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Nel grande – e sempre più frequentato – tavolo da gioco degli studi sulle relazioni tra letteratura e arti visive, una casella sembra fino a oggi esser rimasta ignorata, quantomeno entro gli orizzonti italiani: quella del personaggio artista. Se infatti all’estero – e si pensi almeno a Marcuse (Il “romanzo dell’artista” nella letteratura tedesca [1922], Einaudi 1985), a Beebe (Ivory Towers and Sacred Founts, New York University Press 1964) e a Paillard (Le roman du peintre, Presses Universitaires Blaise Pascal 2008) – esiste una tradizione di studi che ha analizzato le forme della rappresentazione dell’artista nel romanzo contemporaneo, con un’attenzione rivolta ora alla dimensione estetico-figurale, ora a quella storico-sociale, in Italia sono stati pochi, e spesso maldestri, i tentativi di organizzare in maniera coerente un percorso critico intorno a questa figura dell’immaginario culturale (si pensi alla poco perspicua tassonomia per generi romanzeschi e all’approccio prevalentemente descrittivo offerto da J. Spaccini in Sotto la protezione di Artemide Diana, Rubbettino 2009). Arriva quindi più che opportuno il recentissimo saggio di Filippo Milani, Il pittore come personaggio. Itinerari nella narrativa italiana contemporanea (Carocci 2020).

Milani, che da anni si occupa di autori la cui scrittura è dotata di una speciale dimensione visiva (su tutti Gianni Celati e Giuseppe Raimondi, ma si dovrà ricordare anche l’importante lavoro dedicato a Francesco Arcangeli, Le forme della luce. Francesco Arcangeli e le scritture di “tramando”, Bononia University Press 2018), muove il suo studio da una considerazione: il personaggio pittore è una figura che, nonostante la recente perdita di una riconoscibile funzione sociale dell’arte (e in particolare della pittura) nell’epoca contemporanea, continua a rivestire un ruolo significativo nell’immaginario collettivo, come testimoniano le tante narrazioni che vi fanno ricorso. E lo studio di queste narrazioni consente di sciogliere un simile paradosso, partendo dal riconoscimento del fatto che il personaggio pittore «riunisce in sé diverse funzioni» (p. 9) e si fa cardine quindi della dimensione intermediale del racconto. Innanzitutto, infatti, la presenza di questo personaggio comporta, per lo scrittore, la sfida a dare rappresentazione al ‘sentire superiore’ che si attribuisce comunemente all’artista, ovvero a riprodurre la sua «acuta sensibilità ottico-manuale attraverso un’accurata sensibilità linguistica» (p. 16). È per questo che Milani assegna un’indiscutibile centralità all’ekphrasis nella sua trattazione, poiché costituisce la strategia decisiva per restituire sulla pagina lo sguardo del pittore. Beninteso, non si tratta dell’unico approccio possibile, giacché il personaggio pittore attiva, ad esempio, anche meccanismi di intreccio ricorrenti (script e frames che gli sono statutariamente connessi), che possono rilevare la capacità di chi scrive di distaccarsi o meno da una sorta di ‘leggenda dell’artista’. Tuttavia, quel che interessa Milani è proprio riconoscere le ‘implicazioni’ visive che la presenza di questo personaggio determina nel racconto, al fine di comprendere come le narrazioni abbiano provato a rispondere al cambio di paradigma ermeneutico che ha coinvolto la testualità e il linguaggio iconico nel corso del secondo Novecento.

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Goliarda Sapienza nasce a Catania il 10 maggio del 1924 e muore a Gaeta il 30 agosto 1996. Figlia di Maria Giudice, figura storica della sinistra italiana e prima dirigente donna della Camera del lavoro di Torino, e Peppino Sapienza, militante antifascista iscritto al partito socialista, trascorre l’infanzia a Catania in un contesto familiare eccentrico, libero e anticonformista. Il suo talento multiforme e versatile trova espressione prima nel teatro e nel cinema e poi nella letteratura.

La sua «(ri)nascita» come scrittrice avviene solo in età adulta, quando decide di rinunciare alla recitazione, che da bambina aveva vissuto come la vocazione prediletta attraverso cui esprimere il suo estro e la sua creatività. Lei stessa indica le coordinate all’interno delle quali si sviluppa la propria inclinazione attoriale:

Amante del teatro, il padre Peppino la sostiene con grande fiducia, iscrivendola, a sua insaputa, all’esame di ammissione per entrare all’Accademia di Arte Drammatica di Roma diretta da Silvio D’Amico. Nell’autunno del 1941 Goliarda e la madre intraprendono il viaggio verso Roma. Con la gioia nel cuore e la paura di non esserne all’altezza, la scrittrice viene ammessa all’Accademia grazie all’enfasi della sua recitazione:

L’euforia di poter accedere alla scuola d’arte drammatica più illustre d’Italia si sostituisce presto alla sofferenza di essere stata ammessa con riserva: il talento c’è, ma prima della fine dell’anno, allo scadere di tre mesi, deve dimostrare di aver saputo correggere la sua disastrosa pronuncia siciliana. Quel che sembrava in apparenza impraticabile diviene possibile grazie alla sua incrollabile volontà:

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Il mio cervello

pullula di belle idee per il teatro.

Ma non so se mi ci dedicherò.

