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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →

A partire dall’esordio cinematografico in Panic Room (Fincher, 2002), l’attrice losangelina Kristen Stewart (1990) è spesso stata chiamata a ricoprire ruoli la cui complessità emerge in maniera definita soprattutto nella relazione con lo spazio domestico – per lo più ostile o difficilmente pacificato – in cui si muovono. Enucleando alcune performance indicative (quelle dirette dal regista francese Olivier Assayas e quella nei panni della principessa Diana in Spencer di Larraín del 2021), il presente contributo vuole mettere in evidenza come il corpo di Stewart, nell’eterogeneità dei generi cinematografici e dei contesti produttivi, si riveli uno ‘strumento’ capace di restituire – tramite posture e gesti ricorsivi – le tensioni e i desideri che animano le sue protagoniste nel rapporto con l’ambiente domestico circostante.

Il 2 marzo 2022, l’attrice losangelina Kristen Stewart – classe 1990, quarantacinque pellicole all’attivo – viene premiata dalla Hollywood Critics Association nella categoria Best Actress per l’interpretazione da protagonista nel dramma biografico Spencer (Pablo Larraín, 2021). Scott Menzel ed Erik Anderson, tolti i sigilli dalla busta contenente il verdetto, annunciano all’unisono la vincitrice: «Kristen – fucking – Stewart». L’utilizzo dell’intercalare, che è certo comune nello slang informale, non è in questo caso praticato senza ragione: esso è speso come una sorta di ‘omaggio’ allo stile verbale di Stewart, attrice incline a pronunciare parolacce dentro e fuori lo schermo, star che sfugge all’immagine potenzialmente chic consegnata dai propri outfit Chanel – di cui è da anni brand ambassador – togliendosi gli scomodi tacchi per affrontare l’escalier di Cannes e sfidando l’assunto educativo secondo il quale le parolacce non stanno bene in bocca ai ragazzi, men che meno alle ragazze.

In effetti, tale atto verbale ha costituito il gesto inaugurale della performance con la quale Stewart ha firmato definitivamente il proprio ingresso nell’industria cinematografica hollywoodiana. L’attrice ha undici anni quando viene selezionata da David Fincher per interpretare la figlia preadolescente di Jodie Foster in Panic Room (2002), thriller nel quale la famiglia monoparentale formata da Sarah (Stewart) e Meg (Foster) è presa in ostaggio da tre scassinatori nella townhouse newyorkese dove madre e figlia si sono appena trasferite. Ancora segnata dal recente divorzio, Meg scopre nella figlia Sarah la voce di una coscienza che le suggerisce un taglio netto con la vita precedente, una soluzione definitiva nello stabilire il nuovo peso dei rapporti con l’ex marito fedifrago: «Fuck him. Fuck her, too». L’autosegregazione all’interno della panic room – la ‘stanza antipanico’ costruita dal precedente proprietario della townhouse come bunker di difesa – suggerisce didascalicamente la complicata transizione sociale; l’indipendenza – innanzitutto domestica – in fase di acquisizione è subito messa in crisi dall’introduzione violenta dei tre malviventi, che costringe le due donne ad auto-relegarsi in una strana declinazione della stanza ‘tutta per loro’, un luogo certo esclusivo ma altresì angusto, tecnologicamente complesso e inospitale. È però proprio all’interno di queste quattro anguste mura che si registra uno scivolamento dal genere del woman-in-peril movie a quello dell’action movie nel quale spicca la figura della final girl (cfr. Williams, 2002): la panic room si configura ben presto come la fucina di una rivolta che passa dalle intimidazioni suggerite da Sarah e urlate senza convinzione all’interfono da Meg («Get the fuck out of my house!») a un vero e proprio piano strategico, messo a punto tramite un sapiente utilizzo delle tecnologie della stanza [fig. 1] e il coinvolgimento fisico in azioni violente.

