Dal sordo caos delle cose. Conversazione con Fabio Condemi intorno allo spettacolo Questo è il tempo in cui attendo la grazia

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Fabio Condemi, Schemi, bozzetti e disegni per Questo è il tempo in cui attendo la grazia, 2019-2020

Nelle note raccolte sul foglio di sala lo spettacolo Questo è il tempo in cui attendo la grazia è presentato come una biografia onirica e poetica di Pier Paolo Pasolini attraverso le sue sceneggiature. Progetto originale 2019 del Teatro Comunale Giuseppe Verdi-Pordenone in collaborazione con Teatro di Roma-Teatro Nazionale, Teatro del Lido di Ostia e Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa, il lavoro è stato concepito dal regista teatrale Fabio Condemi insieme all’attore Gabriele Portoghese e a Fabio Cherstich, che ne ha curato la drammaturgia dell’immagine.

In scena troviamo un’unica figura, Portoghese-Pasolini, che si lascia attraversare da un materiale letterario incandescente, portando avanti un’indagine non tanto sul cinema dell’autore quanto sul suo sguardo. Alcuni frammenti tratti dalle sceneggiature di film editi e inediti – quali Edipo Re, Medea, Il fiore delle mille e una notte, La ricotta, Appunti per un film su San Paolo – scandiscono l’intera durata dello spettacolo fino a inabissarsi nel finale. Le parole e i titoli delle sceneggiature, insieme a videoriprese realizzate da Condemi e da Igor Renzetti, scorrono su uno schermo alle spalle dell’interprete, stimolando gli spettatori a sognare in un gioco continuo di sottrazioni e sospensioni rispetto al procedere della ‘narrazione’, un vero e proprio cinema a occhi aperti.

Abbiamo incontrato il regista di Questo è il tempo in cui attendo la grazia – che di recente si è confrontato nuovamente con Pasolini, affrontando questa volta l’opera teatrale Calderón – per porgli alcune domande sul lavoro di costruzione drammaturgica svolto a partire dalle sceneggiature pasoliniane, sul rapporto che in scena si instaura tra la parola, pronunciata da Portoghese, e l’immagine in movimento, proiettata su uno schermo bianco, e infine sulla relazione aperta e molteplice che si può generare tra questi corpi luminosi e i corpi degli spettatori immersi nel buio della sala.

 

Damiano Pellegrino: Nella nota che apre l’edizione dei Meridiani contenente le sceneggiature di Pier Paolo Pasolini, Walter Siti e Franco Zabagli ammoniscono il lettore che nel volume incontrerà dei «pre-testi», qualcosa che il loro autore ha composto in vista delle successive stesure cinematografiche. Per il cinema e non Cinema, infatti, è il titolo che accompagna i due volumi: si tratta di materiali letteralmente svincolati dal condizionamento pratico della realizzazione finale di un’opera per il grande schermo. Questa definizione, che insiste su una dimensione processuale degli oggetti artistici, potrebbe ricordare l’attitudine dei Prelibri di Bruno Munari, una serie di piccoli libri rivolti ai bambini che ancora non hanno imparato a leggere e scrivere, e dai quali si intercetta una grande varietà di sollecitazioni ben prima dell’apprendimento sui banchi di scuola. Per te, Gabriele Portoghese e Fabio Cherstich che cosa hanno significato questi testi che sono divenuti parte integrante del vostro spettacolo?

 

Fabio Condemi: Io credo che il termine ‘pre-testi’ sia proprio utilizzato come qualcosa che sta prima della testualità cinematografica e anche prima delle vere e proprie sceneggiature. I trattamenti per i singoli film erano molto meno elaborati e nel momento in cui Pasolini andava su un set, probabilmente, faceva affidamento a degli schemi che erano anche più semplici. Le sceneggiature raccolte in questo volume sono interessanti perché risiedono su una soglia, a metà tra l’immagine che ancora non esiste e la scrittura già compiuta: si tratta di testi ancora ‘capaci di creare’ come uno schermo bianco colmo di innumerevoli possibilità di visione. A dire il vero, nel trattare questo materiale abbiamo pensato anche a Bruno Munari e a una capacità a cui lui fa riferimento in Fantasia e in altri testi, secondo noi indispensabile per l’artista: sporgersi su un tassello mancante affinché questi possa prendersi cura di un vuoto da contemplare e riempire.

