Enrica Maria Ferrara, Calvino e il teatro: storia di una passione rimossa

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Il mio cervello

pullula di belle idee per il teatro.

Ma non so se mi ci dedicherò.

Italo Calvino, 1942

 

In occasione dei trent’anni dalla scomparsa di Italo Calvino, uno degli scrittori più eclettici del secondo dopoguerra, riprendiamo il bel volume di Enrica Maria Ferrara, Calvino e il teatro: storia di una passione rimossa (edito da Peter Lang nel 2011), votato a ripercorrere la traiettoria dell’avventura teatrale dello scrittore sanremese dagli esordi alla travagliata riscrittura di Un re in ascolto che lo accompagnerà sino alla morte nel 1985. Il volume disegna la ‘linea dell’arco’ lungo la quale si evolve l’esperienza drammaturgica calviniana e, pur non avendo a disposizione tutte le ‘pietre’ lasciate dallo scrittore, l’autrice riesce a consegnarci un Calvino inedito facendo ricorso a due gruppi di documenti: le recensioni teatrali, apparse su L’Unità fra il 1949 e il 1950, e l’epistolario dello scrittore, pubblicato nel 2000 nella collezione “I Meridiani”, che include numerose missive indirizzate a Eugenio Scalfari tra il 1941 e il 1943, ricche di dettagliate descrizioni delle opere teatrali progettate e realizzate in gioventù, nonché dei suoi modelli e della sua poetica.

Grazie agli stralci delle lettere presenti nel volume e alla ricostruzione appassionata fatta da Ferrara scopriamo l’intensa vocazione teatrale di Calvino, elemento questo che stupisce se si considera la totale scomparsa delle opere scritte in quel periodo: l’unico testo teatrale giovanile a disposizione della critica e del pubblico dei lettori è infatti I fratelli di Capo Nero (1943), pubblicato nel terzo volume dei Romanzi e Racconti. Durante la fase giovanile, narrativa e teatro sono compresenti, almeno a livello progettuale, e lo scrittore si rende conto che la produzione teatrale può essere congeniale al suo piglio. Eppure, ci fa notare l’autrice, il Calvino narratore ostenta «noncuranza e critica distanza» nei confronti della propria produzione drammaturgica, assecondando l’opinione della critica che il teatro facesse parte di un terreno ‘sperimentale’ e minore nel suo impegno letterario. Rimane però il fatto che dal marzo del 1942 fino all’estate del 1943 le lettere di Calvino fervono di progetti per opere teatrali (12 sono i titoli di cui fa menzione) che solo in parte saranno realizzati e del cui adattamento lo scrittore invia puntuali e dettagliate notizie all’amico Scalfari. Contemporaneamente, Calvino si dedica alla narrativa e matura la decisione di portare una copia del suo manoscritto di racconti, dal titolo Pazzo io o pazzi gli altri, al giudizio di Einaudi (che rifiuta la proposta). In questo periodo l’evoluzione del gusto calviniano e i modelli da lui seguiti si avvicendano con un ritmo che rispecchia da un lato la ricerca estetica dello scrittore esordiente, dall’altro la molteplicità delle forme teatrali che convivono sulla scena italiana nel ventennio fascista. Ferrara affronta il rapporto che lo scrittore intrattiene con quelli che reputa modelli ‘ispiratori’: se i due assi portanti del teatro novecentesco italiano sono senza dubbio Luigi Pirandello (presenza ‘ingombrante’) e Gabriele D’Annunzio, il confronto con drammaturghi come Henrik Ibsen, Eugene O’Neill e Edmond Rostand rende impossibile l’imitazione di modelli abusati dal teatro tradizionale.

Tuttavia, dopo la guerra Calvino abbandona la scrittura teatrale, secondo Ferrara per aderire ai criteri della politica culturale del Partito Comunista Italiano. Egli preferisce, infatti, che il suo nome non sia associato a istituzioni teatrali controllate da esponenti mal epurati del vecchio regime fascista e fa in modo che le sue opere teatrali giovanili, che risentono dei contenuti e delle ideologie di propaganda del ventennio, non vengano mai alla luce. Segue il consiglio di Cesare Pavese ed Elio Vittorini di intraprendere una strada più ‘commerciale’. Di teatro non si parla più: per «diventare qualcuno» bisogna scrivere narrativa e, in particolare, il romanzo (nel 1947 viene pubblicato Il sentiero dei nidi di ragno).