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«Un’immagine dialettica»: si apre così, nell’evocazione della stillstand benjaminiana, il volume Vedere, Pasolini (Ronzani, 2022) curato da Andrea Cortellessa e Silvia De Laude, trasposizione cartacea del numero 181 di Engramma del maggio 2021. Un volume che si aggiunge al coro dei «fescennini centenari» (p. 13) nel segno della visività o, meglio, della «fulgurazione figurativa»:[1]Vedere, Pasolini, dove Pasolini è oggetto del vedere, un vedere che si fa verbo, critica, ma anche soggetto, colui che vede, che si fa vista, immagine, luce. Una luce che squarcia le tenebre della «nuova preistoria»[2] nel tentativo costante di mostrare la realtà, il «cinema in natura»,[3] le diapositive luminose della vita al di là dell’oscurità del conformismo borghese e neocapitalista. È in questo senso che l’intera opera pasoliniana può essere considerata come un’‘immagine dialettica’, come un «montaggio»[4] continuo di materiali della realtà che si concretizza in ipostasi mobili, in immagini appunto, nelle quali convergono e si riattivano traiettorie culturali vicine e lontane, dal mito alla contemporaneità politica, dalla cultura figurativa seicentesca alla critica letteraria del Novecento. Ed è sempre in questo senso che Vedere, Pasolini può essere interpretato come la fotografia di un soggetto in movimento, come una rappresentazione attiva in cui le direzioni della poiesis pasoliniana convergono da tempi multipli, da prospettive plurime (e talvolta antinomiche), legate dal fil rouge della visività.

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Mettere in scena la tragedie di Pasolini è un’operazione da far tremare i polsi; lo dimostra l’esiguità di regie tratte dal Teatro di Parola in un contesto, come quello del centenario dell’autore ormai alle ultime battute, che ha visto una fioritura di convegni, mostre, iniziative, e anche spettacoli teatrali – tra cui è da ricordare Questo è il tempo in cui aspetto la grazia, biografia poetica di PPP ad opera di Fabio Condemi e Gabriele Portoghese.[1] Se poche e pochi hanno avuto il coraggio di attraversare il corpus pasoliniano lungo questa direttrice, è quindi particolarmente meritorio il programma Come devi immaginarmi / Progetto Pasolini, curato dal direttore di Emilia Romagna Teatro Valter Malosti insieme a Giovanni Agosti, che ha commissionato allestimenti di tutti i testi teatrali di Pasolini, ideati nel 1966 (durante un grave attacco di ulcera): prima di Pilade, in scena dal 16 al 19 febbraio 2023, ha aperto il ciclo il Calderón diretto da Fabio Condemi; seguiranno Bestia da stile diretto da Stanislas Nordey, Orgia di Federica Rosellini e Gabriele Portoghese, Porcile a cura di Michela Lucenti e Balletto Civile insieme alla compagnia Arte e Salute di Nanni Garella, e Affabulazione di Marco Lorenzi. Un parterre di artiste e artisti diversamente ‘giovani’ (in un paese dove la gioventù artistica è una condanna che affligge ben oltre il mezzo del cammin dantesco) alle prese con una forma, la performance dal vivo, in cui la tendenza alla museificazione può avere effetti devastanti, e la contaminazione con il tempo presente è una necessità imprescindibile.

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Il contributo propone un’analisi del film di David Grieco La macchinazione (2016) – e in parallelo, soprattutto nella prima parte, del libro omonimo del 2015 – come caso di studio da cui sia possibile evincere, anche attraverso le modalità di costruzione del protagonista della pellicola, aspetti rappresentativi del ‘personaggio’ Pasolini e relativi, in particolare, ai lineamenti del suo volto e alla rappresentazione visiva dell’intellettuale intento a scrivere.

Il contributo propone un’analisi del film di David Grieco La macchinazione (2016) – e in parallelo, soprattutto nella prima parte, del libro omonimo del 2015 – come caso di studio da cui sia possibile evincere, anche attraverso le modalità di costruzione del protagonista della pellicola, aspetti rappresentativi del ‘personaggio’ Pasolini e relativi, in particolare, ai lineamenti del suo volto e alla rappresentazione visiva dell’intellettuale intento a scrivere.

 

Il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini ha confermato la vitalità della fortuna critica di un autore che continua a intercettare il nostro orizzonte d’attesa. Iniziative editoriali, come l’uscita per Garzanti della nuova edizione di Petrolio curata da Maria Careri e Walter Siti, e una quantità estremamente nutrita di studi monografici invitano a riflettere sull’attuale ricezione dell’opera dello scrittore. Ma le iniziative accademiche, gli eventi artistici – tra mostre, spettacoli teatrali, documentari, reading – che hanno costellato la celebrazione dei cento anni dalla nascita del poeta vanno ben oltre la lettura delle dinamiche di appropriazione del macrotesto di un autore da parte di una comunità letteraria: la figura di Pasolini, il suo esistere così fatalmente caratterizzato da un corpo in equilibrio tra arte e vita, si collegano strettamente, infatti, anche all’attrazione esercitata da una personalità ‘magnetica’, ‘eccedente’.