Nel nostro caso gli scritti che abbiamo scelto avevano questa caratteristica, vale a dire essere un testo che viene prima dell’immagine cinematografica, compiuta e finita, e, rispetto ai film di Pasolini che conosciamo, le parti scritte che abbiamo selezionato sono leggermente o molto diverse dal prodotto cinematografico. Ci sembrava interessante intercettare la strada non battuta, il doppio, ciò che c’era nella testa di Pasolini e che poi per un motivo o per un altro non si è realizzato sulla pellicola. Lo spettacolo comincia con una domanda proiettata sullo schermo, che è a sua volta una citazione da un’altra opera di Pasolini, Il Decameron: «Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?». Da questa domanda prendono avvio le prime pagine della sceneggiatura di Edipo Re che raccontano, guarda caso, la prima apertura degli occhi di un bambino sul mondo. Egli vede il mondo e non lo sa nominare. Alla fine dello spettacolo ritorniamo all’Edipo Re e al tema della vista attraverso la proiezione delle ultime scene del film direttamente sul corpo di Gabriele Portoghese, riprendendo l’opera di Fabio Mauri Intellettuale – ‘Vangelo secondo Matteo di/su Pier Paolo Pasolini’, realizzata alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna nel 1975 insieme a Pasolini utilizzando le scene del film Il Vangelo secondo Matteo. Per noi era importante sperimentare quanto gli spettatori potessero essere liberi di creare con l’immaginazione il loro film mentale insieme alle parole di Pasolini. Pertanto in alcuni casi abbiamo scelto dei testi tratti da sceneggiature che non hanno avuto una seconda vita sul grande schermo, come alcuni brani tratti da Appunti per un film su San Paolo o degli appunti tratti da Il fiore delle mille e una notte ed esclusi dalla versione finale del film.

 

D. P.: In uno scritto dal titolo Il cinema di poesia – presente in Empirismo eretico – Pasolini fa una distinzione tra l’operato di uno scrittore e quello di un autore cinematografico. Se il primo attinge a un dizionario di segni linguistici incasellati e pronti per l’uso, e ne fa un utilizzo particolare, il secondo invece non ha a disposizione una raccolta di immagini a cui fare riferimento ma in compenso possiede delle possibilità infinite perché si sporge sul ‘caos’. Secondo Pasolini egli dovrà affrontare due operazioni: la prima linguistica e la seconda estetica, con la quale offrire una qualità espressiva all’immagine. Durante lo spettacolo sullo schermo alle spalle dell’interprete scorrono delle sequenze che avete girato direttamente voi. A quale ‘disordine’ vi siete rivolti per realizzare questi filmati?

 

F. C.: Ciò che indaghiamo in tutto il lavoro è quel grande punto di domanda che compare all’inizio: «Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?». Cosa c’è tra il sogno e la realizzazione? Tra questi due termini che cosa avviene? Recentemente ho visto un film di Godard, Scénario du film ‘Passion’, in cui il regista stesso sta davanti allo schermo e parla della sceneggiatura del suo film avvalendosi di alcune immagini. Non avevo visto questo film, ma la sua operazione è simile a quella che io e Gabriele portiamo avanti nel nostro spettacolo. Lo schermo bianco era per noi il punto di partenza, l’immagine più importante; essa illumina anche Gabriele sulla scena e per noi è un campo dal quale affiorano altre immagini. Partire da uno schermo bianco con la convinzione che anche le parole sappiano evocare delle immagini senza farle vedere. E poi da questo schermo bianco è venuta l’idea di proiettare dei materiali video che hanno la qualità del non finito e dell’appunto. Pasolini parla della telecamera come di un occhio sulla realtà: essa non opera una scelta. Se si mette a fuoco lo scorcio di una campagna, a meno che non si inseriscano grandi effetti speciali, l’inquadratura finirà per contenere sempre le fabbriche o lo smog, vale a dire la realtà nella sua complessità.

Le immagini che abbiamo girato nascono da un viaggio con la macchina in Friuli compiuto da me, Gabriele, Fabio Cherstich e Igor Renzetti. Abbiamo fatto delle riprese a Sacile, siamo andati a Grado e nei luoghi in cui è stato girato Medea, non tanto per ritrovare i posti pasoliniani quanto per raccogliere degli appunti con lo sguardo, assecondando i movimenti della telecamera. Allo stesso modo, quando sullo schermo appaiono alcuni quadri e dipinti, questi non si presentano come delle semplici ‘immagini’, ma come vere e proprie illustrazioni, contenute in libri d’arte, catturate dalla telecamera in movimento. Allo stesso modo abbiamo fatto a proposito della città di Sabaudia, recuperando delle cartine.

