Un bambino sta per nascere, un uomo per essere ucciso. Il montaggio alternato delle due situazioni chiude la seconda stagione di Gomorra - La serie [figg. 1-8]. Il bambino che nasce si chiamerà come l’uomo che muore: Pietro Savastano. Chi ha deciso su morte e nascita è Genny Savastano, allo stesso tempo figlio e padre. Il finale misura il tratto esplicitamente edipico di Gomorra. Ma se a contare nella prima stagione è la famiglia, che include anche Imma (moglie e madre) ed è rappresentata dalla casa dove abitano, nella seconda sono soprattutto i maschi ad avere un ruolo, e non c’è più né unità familiare né unità di luogo. Gomorra - La serie è una tragedia. La struttura mitica profonda che anima la serie è di tipo tragico. È la tragedia del potere, la conquista del quale diventa la posta in gioco di un soggetto disposto a pagare qualsiasi prezzo, non ultima la vita, per ottenerlo, per acquisirlo. E se questo accade è perché attraverso il potere, e dunque il dominio sulle vite e sui destini altrui, il soggetto si illude di sottrarsi alla sua condizione mortale.

Ambire a perdere l’umanità è un tratto, aberrante, dell’umano stesso. Negando la sua propria umanità, il soggetto nega il suo tratto finito. Sfida la morte riaffermandola.

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L’immagine che costituisce il manifesto di Julieta, ultimo film di Almodóvar, riprende una inquadratura che nel film ha un ruolo molto importante. Siamo a uno snodo della vita tragica della protagonista, che viene accudita dalla figlia Antìa e dall’amica di lei Beatriz: le ragazze la fanno alzare dalla vasca da bagno, dove Julieta si trova catatonica, quasi priva di sensi, e Antìa la asciuga sfregandole con energia un asciugamano sul corpo, mentre con un secondo asciugamano le copre la testa e le asciuga i capelli, per non farle prendere freddo. Quando l’asciugamano viene sollevato e vediamo finalmente la faccia di Julieta, ci rendiamo conto che la donna è improvvisamente invecchiata: la giovane Adriana Ugarte viene sostituita dalla matura Emma Suàrez. Questa è l’inquadratura del manifesto: il volto della Julieta matura, con gli occhi persi, i capelli incollati a ciocche, e sopra di lei non la figlia Antìa ma il suo doppio giovane. Entrambe hanno gli occhi fissi, e la differenza è data soprattutto dallo sguardo e dai capelli, che fanno della donna in alto una figura viva, mentre quella in basso sembra uscire dalle tenebre, spettinata e bagnata come qualcuno che ha attraversato una caverna sottomarina. L’asciugamano che fa da sfondo al suo viso le conferisce uno statuto di sacralità: il volto sembra un simulacro di volto, una ‘veronica’ che compare davanti agli occhi dello spettatore evocando la traccia lasciata dal Cristo sul lenzuolo che ne asciuga la sofferenza.

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Nel film La rabbia (1962), Pasolini taglia e rimonta pellicole di un vecchio cinegiornale, commentandole con due voci fuori campo, in prosa e in versi. Non è un documentario storico, come a volte viene erroneamente considerato, ma un esperimento cinematografico di grande interesse ancora oggi. Per la tecnica usata, e per i contenuti politici di analisi della società, esso è simile a quello che un decennio più tardi realizzerà Guy Debord con il film La société du spectacle, ma per la forma poetica e per la visione della Storia, Pasolini ci porta in tutt’altra dimensione, raramente praticata al suo tempo e anche nel nostro. Una dimensione tragica che sussume anche il politico dentro al suo più ampio orizzonte. La mia ipotesi di lettura è che questo singolare esperimento di montaggio ricrei, con i mezzi specifici del cinema, la potenza lirica ed etica dell’antico coro tragico.

Pasolini shot several screen adaptations of ancient Greek tragedies such as Medea by Euripides and the Oresteia by Aeschylus. But with La rabbia (1962) he does something different and something more: he does not adapt an existing tragedy for the screen, but recreates the very form of ancient tragedy through specific filmic techniques and especially through its most distinctive device: the montage. As in ancient tragedy, the newsreel footage that Pasolini edited for the film stages the conflicts, joys and mourning losses of the recent history of mankind, captured from a broad, planetary and universal perspective. The voice-over commentary takes on the role of a tragic chorus.

1. Per il film La rabbia, realizzato nel 1963, Pasolini non ha girato una sola scena. Ha usato esclusivamente delle vecchie pellicole di un cinegiornale degli anni ’50, intitolato Mondo libero,[1] e fotografie tratte dai giornali. Le ha selezionate, montate e accompagnate con un commento scritto appositamente per il film, che è in parte in versi in parte in prosa, ed è letto rispettivamente dalle voci fuori campo di Renato Guttuso e di Giorgio Bassani.

Per comprendere il senso dell’operazione, occorre innanzitutto richiamare alla mente i cinegiornali di un tempo, brevi filmati che mostravano notizie e varietà, e che venivano proiettati nelle sale cinematografiche prima del film principale. Erano un po’ come i telegiornali di oggi – sono scomparsi alla fine degli anni ’50, quando la televisione li ha soppiantati. Anche Mondo libero, durato circa un decennio, era cessato nel ’59. Oggi i cinegiornali sono considerati documenti storici importanti, essendo spesso le uniche registrazioni audiovisive degli eventi del tempo. E infatti molti documentari storici hanno attinto a quei repertori: in Italia, per esempio, si può ricordare All’armi siam fascisti! di Cecilia Mangini e Lino Micciché, con testo di Franco Fortini, un’analisi critica della presa di potere da parte del fascismo, realizzato nel 1961, due anni prima della Rabbia.[2]

Ma Pasolini usa quei materiali di repertorio in un modo assai diverso. Non li considera dei documenti, e ancor meno delle ‘immagini-verità’. Anzi, egli è ben consapevole della loro banalità e della loro falsità, come si legge in questa dichiarazione, fatta da Pasolini durante la lavorazione del film, dopo aver visto 90.000 metri di quelle pellicole:

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