Non è affatto semplice conciliare l’analisi rigorosa di una produzione letteraria – o latamente artistica – con concetti imponderabili quali sono quelli che ruotano intorno alle esperienze personali o al carisma di uno scrittore; tuttavia, il rilievo del profilo pubblico del poeta-regista incoraggia ogni impegno in tal senso, mettendo alla prova sguardi e analisi frequentemente attirati nell’orbita di un fascino, allo stato attuale, inestinguibile.

I tratti peculiari del Pasolini personaggio hanno per altro trovato una loro adeguata contestualizzazione critica nell’ultimo lavoro di Gian Carlo Ferretti. Lo studioso ha puntualmente indagato gli aspetti che hanno contribuito alla nascita e alla definizione dell’immagine pubblica dello scrittore, intrecciando il ricordo di vicende relative alla sua biografia, l’analisi dei testi e le reazioni – spesso, com’è noto, moralistiche e pretestuose – del mondo editoriale, del milieu letterario, delle istituzioni e della stampa. I casi, editoriali e giudiziari, che non di rado hanno accompagnato l’uscita delle opere di Pasolini scorrono in parallelo, nell’indagine di Ferretti, con la messa a fuoco della postura intellettuale del poeta, di quel suo incessante muoversi fra «umiltà e divismo, ostracismi e agiatezze, scandalo sofferto ed esibito, coraggio intellettuale e gusto della provocazione»[1] che ha cooperato, anche a partire dagli stessi interventi dello scrittore, alla costruzione di un’immagine condivisa; un’immagine la cui popolarità è rintracciabile in maniera empirica, oltre che in interessanti affondi critici come quello offerto da Ferretti, all’interno di un vasto e articolato orizzonte espressivo, di cui fanno parte la parola letteraria, il linguaggio figurativo, il mondo dei fumetti, come dimostrano, rispettivamente, i recenti contributi di Elena Porciani, Viviana Triscari, Martina Mengoni.[2]

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Nelle note raccolte sul foglio di sala lo spettacolo Questo è il tempo in cui attendo la grazia è presentato come una biografia onirica e poetica di Pier Paolo Pasolini attraverso le sue sceneggiature. Progetto originale 2019 del Teatro Comunale Giuseppe Verdi-Pordenone in collaborazione con Teatro di Roma-Teatro Nazionale, Teatro del Lido di Ostia e Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa, il lavoro è stato concepito dal regista teatrale Fabio Condemi insieme all’attore Gabriele Portoghese e a Fabio Cherstich, che ne ha curato la drammaturgia dell’immagine.

In scena troviamo un’unica figura, Portoghese-Pasolini, che si lascia attraversare da un materiale letterario incandescente, portando avanti un’indagine non tanto sul cinema dell’autore quanto sul suo sguardo. Alcuni frammenti tratti dalle sceneggiature di film editi e inediti – quali Edipo Re, Medea, Il fiore delle mille e una notte, La ricotta, Appunti per un film su San Paolo – scandiscono l’intera durata dello spettacolo fino a inabissarsi nel finale. Le parole e i titoli delle sceneggiature, insieme a videoriprese realizzate da Condemi e da Igor Renzetti, scorrono su uno schermo alle spalle dell’interprete, stimolando gli spettatori a sognare in un gioco continuo di sottrazioni e sospensioni rispetto al procedere della ‘narrazione’, un vero e proprio cinema a occhi aperti.

Abbiamo incontrato il regista di Questo è il tempo in cui attendo la grazia – che di recente si è confrontato nuovamente con Pasolini, affrontando questa volta l’opera teatrale Calderón – per porgli alcune domande sul lavoro di costruzione drammaturgica svolto a partire dalle sceneggiature pasoliniane, sul rapporto che in scena si instaura tra la parola, pronunciata da Portoghese, e l’immagine in movimento, proiettata su uno schermo bianco, e infine sulla relazione aperta e molteplice che si può generare tra questi corpi luminosi e i corpi degli spettatori immersi nel buio della sala.

