1.1. L’anarchia tragica

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Un bambino sta per nascere, un uomo per essere ucciso. Il montaggio alternato delle due situazioni chiude la seconda stagione di Gomorra - La serie [figg. 1-8]. Il bambino che nasce si chiamerà come l’uomo che muore: Pietro Savastano. Chi ha deciso su morte e nascita è Genny Savastano, allo stesso tempo figlio e padre. Il finale misura il tratto esplicitamente edipico di Gomorra. Ma se a contare nella prima stagione è la famiglia, che include anche Imma (moglie e madre) ed è rappresentata dalla casa dove abitano, nella seconda sono soprattutto i maschi ad avere un ruolo, e non c’è più né unità familiare né unità di luogo. Gomorra - La serie è una tragedia. La struttura mitica profonda che anima la serie è di tipo tragico. È la tragedia del potere, la conquista del quale diventa la posta in gioco di un soggetto disposto a pagare qualsiasi prezzo, non ultima la vita, per ottenerlo, per acquisirlo. E se questo accade è perché attraverso il potere, e dunque il dominio sulle vite e sui destini altrui, il soggetto si illude di sottrarsi alla sua condizione mortale.

Ambire a perdere l’umanità è un tratto, aberrante, dell’umano stesso. Negando la sua propria umanità, il soggetto nega il suo tratto finito. Sfida la morte riaffermandola.

Ci troviamo nel tragico moderno, di stampo shakespeariano, che non assegna, a differenza di quello classico, all’impersonalità del destino colpe inemendabili per un soggetto ‘non del tutto’ colpevole (come Edipo), ma invece ‘personalizza’ le colpe e dunque le rende da un lato più demoniche (Lady Macbeth), dall’altro passibili di essere emendate e riscattate (nella versione del tragico cristiano). Nella prima stagione di Gomorra - La serie, l’agon, come primo momento del mythos tragico, è al centro di un movimento al fondo concentrico e territorializzato: la casa è il luogo dove Pietro e Imma si avvicendano nel detenere lo scettro, simbolo di un potere che deve essere comunque quello di raccogliere e contenere il potenziale dispersivo del clan, escludendo i giovani: lo scettro non viene ceduto né a Genny né al ‘figlio adottivo’ Ciro, tradito dal mancato riconoscimento del ruolo di ‘erede’. Naturalmente, è nell’indissolubilità emotiva e simbolica del clan familiare che si giocano tradimenti, lotte per il potere, rivalità ed invidie (come quella tra i ‘fratelli’ Ciro e Genny).

La morte di Imma, la quasi-morte di Genny con cui finisce la prima serie, chiudono l’agon, il conflitto tra elementi all’interno di un ‘organismo’ (tant’è che gli esterni al clan, come Salvatore Conte, vengono presto fatti scomparire). La seconda stagione, più potente ed originale, ha al centro invece il secondo movimento del mythos tragico, lo sparagmos, lo sparpagliamento del corpo dell’organismo-clan. Lo sparagmos è il momento rituale che individua la disseminazione e lo sparpagliamento caotico delle membra della divinità, dove, come dice Northrop Frye in Anathomy of criticism, «confusion and anarchy reign over the world».

È un movimento in cui il tragico piega verso lo stato demonico dell’ironia, dove tutti sono contro tutti, in un mondo dove tradimento, anarchia ed una violenza senza limiti regnano sovrani.

Dove non c’è più clan, che è alleanza, sempre passibile di essere tradita ma comunque alleanza, domina il tutti contro tutti, la reversibilità continua delle posizioni. La città è una giungla dove tutti tradiscono tutti per ottenere uno spazio di potere: i giovani contro i vecchi (Genny manda in galera anche il suocero), i giovani contro i giovani.

Pietro dopo l’evasione vive clandestinamente in un appartamento a Secondigliano, protetto dalla giovane Patrizia, Genny vive all’Eur di Roma con la moglie, e Ciro nel suo appartamento, dove decide di rimanere dopo aver ucciso la moglie che invece voleva andarsene. Perché il problema è sempre il controllo del territorio, è lì che si misura il potere, perché attraverso il territorio si controllano attività e persone. E lì che Pietro Savastano vuole che torni Genny, che invece resterà a Roma: sa che la sua guerra dovrà combatterla da fuori. La primordialità della sua acconciatura e del suo look contrastano con l’intelligenza delle sue azioni. Al contrario del padre, il cui aspetto più civilizzato maschera l’efferatezza primordiale delle azioni che compie, come quando fa uccidere la figlia di Ciro. Gesto senza ritorno, che conduce alla precipitazione finale. Sono crimini da cui non si tornerà indietro, perché i morti ‘innocenti’ non libereranno mai il soggetto dai suoi fantasmi, lo metteranno su una linea di massima pendenza senza alcuna possibile redenzione. Patrizia lo dice a Pietro, quando questo trattiene il figlio rivendicando la sovranità paterna: «I figli e i morti si devono lasciare andare». Ma il soggetto può esercitare il suo potere e la sua violenza con efferatezza solo se perseguitato dai fantasmi, per cui i morti chiamano morti in un circuito senza fine, in un’anarchia caotica dove non c’è centro se non provvisorio, se non in perenne impazzito movimento.

Ciò che sorprende è che un’intera stagione, la seconda, è tutta incentrata sul caos anarchico dello sparagmos: inizia nello sparpagliamento erratico di personaggi ed azioni, e termina ancora peggio. Genny uccide per mano di Ciro il padre: si libera del padre armando la vendetta di Ciro. Ma non sono i ‘fratelli’ che si alleano contro il ‘padre’ per ripristinare un’alleanza orizzontale: tutt’altro, ne vogliono prendere il posto, ascendere a una verticalità che era loro ostacolata. È un’alleanza provvisoria, estemporanea. La loro rivalità, com’è probabile, rinascerà violenta.

Nell’anarchia caotica di un mondo senza centro, resta solo la composizione ad indicare l’ordine di un destino tragico che piomba su personaggi e situazioni. Il carattere livido di una fotografia a colori che è quasi modulazione del bianco e nero (esemplare la sequenza al cimitero del funerale della figlia di Ciro), il campo lungo che ‘sigilla’ ogni crimine efferato, una macchina da presa che occupa una posizione terza non facendosi intercedere da nessuno dei personaggi, segnalano in forma esplicita una cosa: Gomorra - La serie non è la restituzione realistica di un contesto sociale, ma la trasposizione basso-mimetica di un mythos tragico (per riprendere ancora Frye), come evidenziano gli alti processi di formalizzazione ‘congelata’. La struttura romanzesca viene rielaborata nella serie attraverso una esplicita codificazione tragica, per cui il mondo non ha aperture né imprevedibilità, e il tempo è solo quello che separa una morte dall’altra.