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Mettere in scena la tragedie di Pasolini è un’operazione da far tremare i polsi; lo dimostra l’esiguità di regie tratte dal Teatro di Parola in un contesto, come quello del centenario dell’autore ormai alle ultime battute, che ha visto una fioritura di convegni, mostre, iniziative, e anche spettacoli teatrali – tra cui è da ricordare Questo è il tempo in cui aspetto la grazia, biografia poetica di PPP ad opera di Fabio Condemi e Gabriele Portoghese.[1] Se poche e pochi hanno avuto il coraggio di attraversare il corpus pasoliniano lungo questa direttrice, è quindi particolarmente meritorio il programma Come devi immaginarmi / Progetto Pasolini, curato dal direttore di Emilia Romagna Teatro Valter Malosti insieme a Giovanni Agosti, che ha commissionato allestimenti di tutti i testi teatrali di Pasolini, ideati nel 1966 (durante un grave attacco di ulcera): prima di Pilade, in scena dal 16 al 19 febbraio 2023, ha aperto il ciclo il Calderón diretto da Fabio Condemi; seguiranno Bestia da stile diretto da Stanislas Nordey, Orgia di Federica Rosellini e Gabriele Portoghese, Porcile a cura di Michela Lucenti e Balletto Civile insieme alla compagnia Arte e Salute di Nanni Garella, e Affabulazione di Marco Lorenzi. Un parterre di artiste e artisti diversamente ‘giovani’ (in un paese dove la gioventù artistica è una condanna che affligge ben oltre il mezzo del cammin dantesco) alle prese con una forma, la performance dal vivo, in cui la tendenza alla museificazione può avere effetti devastanti, e la contaminazione con il tempo presente è una necessità imprescindibile.

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In un anno segnato da varie iniziative culturali destinate al ricordo di Marilyn in occasione del sessantennale della sua morte, ri-leggere il testo di Anne Carson Norma Jeane Baker of Troy (pubblicato in traduzione italiana da Crocetti nel 2021) costituisce un’occasione per tornare a riflettere sulle molteplici rifrazioni transmediali del mito della stella più luminosa di Hollywood. Il presente contributo, soffermandosi sulle potenzialità semantiche che si sprigionano dall’accostamento di Norma Jeane alla protagonista della tragedia di Euripide, su cui si fonda la pièce di Carson, mette in evidenza la persistenza del motivo del doppio e delle sue implicazioni fantasmatiche presenti nella ricezione dell’icona della star, nella letteratura come nella fotografia.  

In a year marked by various cultural events dedicated to the memory of Marilyn on the occasion of the sixtieth anniversary of her death, re-reading the text by Anne Carson, Norma Jeane Baker of Troy (published in Italian translation by Crocetti in 2021), is an opportunity to return to reflect on the multiple transmedia refractions of the myth of the brightest star in Hollywood. This contribution, dwelling on the semantic potential that is released by Norma Jeane’s approach to the protagonist of Euripide’s tragedy, on which Carson’s play is based, highlights the persistence of the motif of the double and its phantasmic implications present in the reception of the star, in literature as in photography.

 

Il titolo della edizione italiana della pièce di Anne Carson, Era una nuvola (Norma Jeane Baker of Troy. A version of Euripide’s Helen, New York, New Directions, 2019), scelto dalla stessa autrice come ricorda il curatore Patrizio Ceccagnoli nel saggio introduttivo,[1] costituisce già una evocativa chiave di lettura dell’operazione di riscrittura dell’Elena di Euripide e di sovrapposizione del mito antico con quello più moderno di Marilyn. Il testo di Carson, scritto su commissione per inaugurare lo spazio newyorkese dello Shed, affidato poi alla regia di Katie Mitchell e interpretato dall’attore Ben Whishaw e dalla cantante lirica Renée Fleming, si pone infatti sulla scia di una costante pratica di disambientazione contemporanea della classicità che la poeta, drammaturga, saggista, traduttrice e docente di greco antico di origine canadese porta avanti da tempo.