Un altro dato interessante che attraversa lo spettacolo, e in particolare lo schermo, sono le scritte: laddove compaiono, i titoli dei film sono volti a scandire l’incedere della narrazione come fossero dei ‘capitoli’, come se si trattasse di una biografia: la drammaturgia prende avvio da una nascita e si conclude con la morte. Ciò che mi preme sottolineare è che tutti i materiali visivi evocano la forma dell’appunto e presentano una componente non-finita emergendo dallo schermo bianco, che è il vero elemento con cui Gabriele dialoga sulla scena. Più che un monologo questo lavoro può essere definito un dialogo, e nella conclusione il corpo dell’interprete diventa egli stesso quello schermo.

Fabio Condemi, Schemi, bozzetti e disegni per Questo è il tempo in cui attendo la grazia, 2019-2020

 

D. P.: A proposito di ‘narrazione’ e di linguaggio visivo viene in mente che, ancora in Empirismo eretico, lo stesso Pasolini incoraggia la possibilità di realizzare per il cinema dei lavori capaci di contenere una serie di pagine liriche, scritte con la lingua della poesia, dunque molto lontani dal cinema classico e di stampo narrativo, fondato su una lingua che è quella della prosa. Per portare avanti una prosa d’arte, onirica, barbarica, d’ispirazione materica, in una specie di ritorno alle origini, aggiunge inoltre che la macchina da presa si deve «far sentire», e classifica tutta una serie di strategie parte di un codice tecnico nato per insofferenza alle regole, come ad esempio la capacità di accogliere delle immobilità interminabili su una stessa immagine. Durante lo spettacolo ho notato che nei filmati che scorrono sullo schermo ritornano a intervalli diversi alcuni soggetti, come l’immagine di un casolare e molte inquadrature fisse.

 

F. C.: Ritornando a questo discorso sui filmati, trattati in fase di lavorazione quasi come forma d’appunto, per me è significativa la ricerca del regista lituano Jonas Mekas. Lui si definiva un filmer e non un filmmaker. Non aveva mai fatto cinema, muovendosi in dei veri e propri set o lavorando con degli attori, ma l’unica cosa che faceva era filmare la realtà con gesto poetico e con una grande qualità dello sguardo. Mekas aveva soltanto la sua telecamera e la capacità di guardare il mondo, anche in fase di montaggio, totalmente legato alla poesia. I suoi film sono dei lunghi poemi visivi e dentro ci sono delle sequenze estremamente prolungate in cui l’immagine non è soggetta a una tirannia della narrazione. Il suo cinema cambia l’idea di tempo: mostra una casa, conduce lo spettatore al suo interno e magari non accade niente. Infatti nei suoi lavori talvolta compare una scritta provocatoria: ‘non succede niente in questo film’. Credo che alcune opere cinematografiche di Pasolini hanno la stessa capacità di entrare in relazione con il tempo. La nostra ripresa della casa, ad esempio, è stata fatta durante una serata a Sacile: abbiamo girato l’angolo e abbiamo visto una casa simile, secondo noi, a quella che Pasolini descriveva nella sceneggiatura di Edipo Re con un terrazzino e dei fiori. È un modo diverso di pensare l’immagine filmata.

 

D. P.: È interessante notare come Pasolini consideri la sceneggiatura una tecnica di scrittura autonoma, un’opera integra e compiuta in se stessa ma capace di alludere a un’opera ancora da farsi. Una struttura in movimento, quindi, una forma che si muove per raggiungere un’altra possibile forma: una struttura «sotto processo», seguendo le sue parole, definita da egli stesso «sceno-testo». Che cosa ha significato per voi avvalervi di questa forma letteraria per comporre la drammaturgia dello spettacolo?

 

F. C.: Abbiamo provato a considerare le sceneggiature come vere e proprie opere letterarie. Credo che l’attenzione di Pasolini verso la lezione di Longhi, quella di usare le parole per entrare in un’opera d’arte, sia stata molto importante anche per il suo lavoro di scrittura per il cinema. Del resto «A Roberto Longhi per le folgorazioni figurative» è una dedica che Pasolini riporta proprio in calce alla sceneggiatura di Mamma Roma.

