzia a Catania in un contesto familiare eccentrico, libero e anticonformista. Il suo talento multiforme e versatile trova espressione prima nel teatro e nel cinema e poi nella letteratura.

Goliarda bambina con Peppino Sapienza e Maria Giudice nella casa di via Pistone a Catania

La sua «(ri)nascita» come scrittrice avviene solo in età adulta, quando decide di rinunciare alla recitazione, che da bambina aveva vissuto come la vocazione prediletta attraverso cui esprimere il suo estro e la sua creatività. Lei stessa indica le coordinate all’interno delle quali si sviluppa la propria inclinazione attoriale:

Leggevo tutto il giorno, […] leggevo e imparavo a memoria tutti i lavori teatrali che trovavo per casa. La notte poi li recitavo da sola facendone tutte le parti, come i pupari. Il commendatore Insanguine mi aveva detto che, solo facendo tutte le parti come il puparo, si imparava a conoscere i personaggi diversi da noi. Imitando le loro voci, ora da uomo ora da donna, ora del vile ora del valoroso, si diventava attori veri.[1]

Amante del teatro, il padre Peppino la sostiene con grande fiducia, iscrivendola, a sua insaputa, all’esame di ammissione per entrare all’Accademia di Arte Drammatica di Roma diretta da Silvio D’Amico. Nell’autunno del 1941 Goliarda e la madre intraprendono il viaggio verso Roma. Con la gioia nel cuore e la paura di non esserne all’altezza, la scrittrice viene ammessa all’Accademia grazie all’enfasi della sua recitazione:

Gridai con la voce di quella pazza: «La mala Pasqua a te!» Mi dolevano le ginocchia sulle quali, nel grido, mi ero buttata e il torace come squarciato. Avevo gridato troppo forte? Le mani che mi rialzavano ora erano tante e calde, rassicuranti. Dicevano brava? O dicevano talento? «Certo la dizione spaventosa, l’accento pazzesco ma temperamento… temperamento». Con le ginocchia ed il torace rotto ero stata ammessa alla Regia Accademia D’Arte Drammatica con la borsa di studio.[2]

L’euforia di poter accedere alla scuola d’arte drammatica più illustre d’Italia si sostituisce presto alla sofferenza di essere stata ammessa con riserva: il talento c’è, ma prima della fine dell’anno, allo scadere di tre mesi, deve dimostrare di aver saputo correggere la sua disastrosa pronuncia siciliana. Quel che sembrava in apparenza impraticabile diviene possibile grazie alla sua incrollabile volontà:

Giorno e notte inseguivo quei suoni per la volta del palato […] Non potevo dormire. Dovevo fare di tre mesi diciassette anni.[3]

Il debutto a teatro avviene nel 1942 con l’interpretazione di Dina nella pièce Così è (se vi pare) di Pirandello. Un applauso «lungo» e «compatto» segna il suo trionfo. Finita la guerra, però, Goliarda decide di abbandonare l’Accademia per tentare la sua strada personale con il progetto T45, fondato insieme a Silverio Blasi, Mario Landi e Valeria Ravot. La compagnia mette in scena Gioventù malata di Ferndinand Bruckner ottenendo grande successo ma, dopo alcune repliche, la rappresentazione viene bloccata dalla polizia perché giudicata scandalosa e violenta.

La prospettiva di non poter realizzare un teatro nel modo in cui lei lo intende porta Goliarda a prendere la decisione di lasciare le tavole del palcoscenico e interessarsi sempre più al cinema, spinta probabilmente anche dal suo compagno Citto Maselli, esordiente regista del cinema italiano, che conosce in quegli stessi anni e con il quale istaura un rapporto di intenzioni, idee e insegnamenti che non si esaurisce neppure dopo la fine della loro relazione, durata ben diciotto anni:

Non recitai più: perché dovevo continuare ad appassire, schiacciata fra quelle battute e quei gesti polverosi e scoloriti come fiori di carta? Avevo Citto: mi portava stretta per le strade di Roma, e senza lasciarmi mai un attimo mi insegnava i colori i palazzi i visi inquadrati dalla macchina da presa.[4]

Goliarda fa il suo esordio di fronte alla macchina da presa nel 1946 con Alessandro Blasetti; il suo contributo attoriale però si esaurisce in pochi titoli, sette in tutto, attraverso l’interpretazione di piccoli ma folgoranti ruoli con i più grandi nomi del cinema neorealista: Un giorno della vita (A. Blasetti, 1946), Fabiola (A. Blasetti, 1948), Persiane chiuse (L. Comencini, 1950), Altri tempi, episodio La morsa (A. Blasetti, 1951), Senso (L. Visconti, 1954), Gli sbandati (C. Maselli, 1955), Lettera aperta a un giornale della sera (C. Maselli, 1970). Seguiranno ulteriori impegni cinematografici, televisivi e radiofonici, ma la partecipazione, come in numerose occasioni, non sarà accreditata.