 

La ‘versione dell’Elena’ che Carson propone è concepita come un monologo (un «melologo» nell’accezione dell’autrice, nel senso di una combinazione di melòs e lògos, di canto e discorso) in cui la protagonista, Norma Jeane Baker, rivive le vicende dell’eroina euripidea in un pastiche fondato sulla moltiplicazione dei sensi attribuiti allo sdoppiamento e alla natura fantasmatica dell’immagine di Elena. Come è noto, la ‘versione’ di Euripide demistifica l’epos della narrazione della guerra di Troia, svelando al naufrago Menelao e a tutto il pubblico di ieri e di oggi che la donna che ha rincorso per mare e per terra, conducendo tanti validi eroi a impegnarsi in un conflitto lungo ed estenuante, non è niente più che un simulacro creato dalla dea Era «con un pezzo di cielo»,[2] un’immagine eterea raddoppiata della donna amata, mentre la vera Elena è stata condotta da Ermes in Egitto e tenuta prigioniera nella regia di Proteo. Carson riprende e amplifica il topos del miraggio e della copia, così come il gioco degli equivoci e dei mascheramenti su cui si fonda la drammaturgia della tragedia, e lo eleva a sistema, ne fa cioè il dispositivo cardine della sua riscrittura che agisce nella costruzione dei caratteri, del plot, del luogo in cui si svolge la vicenda, come della stessa struttura.

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Tra le recenti riscritture registiche dei drammi antichi spiccano le tragedie – Coefore Eumenidi e Baccanti – portate in scena da Davide Livermore e Carlus Padrissa alla cinquantaseiesima edizione del festival del Teatro Greco di Siracusa. Il saggio, a partire da una riflessione sulle modalità stilistiche del ‘ritorno all’antico’, analizza intenzioni e procedimenti compositivi delle scritture sceniche di Livermore e Padrissa. Pur con opzioni autoriali diverse, negli spettacoli esaminati i registi non si limitano a un semplice lavoro di adattamento, ma mettono in pratica una convinta riformazione tecnologica e performativa delle retoriche del tragico, in cui si intrecciano aura mitica e temi civili contemporanei in funzione di un teatro intimamente politico.

Among the recent directorial rewrites of ancient dramas stand out the tragedies – Coefore Eumenidi and Baccanti – staged by Davide Livermore and Carlus Padrissa at the fifty-sixth edition of the Greek Theatre festival in Syracuse. The essay, starting from a reflection on the stylistic modes of the ‘return to the ancient’, analyzes intentions and compositional procedures of Livermore and Padrissa’s scenic writings. Even with different authorial options, in the performances examined the directors are not limited to a simple work of adaptation, but carry out a convinced technological and performative reformation of the rhetoric of the tragic, interweaving mythical aura and contemporary civil themes in the function of a deeply political theatre.

 

Slittata dalla primavera all’estate a causa dell’emergenza Covid-19, il 3 luglio 2021 è iniziata la cinquantaseiesima edizione del Festival delle Rappresentazioni Classiche della Fondazione INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico). Agli spettatori che fino al 21 agosto occuperanno le gradinate rupestri della cavea siracusana l’INDA offre un programma di grande impatto, che dialoga con la mostra multimediale “Orestea atto secondo” allestita a Palazzo Greco, e volta a commemorare – in stretto parallelismo con l’oggi – la ripresa degli spettacoli classici nel 1921, dopo la Grande Guerra e l’epidemia di influenza Spagnola.

Tre ensemble femminili del mito sono i protagonisti dell’attuale cartellone: Coefore Eumenidi di Eschilo portato in scena da Davide Livermore, qui alla seconda esperienza siracusana dopo l’Elena del 2019; Baccanti di Euripide, diretto da Carlus Padrissa; e Nuvole di Aristofane, con la regia di Antonio Calenda. In attesa di aggiungere allo sguardo l’occasione ludica del dramma satiresco concentriamo la visione analitica dentro il perimetro del tragico, optando per una riflessione ‘a doppio binario’ che prova a tenere insieme i processi di invenzione ed elaborazione registica degli spettacoli di Livermore e Padrissa.