Eppure il teatro è sempre dietro l’angolo, tanto che negli anni 1949-1950 Calvino si trova a svolgere l’attività di critico teatrale per L’Unità, con l’incarico di recensire le prime al Teatro Carigliano. Ferrara esplora le linee di continuità esistenti fra l’opera teatrale giovanile e il lavoro editoriale e giornalistico riuscendo bene a filtrare e scindere le dichiarazioni di poetica viziate dalla propaganda politica da quelle che si possono considerare un portato autentico delle riflessioni calviniane sul teatro.

Il volume affronta la spinosa questione della perdita degli scritti successivi (per esempio le trasposizioni radiofoniche dei racconti Ultimo viene il corvo e Un pomeriggio Adamo) e analizza come alcuni snodi drammaturgici, desunti sempre dalla lettere e dalle informazioni offerte dai curatori dell’opera completa dello scrittore, nutrano la produzione di Calvino, dopo essere stati rimaneggiati in chiave narrativa. Citiamo, tra tutti gli esempi riportati, il caso de Il sentiero dei nidi di ragno che vede migrare al suo interno molti spunti de I Fratelli di Capo Nero: qui Ferrara, attraverso una serie di confronti ragionati, dimostra come i tratti caratterizzanti di Tito, protagonista ne I Fratelli, siano distribuiti da Calvino fra i due personaggi chiave, Pin e Kim, de Il Sentiero e che Tito è senz’ombra di dubbio il predecessore di entrambi.

Dopo oltre dieci anni di apparente silenzio sul versante drammaturgico da parte dello scrittore (Ferrara rivolge la sua attenzione a un testo come Il Taccuino di viaggio in Unione Sovietica del 1952, contenente inedite riflessioni in materia di teatro), si arriva alla pubblicazione dell’atto unico La panchina (composto nel 1955 e messo in scena a Bergamo nel 1956), nel quale sono operanti i criteri di quella poetica teatrale elaborata tra il 1949 e il 1950 e rivisitata grazie al fertile incontro con le formule dell’estetica marxista brechtiana del teatro epico. Sembra quasi che con La panchina Calvino faccia i conti con la propria ispirazione teatrale e si riappropri di un’identità rimossa. L’elemento catalizzatore che aiuta lo scrittore a rispolverare e incanalare la sua passione per la drammaturgia è l’incontro con l’attrice di teatro Elsa de’ Giorgi con la quale inizia una relazione sentimentale nel 1955. Stando alla biografia di de’ Giorgi, le conversazioni sul teatro che si svolgevano tra i due e l’ammirazione che lo scrittore provava nei suoi confronti, contribuirono a reinnestare una passione sepolta. Purtroppo le 156 lettere dell’epistolario Calvino-de’ Giorgi sono protette dalla legge sulla privacy, ma anche queste, insieme ai molti testi contenuti nell’archivio dello scrittore e ancora inediti, consentirebbero di ricostruire la poetica teatrale calviniana.

Fortunatamente Ferrara riesce ad ottenere col poco materiale a disposizione risposte adeguate, estendendo così la zona di luce nella quale l’opera teatrale calviniana si colloca nel panorama degli studi critici. Ad ogni modo, nonostante l’apprezzabile risultato raggiunto, la ricerca intrapresa da Ferrara non pretende, per sua stessa ammissione, di essere esaustiva – e probabilmente su questo fronte c’è ancora tanto da scoprire.

Fra le omissioni rilevate c’è una collaborazione che in questa sede ci fa piacere ricordare. Poco prima della morte, il feeling antico tra Calvino e il teatro si materializza, grazie ad Antonio Pasqualino, nel bosco antropomorfo della fiaba. A seguito del continuo scambio tra le parabole-metafore dell’universo calviniano e il teatro degli oggetti-metafore dell’antropologo palermitano, Calvino riduce La foresta-radice-labirinto per il teatro degli attori e delle marionette: lo spettacolo viene portato in scena nel 1987 prima a Roma e poi a Palermo, con l’adattamento di Roberto Andò (che integra il testo originario con brani poetici di Andrea Zanzotto e alcuni passi della Gerusalemme Liberata del Tasso), le scenografie e le marionette di Renato Guttuso. La foresta-radice-labirinto rielabora miti cavallereschi, codici e scansioni della favola tradizionale secondo una misteriosa intuizione di Calvino; al fondo della messa in scena si staglia il difficile equilibrio tra cosmo e società, il rischio che il regno dell’uomo, e della razionalità, precipiti nel caos.

Sembra quasi che sulle due passioni della gioventù – il teatro e la fiaba – Calvino abbia edificato se stesso e allora tanto il volume di Ferrara quanto il ricordo di questo spettacolo magico ci restituiscono di lui un’immagine pressoché nuova, diversa ma non distante dall’immagine, canonizzata, del narratore di successo.

 

Tag: Italo Calvino, teatro, narrativa, epistolario, Enrica Maria Ferrara.