Goliarda Sapienza nei panni di Letizia, in Fabiola (1948) di Alessandro BlasettiGoliarda Sapienza in Senso (1954) di Luchino ViscontiGoliarda Sapienza nei panni di Maria, in Gli sbandati (1955) di Citto MaselliGoliarda Sapienza in Lettera aperta a un giornale della sera (1970) di Citto Maselli

Si tratta di figure per lo più secondarie, ma che in alcuni casi rivestono un significato particolare alla luce dei successivi sviluppi della carriera artistica della scrittrice. Nel film di Blasetti, Fabiola, per esempio, come nota giustamente Lucia Cardona, Sapienza interpreta «un ruolo defilato ma niente affatto trascurabile e un certo senso “premonitore”: quello di Letizia, una donna vittima delle persecuzioni religiose, intenta a scrivere la storia dei cristiani, a partire dai racconti di Maestro Cassiano, che ascolta con partecipe attenzione. L’occhio del cinema, dunque, raffigura e pare visivamente presentire il destino di Goliarda scrittrice: scrittrice clandestina e catocombale nella finzione dello schermo e, nella vita, scrittrice clandestina e fuori dal canone dell’editoria e della cultura italiana».[5]

La sua presenza nei set cinematografici è confermata anche nelle funzioni di aiuto regista, sceneggiatrice, doppiatrice e assistente agli attori: con Zavattini e Visconti, ma soprattutto in tutti i film e documentari del compagno Maselli, Goliarda comincia ad operare come silenziosa «cinematografara» (così ama definirsi), un impegno intenso e gravoso, che nel tempo sarebbe rimasto sotto traccia, mai accreditato ufficialmente. Negli appunti segnati nei taccuini, in cui ha fissato molti dei suoi ricordi, pubblicati di recente (Il vizio di parlare a me stessa, Einaudi, 2011 e La mia parte di gioia, Einaudi, 2013) Sapienza sottolinea più volte la durezza e la fatica del mestiere di «cinematografara»:

Forse potrò essere libera. Neanche per duecentomila lire al giorno potrei sopportare quindici giorni di sala doppiaggio; ci ho passato troppi anni, e i ricordi e le sensazioni sono troppo frusti per rappresentare per me qualsiasi interesse. Come è stato per il teatro, anche qui tutto è rimasto uguale, congelato nel tempo: le persone che incontri, i tecnici magnifici, gli attori disperati appresso una fame di sfondare che fa venire i brividi, i produttori sciacalli, plebei e così brutti fisicamente (ma da dove vengono?) da allibire.[6]

Il lavoro di assistente le permette di qualificarsi anche come insegnante di recitazione, mettendosi in gioco, a partire dal 1991, nell’esperienza di insegnante al Centro Sperimentale di Cinematografia dove lavora negli ultimi anni della sua vita:

Anche oggi al Centro per la lezione. Mi alzo alle sette, dopo essermi svegliata almeno tre volte prima. È l’idea dell’appuntamento con il lavoro che mi sveglia, non capisco se per ansia brutta o bella: mi piace andare al Centro, ma Dev’essere il ricordo della poca scuola che ho fatto e dell’Accademia che mi ha rovinata – o rotta -, dato il mio «stato vocale» da terzo mondo che mi metteva in condizione di inferiorità. [7]