La letteratura, compiendo un salto quasi impossibile, può descrivere un’assenza. La scrittura, quando è in grado di attivare un décalage continuo nei confronti del lettore, si illumina e si tramuta in processo e in linguaggio: tu vedrai, si vedrà, vedremo, lo spettatore vedrà insieme. Nello spettacolo si rimanda sempre a questa sorta di proiezione dello sguardo della mente e dell’immaginazione, siglando un patto tra chi scrive e chi ascolta. In questa relazione nascono delle immagini che per loro natura sono mutevoli, che danno vita a uno strano collage mentale. È significativo quando durante lo spettacolo tra l’interprete e la platea si forma quasi uno schermo invisibile, in cui prendono vita delle visioni. In questo senso le sceneggiature a cui diamo voce in scena si costruiscono insieme agli spettatori e solo a quel punto in sala si percepisce una vera tensione, come se si trattasse di un lavorio in progress. Al di là della compattezza drammaturgica raggiunta dallo spettacolo nella sua forma definitiva, crediamo infatti che questo lavoro possa essere infinitamente scomposto e ricomposto in forme differenti.

 

 

D. P.: Nel saggio La sceneggiatura come struttura che vuol essere altra struttura Pasolini scrive che i lettori devono prestare al testo una compiutezza visiva che esso non ha. Così in scena accade che gli spettatori siano sollecitati a colmare un’assenza, a pensare cioè per immagini. Cosa ti ha stimolato a costruire l’intero spettacolo su questa assenza e pertanto su questo tipo di relazione con gli spettatori?

 

F. C.: Pasolini era interessato a indagare il genere della sceneggiatura perché lo considerava come un film fatto per le immagini della mente. Personalmente l’immagine assente mi ha sempre colpito. Fabio Cherstich mi ha regalato un libro dal titolo L’immagine fantasma dello scrittore e fotografo Hervé Guibert, un libro al suo interno privo di scatti. Le immagini fantasma valgono molto di più delle immagini viventi e presenti. Le immagini ricordate, quelle perdute, quelle bruciate, quelle legate all’infanzia diventano il tema di questo volume. Nessuno se non un fotografo così bravo poteva scrivere un libro sulle immagini sottraendo le immagini stesse, perché soltanto chi è consapevole di quanto siano sconvolgenti sa cosa vuol dire toglierle.

Sono certo che chi si abbandona a questi testi di Pasolini, provando a immaginare quello che lui scrive, non può che divertirsi. Pasolini infatti, al pari di Gabriele Portoghese in scena, adotta degli stratagemmi che guidano lo spettatore nell’immaginazione. L’autore ricorre tante volte a delle captatio e conduce il lettore (o spettatore) a compiere sempre lo stesso gesto: aprire gli occhi su qualcosa e guardarla come per la prima volta.

Fabio Condemi, Schemi, bozzetti e disegni per Questo è il tempo in cui attendo la grazia, 2019-2020

 

D. P.: L’ultima domanda riguarda lo spazio scenico. Quali stimoli o intenzioni hanno accompagnato la sua ideazione?

 

F. C.: La scena in cui si muove Gabriele nasce dall’accostamento di alcuni frammenti, di intuizioni generate dai testi pasoliniani. Inizialmente per questo lavoro avevo disegnato una sorta di prato verde da cui cresceva uno strano mostro e sorgeva un’asta da microfono. Poi in un disegno successivo dal prato si levava uno schermo. Ho cercato di mettere insieme questi elementi, i quali sono entrati a far parte a tutti gli effetti della scena. Più che un’installazione, forse, è un piccolo set. Mi interessava uno spazio in cui ci potesse essere una lontananza, quindi abbiamo pensato a una striscia di terra. All’inizio avevamo ragionato sulla possibilità che Gabriele fosse meno visibile e poi pian piano si avvicinasse, creando quindi un ‘campo lungo’. Accanto a questo set, a dialogare con le parole abbiamo messo lo schermo bianco che scandisce le tappe della drammaturgia, quasi un lungometraggio composto da alcune sceneggiature di Pasolini. Essendo un set abbiamo pensato che potesse essere smontato e messo da parte. Così alla fine dello spettacolo viene distrutto, trasformandosi nello spiazzo finale dell’ultimo discorso di San Paolo. Ci piaceva l’idea che questa striscia di terra e di erba fosse un po’ come quella che compare nei film di Pasolini, che fosse simile all’erba di campo e al terriccio che si trovano lungo i cigli delle ferrovie. Infine in scena è presente un proiettore Super8 che rimanda all’opera di Mauri di cui parlavamo prima, per cui Pasolini stesso aveva prestato il suo corpo vestito con una camicia bianca, divenendo lo schermo su cui proiettare il film Il Vangelo secondo Matteo. Lo utilizziamo soltanto alla fine per proiettare un frammento tratto da Edipo Re.