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Tu sei un appunto preparatorio, un ritornello, un profilo economico, un piano di rientro, un’esperienza di pagamento, un cliente gold, un cliente small business, uno small business, una copia conforme all’originale, un errore già previsto e incoraggiato, una ferita superficiale, un incidente di percorso, un percorso di crescita, una finestra di mercato, una singola immagine, un’origine, una destinazione, uno di noi, uno come tanti, uno analogico, uno già digitale, una tecnica primitiva, una storia, la nostra storia semplice, noi. Tu sei solo, un’immagine di repertorio, una sequenza pur essendo solo, qualcosa a cui è facile credere, un’opportunità, un obiettivo sfidante, un ciclo di realizzazione, una liquidazione a prezzo di realizzo, una nuova collezione, il futuro più grande del tuo passato, il must della prossima estate, un piano di rientro, un episodio di sofferenza, una componente variabile, un riflesso filmato, una firma in calce, un autografo, un pezzo di carta che può definirsi denaro, il nostro DNA, qualcosa di più del tuo raggio d’azione. Tu sei un tasso d’interesse, la propensione al consumo, l’ultima novità, un percorso teorico, un manifesto programmatico, un processo mentale, uno stato di incoscienza, uno stato indotto, il bisogno che precede il denaro, il desiderio che precede il bisogno, la riproduzione infedele di ciò che non accadrà mai. Tu sei il trapassato futuro, una musica diffusa, un muro sonoro, una forma d’esteriorità, un titolo, uno slogan, un ciclo, la geopolitica dell’andare a bere qualcosa, lo spreco di un’energia latente, la nozione di resto, una pulsione di vita, un segno, una pulsione di morte, un prodotto, il passaggio tra fisicità e astrazione, l’equivalenza che diventa sistema, la mano che resiste all’automazione, la riproduzione dell’egemonia altrui. Tu sei un puro consumo di tempo, l’allenamento alla noia, un lavoro nel tempo libero, l’origine, una piccola cosa, il punto in cui la cosa è, l’immagine prefigurata che accadrà ogni volta uguale a se stessa, un target di mercato, l’ingresso al lusso come categoria merceologica, una necessità biologica, un sabotaggio, un attentato, una catastrofe naturale, una ragazzata. Tu sei la distruzione, l’ordine delle cose, un lutto primitivo, una festa, un rito, un ballo propiziatorio, l’alibi di chi guarda, l’esecuzione di un cerimoniale, l’appropriazione privata della distruzione pubblica, l’individuo condannato a essere solo in uno sciame, l’agire comunicativo, il lavoro indistinguibile dal non lavoro, la strategia per crescere. Tu sei un debito, una colpa, un evento, l’immagine che sopraffà l’evento, l’immagine che è evento in quanto immagine, la distruzione, la visione unificante, la libertà di un prodotto in commercio, l’economia della disattenzione, il segno di una dimenticanza. Tu sei pronto per essere sostituito, la materia prima, il punto di non ritorno, il fuoco di un’idea, la rivoluzione di un colore. (Giorgio Falco)

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A partire dal riferimento al ‘cinematografaro’ in La religione del mio tempo e nelle Note sulle “Notti”, dedicate al film su Cabiria, e in altre recensioni, resoconti sulla produzione, interventi, interviste e riferimenti poetici e filmici, si scopre che Fellini è il protagonista del cinema italiano più presente nella produzione pasoliniana. Dalla prima lettura delle opere di Pasolini da parte del regista riminese e dal loro successivo incontro emerge una condivisione profonda umana e artistica che apre a collaborazioni e ispirazioni comuni. Le immagini di Fellini su Pasolini-personaggio si compongono quindi a partire da quella di scrittore e interlocutore. Pur nella diversità estetica e stilistica che li separava, i due cineasti avevano molti elementi in comune che li porteranno a esplorare insieme le periferie romane, di cui Pasolini ne restituisce la suggestiva ambiguità felliniana mentre il secondo ne trasferirà i caratteri anche nei personaggi. Negli anni il rapporto fra i due vivrà poi di contrapposizioni e polemiche diventando più intermittente ma ricco di riferimenti reciproci, soprattutto dopo la morte del regista-poeta di Casarsa quando diventerà a tutti gli effetti un autore-personaggio ne Il libro dei sogni felliniano.