 

 

1. Davide Livermore, Coefore Eumenidi

L’archivio delle attualizzazioni contemporanee dei drammi antichi, sulla scia di Cristina Baldacci, si può definire un ‘archivio impossibile’,[1] a tal punto sono numerose le ricreazioni del mito, sia drammaturgiche che sceniche, nella storia del teatro moderno. Pur in una sconfinata gamma di forme rappresentative tutte si sono sempre mosse tra «i due estremi dell’archeologia, con il tentativo di ricostruzione filologica della rappresentazione classica, e dell’attualizzazione critica del modello, in funzione del contesto storico, politico, sociale e culturale d’arrivo».[2] Su questa dicotomica altalena stilistica non è semplice acquisire un assetto, e spesso la scelta prevalente è stata quella di imboccare in modo netto una sola strada interpretativa, piuttosto che raggiungere un equilibrio dinamico tra i due poli.

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Grazie all’estrema generosità dell’autrice accogliamo qui il frammento di un CORO di Giuramenti, che speriamo possa propagarsi fra le onde e gli squarci del web. La redazione di Arabeschi ringrazia per la disponibilità e il supporto Lorella Barlaam.

 

GIURAMENTI, nuova produzione di Teatro Valdoca, è il frutto di due anni di ricerca e selezione dei protagonisti e di tre mesi ininterrotti di lavoro, tra prove e vita in comune, a L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, spazio appartato in mezzo ai boschi. Ne è nato un grande affresco che tenta un modo radicale, plenario e arcaico di fare teatro, e torna al cuore del lavoro trentennale della compagnia.

Ogni giorno ore di prove, in teatro e nel bosco circostante, non basate su un rigido progetto ma aperte all’accadere degli eventi, alle improvvisazioni degli attori, ai dettami della regia, ai suggerimenti portati dal testo, che Mariangela Gualtieri ha scritto nel gioco di forze delle prove.

 

GIURAMENTI è diretto da Cesare Ronconi e scritto per undici giovani interpreti d’eccellenza.

Al centro di questo lavoro il corpo di corpi, il Coro, con la sua fluida empatia, la sua grande vitalità di movimento, fra danza e scatto atletico, e la sua voce fatta di voci che cantano, che dicono in faccia al mondo la propria inquietudine, l’amore, l’ardore, o sussurrano una sapienza enigmatica, in linea col Coro della tragedia arcaica. Dal Coro spiccano i singoli interpreti coi loro a solo intensi e teneri.

I Giuramenti chiamano attori e spettatori a farsi insieme comunità teatrale, in un patto con la propria pienezza, «fedeli a se stessi e al mistero», in questo tempo che spegne e separa.

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Riprese audio-video: Francesco Pellegrino, Ana Duque; fotografia: Francesco Pellegrino; foto di scena: Salvo Grasso; montaggio: Ana Duque.

Qui di seguito la trascrizione integrale dell’intervista.

 

D: Il numero di Arabeschi che ospita questo ‘videoincontro’ è incentrato principalmente sull’idea di trasformazioni fisiche, di metamorfosi del corpo. A questo proposito, schematizzando, si potrebbe forse distinguere tra un tipo di trasformazioni corporee che potremmo definire ‘di oppressione’, di tipo verticale, subìte dal corpo (un esempio su tutti è il Salò di Pasolini), e un altro tipo di trasformazioni corporee che potremmo invece definire ‘di liberazione’, dunque non subìte ma agite dal corpo stesso (pensiamo magari all’idea della peste in Artaud). Tale polarità potrebbe essere una delle chiavi del tuo teatro, cioè mi sembra che queste due forze di trasformazione fisica e di azione sui corpi e dei corpi sia costantemente presente sulle tue scene. In che modo pensi che questo avvenga nel tuo teatro, sia nel risultato dei tuoi spettacoli che, si potrebbe aggiungere, nel processo creativo, ossia nel rapporto tra azione coercitiva della regia che permette l’azione liberatoria del corpo dell’attore?