Il bisogno di esprimere se stessa attraverso la scrittura emerge per Goliarda in seguito all’evento tragico della morte della madre, avvenuta il 5 febbraio 1953. Il distacco da Maria segna profondamente Sapienza conducendola a una ricerca quasi ossessiva dell’immagine materna, in un processo di recupero memoriale che marca in modo costante il suo stile narrativo. L’esordio letterario di Goliarda, o come ben definisce Angelo Pellegrino l’«atto di nascita» della sua vocazione letteraria, risale alla stesura durante gli anni Cinquanta delle poesie poi confluite in Ancestrale (La Vita Felice, 2013), che comprende una sezione in dialetto dal titolo Siciliane (già pubblicata da Il Girasole, 2012). Nelle poesie c’è la volontà da parte di Sapienza di rievocare le figure della madre e del padre e di ritornare con il ricordo al vissuto familiare dell’infanzia. Nello stesso periodo Goliarda si mette alla prova anche con la prosa, con i racconti di Destino coatto (Empiria, 2002). Con queste opere l’autrice inizia ad addentrarsi nel campo della scrittura autobiografica, a cui fa seguito il progetto del ciclo memoriale dell’«autobiografia delle contraddizioni». Lettera aperta (1967), Il filo di mezzogiorno (1969), entrambi pubblicati da Garzanti, nascono nel tentativo del recupero dei ricordi a scopo terapeutico, a margine cioè dell’analisi intrapresa dopo le devastanti sedute di elettroshock a cui era stata sottoposta a causa del suicidio mancato.

Il periodo che va dal 1969 al 1976 è dedicato alla stesura del suo grande romanzo, L’arte della gioia. Goliarda si rinchiude nella casa di Gaeta per molti anni e trascorre le sue giornate nella creazione del suo unico personaggio di finzione, Modesta, una donna libera sessualmente, ideologicamente e politicamente. Dopo un’intricata vicenda editoriale e un’infinita serie di rifiuti, la prima parte de L’arte della gioia viene pubblicata nel 1994 presso Stampa Alternativa, che nel 1998 propone la versione integrale; ma il caso Goliarda Sapienza esplode in Italia dieci anni dopo a seguito della scoperta del capolavoro all’estero: la casa editrice francese Viviane Hamy pubblica infatti per prima l’edizione integrale tradotta de L’Art de la joie (2005); segue la pubblicazione tedesca In den Himmel stürzen (2006), quelle spagnole L’art de viure (2007) e El arte del placer (2007) fino ad arrivare all’edizione italiana di Einaudi nel 2008.

Dopo L’arte della gioia, Sapienza si dà alla composizione di altri capitoli dell’«autobiografia delle contradizioni»: Io, Jean Gabin, la cui stesura si colloca probabilmente alla fine degli anni Settanta, pubblicato postumo da Einaudi nel 2010 e i racconti dell’esperienza di Rebibbia. Dopo il breve periodo di reclusione in carcere, dovuto a un furto di gioielli, Goliarda decide di narrare la sua ‘avventura’ in prigione in L’università di Rebibbia (Rizzoli, 1983) e Le certezze del dubbio (Pellicanolibri, 1987). In entrambi i testi la parentesi carceraria viene rievocata come un momento di formazione, un’ulteriore occasione di apprendistato alla vita:

Sono come ripulita, il bagno di vita fatto a Rebibbia, mi ha come purificata: taglio netto col mondo dei salotti, dei discorsi sofisticati e tutto il resto.[8]

Negli ultimi anni sono stati pubblicati gli scritti teatrali, Tre pièces e soggetti cinematografici (2014), e il romanzo Appuntamento a Positano (2015). In queste opere, come già in Io, Jean Gabin, emerge con evidenza la centralità dell’esperienza cinematografica non soltanto come snodo centrale della sua biografia, ma anche come fonte di ispirazione che suggerisce alla sua scrittura immagini, temi, figure:

Scrivo sul trenino per tornare a casa. Sono stanchissima e con qualche malinconia data dal ricordo di tanto cinema fatto con Citto, in pieno entusiasmo e accordo: quaranta documentari e quattro o cinque film insieme, fino agli indifferenti. Ho fatto tutti i mestieri, e ho imparato più dal cinema che da cento università.[9]

 


1 G. Sapienza, Lettera aperta. Romanzo, Palermo, Sellerio, 2008, p. 151.

2 G. Sapienza, Il filo di mezzogiorno, Milano, Garzanti, 2015, p. 18.

3 Ivi, p. 20.

4 Ivi, p. 103.

5 L. Cardone, Goliarda attrice nel/del cinema italiano del secondo dopoguerra, in M. Farnetti (a cura di), Appassionata Sapienza, Milano, La Tartaruga, 2011, p. 47.

6 G. Sapienza, Il vizio di parlare a me stessa. Taccuini 1976-1989, a cura di G. Rispoli, pref. di A. Pellegrino, Torino, Einaudi, 2011, p. 161

7 G. Sapienza, La mia parte di gioia. Taccuini 1989-1992, Torino, Einaudi, 2013, p. 155.

8 G. Sapienza, Il vizio di parlare a me stessa, p. 120.

9 G. Sapienza, La mia parte di gioia, pp. 103-104.