Starting with the mention of the «cinematographer» in La religione del mio tempo and Note sulle "Notti" which is devoted to the movie Cabiria − as well as other reviews, production reports, speeches, interviews, and poetic and filmic references − we notice that Fellini is the most cited Italian cinema protagonist in Pasolini's work. After reading Pasolini's works for the first time and meeting him later, they start to share a significant level of human and artistic connection that encourages collaboration and mutual inspiration. As a result, Fellini's depictions of Pasolini as a 'character' are based on his roles as a writer and an interlocutor. The two filmmakers, despite their aesthetic and stylistic differences, had a lot in common, which inspired them for example to explore the suburbs of Rome together, of which Pasolini would bring back the evocative ambiguity of Fellini, while the latter transferred those occasions into him characters. The two's connection develops over time in contrasts and polemics, growing increasingly sporadic but rich in mutual allusions, particularly after the passing of Pasolini when he effectively became an author-character in Fellini's Il libro dei sogni.

 

 

1. I viaggiatori nelle notti romane

 

 

Sono alcuni versi della poesia La religione del mio tempo, scritti fra il 1957 e il 1959, e fu lo stesso Pier Paolo Pasolini a precisare in una nota alla fine del libro omonimo che il ‘cinematografaro’ evocato era Federico Fellini. All’epoca, infatti, il regista amava guidare automobili di lusso (come qualche anno più tardi accadrà allo stesso Pasolini) e lo scrittore lo aveva già raffigurato in Nota su “Le notti”, mentre, guidando con una mano sola, si girava e rigirava i capelli, usando il solo indice come tornio o fuso.[2]

Se aggiungiamo a questi due testi altri contributi – come la recensione che avrebbe scritto nel 1960 su La dolce vita, l’amaro resoconto diaristico delle iniziali vicende produttive di Accattone pubblicato ‘a caldo’ su «Il Giorno» nell’ottobre del 1960, l’intervento polemico nel documentario di Maurizio Ponzi (Fellini in città, 1968) e le due recensioni che nel 1973 avrebbe dedicato ad Amarcord libro e film, oltre a varie dichiarazioni in interviste e a riferimenti in altri testi – è possibile riscontrare subito come Fellini sia stato l’autore di cinema italiano su cui Pasolini ha scritto di più, adottando generi diversi: la poesia, la saggistica, la diaristica, la scrittura per il cinema (si pensi agli accenni sulla personalità di Fellini dissimulati nel personaggio del suo alter ego Guido nel trattamento per un film mai fatto, Viaggio con Anita, su cui ritorneremo), i film (la menzione del nome di Fellini in una celebre sequenza de La ricotta, 1963, e anche la citazione ‘felliniana’ rivendicata dallo stesso Pasolini nella scena degli artisti girovaghi in Uccellacci e uccellini, 1966) e gli interventi audiovisivi.

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Il saggio analizza i fumetti e i graphic novel incentrati sulla vita e sull’opera di Pier Pasolini pubblicati sin dalla seconda metà degli anni Settanta, esplorando il rapporto che intrattengono con il «mito Pasolini» descritto da Walter Siti. Si mostrerà come, pur spaziando tra forme e generi diversi – biografie, inchieste sulla morte, riscritture diaristiche, interviste impossibili o fantasy-noir – in pressoché tutti i casi il personaggio sovrasti l’opera, la macchina mitologica abbia il sopravvento sull’approccio critico, e Pasolini tenda quasi sempre a trasformarsi in un supereroe con gli occhiali scuri.

The essay analyses the comic strips and graphic novels centred on the life and work of Pier Pasolini published since the second mid-1970s, exploring their relationship with the 'Pasolini myth' described by Walter Siti. It will show how, while ranging between different forms and genres - biographies, death enquiries, diaristic rewrites, impossible interviews or fantasy-noir - in almost all cases the character dominates the work, the mythological machine prevails over the critical approach, and Pasolini almost always tends to transform himself into a superhero wearing dark glasses.

 

 

«I hate superheroes. I think they’re abominations»

Alan Moore

 