R: Ci sono sicuramente due processi che sono legati anche al tempo in cui si protrae l’intenzione di far vivere gli spettacoli. Due tempi: il tempo della creazione e il tempo della vita dello spettacolo. Io faccio un teatro di repertorio, quindi quando nascono i miei spettacoli mi auguro che vivano per almeno dieci anni e così in alcuni casi è stato. Questo cosa significa? Che nel corso di dieci anni i corpi degli attori che li fanno cambiano, quindi non è soltanto un cambiamento legato alla creazione di quello spettacolo ma anche alla vita, al processo di invecchiamento di quello spettacolo, perché il corpo in quel tempo invecchia, quindi la qualità del movimento cambia. Non dico che peggiora, anzi a volte si affina, si mette a punto, diventa ancora più incisiva. Sicuramente quando io lavoro con i miei attori chiedo sempre loro un grande sforzo, legato proprio alla ricerca di un gesto non naturale, che però deve diventare naturale. Questo è molto difficile, forse li mette in una condizione di ‘prigione’ del corpo: sicuramente per arrivare a questa naturalezza è necessario stare dentro dei paletti, dentro un recinto. Però poi, dopo, risulta ‘liberatorio’, quindi alla fine del processo di creazione loro sono liberi. Eppure non lo sono stati durante la creazione, durante la genesi.

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Un bambino sta per nascere, un uomo per essere ucciso. Il montaggio alternato delle due situazioni chiude la seconda stagione di Gomorra - La serie [figg. 1-8]. Il bambino che nasce si chiamerà come l’uomo che muore: Pietro Savastano. Chi ha deciso su morte e nascita è Genny Savastano, allo stesso tempo figlio e padre. Il finale misura il tratto esplicitamente edipico di Gomorra. Ma se a contare nella prima stagione è la famiglia, che include anche Imma (moglie e madre) ed è rappresentata dalla casa dove abitano, nella seconda sono soprattutto i maschi ad avere un ruolo, e non c’è più né unità familiare né unità di luogo. Gomorra - La serie è una tragedia. La struttura mitica profonda che anima la serie è di tipo tragico. È la tragedia del potere, la conquista del quale diventa la posta in gioco di un soggetto disposto a pagare qualsiasi prezzo, non ultima la vita, per ottenerlo, per acquisirlo. E se questo accade è perché attraverso il potere, e dunque il dominio sulle vite e sui destini altrui, il soggetto si illude di sottrarsi alla sua condizione mortale.

Ambire a perdere l’umanità è un tratto, aberrante, dell’umano stesso. Negando la sua propria umanità, il soggetto nega il suo tratto finito. Sfida la morte riaffermandola.

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L’immagine che costituisce il manifesto di Julieta, ultimo film di Almodóvar, riprende una inquadratura che nel film ha un ruolo molto importante. Siamo a uno snodo della vita tragica della protagonista, che viene accudita dalla figlia Antìa e dall’amica di lei Beatriz: le ragazze la fanno alzare dalla vasca da bagno, dove Julieta si trova catatonica, quasi priva di sensi, e Antìa la asciuga sfregandole con energia un asciugamano sul corpo, mentre con un secondo asciugamano le copre la testa e le asciuga i capelli, per non farle prendere freddo. Quando l’asciugamano viene sollevato e vediamo finalmente la faccia di Julieta, ci rendiamo conto che la donna è improvvisamente invecchiata: la giovane Adriana Ugarte viene sostituita dalla matura Emma Suàrez. Questa è l’inquadratura del manifesto: il volto della Julieta matura, con gli occhi persi, i capelli incollati a ciocche, e sopra di lei non la figlia Antìa ma il suo doppio giovane. Entrambe hanno gli occhi fissi, e la differenza è data soprattutto dallo sguardo e dai capelli, che fanno della donna in alto una figura viva, mentre quella in basso sembra uscire dalle tenebre, spettinata e bagnata come qualcuno che ha attraversato una caverna sottomarina. L’asciugamano che fa da sfondo al suo viso le conferisce uno statuto di sacralità: il volto sembra un simulacro di volto, una ‘veronica’ che compare davanti agli occhi dello spettatore evocando la traccia lasciata dal Cristo sul lenzuolo che ne asciuga la sofferenza.