Italo Calvino, 1942

 

In occasione dei trent’anni dalla scomparsa di Italo Calvino, uno degli scrittori più eclettici del secondo dopoguerra, riprendiamo il bel volume di Enrica Maria Ferrara, Calvino e il teatro: storia di una passione rimossa (edito da Peter Lang nel 2011), votato a ripercorrere la traiettoria dell’avventura teatrale dello scrittore sanremese dagli esordi alla travagliata riscrittura di Un re in ascolto che lo accompagnerà sino alla morte nel 1985. Il volume disegna la ‘linea dell’arco’ lungo la quale si evolve l’esperienza drammaturgica calviniana e, pur non avendo a disposizione tutte le ‘pietre’ lasciate dallo scrittore, l’autrice riesce a consegnarci un Calvino inedito facendo ricorso a due gruppi di documenti: le recensioni teatrali, apparse su L’Unità fra il 1949 e il 1950, e l’epistolario dello scrittore, pubblicato nel 2000 nella collezione “I Meridiani”, che include numerose missive indirizzate a Eugenio Scalfari tra il 1941 e il 1943, ricche di dettagliate descrizioni delle opere teatrali progettate e realizzate in gioventù, nonché dei suoi modelli e della sua poetica.

Grazie agli stralci delle lettere presenti nel volume e alla ricostruzione appassionata fatta da Ferrara scopriamo l’intensa vocazione teatrale di Calvino, elemento questo che stupisce se si considera la totale scomparsa delle opere scritte in quel periodo: l’unico testo teatrale giovanile a disposizione della critica e del pubblico dei lettori è infatti I fratelli di Capo Nero (1943), pubblicato nel terzo volume dei Romanzi e Racconti. Durante la fase giovanile, narrativa e teatro sono compresenti, almeno a livello progettuale, e lo scrittore si rende conto che la produzione teatrale può essere congeniale al suo piglio. Eppure, ci fa notare l’autrice, il Calvino narratore ostenta «noncuranza e critica distanza» nei confronti della propria produzione drammaturgica, assecondando l’opinione della critica che il teatro facesse parte di un terreno ‘sperimentale’ e minore nel suo impegno letterario. Rimane però il fatto che dal marzo del 1942 fino all’estate del 1943 le lettere di Calvino fervono di progetti per opere teatrali (12 sono i titoli di cui fa menzione) che solo in parte saranno realizzati e del cui adattamento lo scrittore invia puntuali e dettagliate notizie all’amico Scalfari. Contemporaneamente, Calvino si dedica alla narrativa e matura la decisione di portare una copia del suo manoscritto di racconti, dal titolo Pazzo io o pazzi gli altri, al giudizio di Einaudi (che rifiuta la proposta). In questo periodo l’evoluzione del gusto calviniano e i modelli da lui seguiti si avvicendano con un ritmo che rispecchia da un lato la ricerca estetica dello scrittore esordiente, dall’altro la molteplicità delle forme teatrali che convivono sulla scena italiana nel ventennio fascista. Ferrara affronta il rapporto che lo scrittore intrattiene con quelli che reputa modelli ‘ispiratori’: se i due assi portanti del teatro novecentesco italiano sono senza dubbio Luigi Pirandello (presenza ‘ingombrante’) e Gabriele D’Annunzio, il confronto con drammaturghi come Henrik Ibsen, Eugene O’Neill e Edmond Rostand rende impossibile l’imitazione di modelli abusati dal teatro tradizionale.

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Di cosa parliamo quando parliamo di realismo e come sono fatti, negli ultimi anni, i testi più programmaticamente basati sulla commistione di convenzionalità di genere e mimesi del particolare? Sembra un po’ questo l’interrogativo di fondo del volume miscellaneo Finzione Cronaca Realtà. Scambi, intrecci e prospettive nella narrativa italiana contemporanea, curato di Hanna Serkowska.

Considerata l’ampiezza della questione e l’impossibile chiusura del cerchio tra analisi differenti di differenti retoriche intorno al rispecchiamento e alla rappresentazione degli eventi, il compito è arduo. Forse anche per questo il volume inizia con un’articolazione generale entro la quale Alberto Casadei e Raffaele Donnarumma tentano di definire e aggiornare il concetto di realismo in «Realismo e allegoria nella narrativa italiana contemporanea» e «Angosce di derealizzazione». Mentre Casadei nomina e classifica i procedimenti allegorici oggi dominanti in rapporto al loro tasso di funzionalità mimetica, Donnarumma esemplifica alcuni tentativi di uscita dall’impasse novecentesca e denuncia le precauzioni residuali alla base di un’etichetta iper-inclusiva come non-fiction: fondare quella che ha la pretesa di essere una vera e propria macrocategoria sul rovesciamento di una negazione (il contrario di ciò che non è vero) sembra in effetti una misura di profilassi compulsiva, un riflesso controintuitivo prolungato e ribadito sino a diventare senso comune.

Che parte del discorso sotteso a tutti i saggi conservi un’aura quasi teoretica resta comunque inevitabile. Focalizzandosi sul versante mimetico-rappresentazionale, infatti, si finisce con una certa frequenza a chiedersi cosa siano la mimesi e la rappresentazione, e perché produrle sia urgente o anche solo legittimo in certi tempi e luoghi. Un’ottima spia a questo proposito è l’articolo che segue quelli di Casadei e Donnarumma, in cui Margherita Ganeri diagnostica una «allergia al concetto di realtà», constatando come le polemiche seguite al numero 57 di «Allegoria» si articolassero in modi tutto sommato pretestuosi per arretrare di fronte alla questione malauguratamente detta ‘del ritorno alla realtà’. Ecco quindi che i primi tre articoli, presi nel loro complesso, segnalano che esiste – in questo tempo e in questi spazi – un collegamento tra evento e racconto; che anche le parole scritte, nell’etere attualmente dominato dalla visività più o meno interattiva, possono denunciare e dire ‘l’aspra verità’; che il buon ritiro della critica e della narrativa in un dominio estetico separato è una scelta avvilente, a fronte di uno scontro aperto tra la testimonianza come urgente gesto etico e la proliferazione di grandi narrazioni niente affatto deboli.

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