1. Le ceneri e il mito di Pasolini

Uno dei primi fumetti su Pier Paolo Pasolini, forse addirittura il primo, fu disegnato da Graziano Origa. Si intitolava Le ceneri di Pasolini e fu pubblicato nel 1976 sulla rivista Contro, di cui Origa era stato co-fondatore con Ettore Nuzzi nel 1973. Uscirono in tutto dieci numeri e ospitava strisce, articoli e interviste (tra gli altri) di Hugo Pratt, Sergio Toppi, Bonvi, Marco Pannella. Le ceneri di Pasolini è un insieme di tavole in bianco e nero, ritagliate su fondo rosso, di tre pagine. Non si tratta di un fumetto nel senso canonico del termine, ma di vignette con alcuni disegni (ritratti di Pasolini[1] o di suoi personaggi, scene di libri o di film) accompagnati da testi ripresi dalle sue opere: si inizia con Il pianto della scavatrice, passando per Contro la televisione, Ragazzi di vita e una «lettera luterana» a Italo Calvino pubblicata pochi giorni prima della sua morte; per arrivare infine al Pasolini regista con le Osservazioni sul piano sequenza e la terza pagina dedicata esclusivamente a Salò o le 120 giornate di Sodoma. Proprio nell’ultima vignetta, che riproduce il finale del film, è contenuto l’unico scambio formato balloons tra due personaggi, ovvero i due giovani repubblichini che ballano il valzer: «Come si chiama la tua ragazza?», «Margherita». Come si vede, quella scelta per i testi delle didascalie è una bibliografia già molto orientata: il Pasolini più carico di antiintellettualismo, innamorato delle borgate (della lettera a Calvino è riportato il famoso passaggio su mister Hyde: «Io so bene come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché è anche la mia vita. […] Ma io, come il dottor Hyde, ho anche un'altra vita»), il critico della borghesia, del capitalismo, del potere (in un crescendo di antagonismo e scandalo).[2]

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Ascanio Celestini, custode e guida di un ipotetico Museo dedicato a Pier Paolo Pasolini, riannoda, con lo spettacolo Museo Pasolini, i fili di una vita breve, terminata in un massacro all'Idroscalo di Ostia, con accadimenti storici e aneddoti immaginari. Il visitatore si troverà immerso nel mondo pasoliniano più autentico e complesso e in quello parallelo frutto di ricerche sul campo di Celestini che, proprio come il poeta, non ha mai smesso di indagare e dialogare con gli ultimi e gli sfruttati.

Ascanio Celestini, custodian and guide of a hypothetical museum dedicated to Pier Paolo Pasolini, reconnects the threads of a short life, which ended in a massacre at the Idroscalo di Ostia, with historical events and imaginary anecdotes. The visitor will find himself immersed in Pasolini's most authentic and complex world and in the parallel world that is the result of field research by Celestini who, just like the poet, has never stopped investigating and dialoguing with the last and the exploited.

 

Per Orhan Pamuk ogni museo dovrebbe essere un luogo in cui «il tempo diventa spazio», capace di raccontare le storie dei singoli individui e in cui poter «esplorare ed esprimere l’universo e l’umanità dell’uomo nuovo e moderno».[1] Quasi sulla stessa scia, a partire da un’idea di luogo non-monumentale in grado narrare fatti che vadano al di là dell’ossessione di un singolo, e da sempre attratto dalla Storia e dai suoi paradossi, Ascanio Celestini nel 2021 concretizza il progetto di costruire, narrativamente, un Museo dedicato alla memoria di Pier Paolo Pasolini.[2] È, ancora una volta, la sua «corda civile»,[3] in cerca dell’uomo e delle sue parabole, a consentirgli «di scorgere le tracce del mito».[4]

In una carriera dove ha filtrato, con i racconti di testimoni comuni, i grandi temi del nostro Paese, Celestini ci restituisce uno spettacolo straziante e potente, una raccolta di oggetti simbolo per disegnare la figura del poeta friulano, affiancando ad essi la rappresentazione del Novecento italiano saturo di fascismo, di golpe di stato, di democrazie tormentate e di una «busta de stracci che invece era n’omo morto». Una «corrispondenza d’amorosi sensi» che ben si spiega con la capacità dell’attore romano di raccontare storie controverse con la cifra di una disarmante onestà in grado di mescolare registri plurimi. Celestini, peraltro, non è nuovo all’esplorazione di Pasolini.[5] Nel 1998, quando ancora si considerava un «teatrante per caso», incontra Gaetano Ventriglia, e con lui – discutendo di cucina, di emozioni e del loro comune interesse per ‘il poeta delle ceneri’ – dà vita a Cicoria. In fondo al mondo, Pasolini, un po’ spettacolo[6] e un po’ libero pensiero. Al centro di questo esperimento si pone infatti una riflessione discontinua sul tema della morte che avvicina un padre (già trapassato) ad un figlio (nel momento del trapasso), emblematicamente identificati come Cicoria padre e Cicoria figlio. Questa coppia, che in modo scoperto discende da Totò-Ninetto Davoli di Uccellacci e uccellini, richiama anche il riflesso di altre opere, secondo un progetto in forma di palinsesto, instabile e promettente allo stesso tempo.

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