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Nel film La rabbia (1962), Pasolini taglia e rimonta pellicole di un vecchio cinegiornale, commentandole con due voci fuori campo, in prosa e in versi. Non è un documentario storico, come a volte viene erroneamente considerato, ma un esperimento cinematografico di grande interesse ancora oggi. Per la tecnica usata, e per i contenuti politici di analisi della società, esso è simile a quello che un decennio più tardi realizzerà Guy Debord con il film La société du spectacle, ma per la forma poetica e per la visione della Storia, Pasolini ci porta in tutt’altra dimensione, raramente praticata al suo tempo e anche nel nostro. Una dimensione tragica che sussume anche il politico dentro al suo più ampio orizzonte. La mia ipotesi di lettura è che questo singolare esperimento di montaggio ricrei, con i mezzi specifici del cinema, la potenza lirica ed etica dell’antico coro tragico.

Pasolini shot several screen adaptations of ancient Greek tragedies such as Medea by Euripides and the Oresteia by Aeschylus. But with La rabbia (1962) he does something different and something more: he does not adapt an existing tragedy for the screen, but recreates the very form of ancient tragedy through specific filmic techniques and especially through its most distinctive device: the montage. As in ancient tragedy, the newsreel footage that Pasolini edited for the film stages the conflicts, joys and mourning losses of the recent history of mankind, captured from a broad, planetary and universal perspective. The voice-over commentary takes on the role of a tragic chorus.

1. Per il film La rabbia, realizzato nel 1963, Pasolini non ha girato una sola scena. Ha usato esclusivamente delle vecchie pellicole di un cinegiornale degli anni ’50, intitolato Mondo libero,[1] e fotografie tratte dai giornali. Le ha selezionate, montate e accompagnate con un commento scritto appositamente per il film, che è in parte in versi in parte in prosa, ed è letto rispettivamente dalle voci fuori campo di Renato Guttuso e di Giorgio Bassani.

Per comprendere il senso dell’operazione, occorre innanzitutto richiamare alla mente i cinegiornali di un tempo, brevi filmati che mostravano notizie e varietà, e che venivano proiettati nelle sale cinematografiche prima del film principale. Erano un po’ come i telegiornali di oggi – sono scomparsi alla fine degli anni ’50, quando la televisione li ha soppiantati. Anche Mondo libero, durato circa un decennio, era cessato nel ’59. Oggi i cinegiornali sono considerati documenti storici importanti, essendo spesso le uniche registrazioni audiovisive degli eventi del tempo. E infatti molti documentari storici hanno attinto a quei repertori: in Italia, per esempio, si può ricordare All’armi siam fascisti! di Cecilia Mangini e Lino Micciché, con testo di Franco Fortini, un’analisi critica della presa di potere da parte del fascismo, realizzato nel 1961, due anni prima della Rabbia.[2]

Ma Pasolini usa quei materiali di repertorio in un modo assai diverso. Non li considera dei documenti, e ancor meno delle ‘immagini-verità’. Anzi, egli è ben consapevole della loro banalità e della loro falsità, come si legge in questa dichiarazione, fatta da Pasolini durante la lavorazione del film, dopo aver visto 90.000 metri di quelle pellicole:

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