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  • 'Paesaggi di vita'. Mito e racconto nel cinema documentario italiano (1948-1968) →
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Il saggio esplora il ruolo del cinema amatoriale italiano come testimone e interprete dei cambiamenti socio-culturali del paese, concentrandosi in particolare sul patrimonio audiovisivo privato, conservato presso l’Archivio Nazionale del Film di Famiglia "Home Movies". Attraverso l’analisi di sequenze di film di famiglia, il saggio evidenzia come immagini apparentemente intime e personali acquistino un valore storico e simbolico, offrendo un punto di vista unico sui mutamenti del paesaggio sociale, culturale e territoriale italiano.

The essay explores the role of Italian amateur cinema as a witness and interpreter of the country's socio-cultural changes, focusing on the private audiovisual heritage, preserved at the National Archive of Family Film ‘Home Movies’. Through the analysis of family film sequences, the essay highlights how apparently intimate and personal images acquire a historical and symbolic value, offering a unique point of view on the changes in the Italian social, cultural and territorial landscape.

 

1. I film di famiglia e le mutazioni di metà secolo

È una domenica mattina. Il cartello iniziale, traballante e incerto nei sedici frames per secondo di quella pellicola formato ridotto 9.5mm, messa a dura prova dal tempo, ci rivela il giorno esatto: 27 Febbraio 1955. Una piccola folla, in un bianco e nero un po’ sbiadito, esce fuori dal portale centrale del Santuario della Beata Vergine Maria del Santo Rosario di Pompei. Sono donne e uomini, bambini e anziane, tutti elegantemente vestiti con lunghi cappotti, raffinati copricapo e giacche ben stirate, abbigliamento che denuncia l’inequivocabile appartenenza sociale alla classe borghese. Anche senza l’indicazione del cartello, non sarebbe difficile capire che siamo nel pieno del boom economico italiano, soprattutto dalle immagini che seguono: due uomini, tra quelli che abbiamo visto poco prima, fumano rilassati, davanti a un’auto parcheggiata, nuova di zecca. Aprono il cofano, soddisfatti. Un sacerdote, in paramenti liturgici, è accanto a loro, e tiene in una mano un piccolo breviario, nell’altra, un aspersorio. Coadiuvato da un altro uomo che regge l’acqua benedetta, con sottobraccio un cappello da custode, inizia la benedizione: ma non dei presenti, bensì ̶ sotto lo sguardo curioso di questi ultimi ̶ di tre automobili. Sono le tre ‘caravelle’ che appaiono nel goliardico titolo riportato nel cartello iniziale [fig. 1], insieme alla data: «BENEDIZIONE ALLE TRE CARAVELLE: L’ADRI - LA MERY E LA CACCAVELLA». Un titolo che, nel suo intento dichiaratamente ironico, denuncia un tema che, come vedremo, è in realtà cruciale: l’avvento di una nuova era immortalata dal cinema di famiglia. Questo breve estratto, proveniente dal fondo Longo (HMLONGREN-0009) conservato presso l’Archivio Nazionale del Film di Famiglia Home Movies di Bologna, catturava nelle intenzioni del cineamatore un momento certo importante, degno quantomeno di essere ripreso e conservato, ma afferente alla sfera privata e personale.

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  • 'Paesaggi di vita'. Mito e racconto nel cinema documentario italiano (1948-1968) →
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L’articolo esplora il ruolo del fuoco come elemento visivo fondamentale per la costruzione di una mitologia dello sviluppo industriale nella cultura visuale dell’Italia del ‘miracolo economico’. Attraverso le sue diverse rappresentazioni si configura infatti un’immagine stabile che sintetizza l’idea di progresso del tempo: la ciminiera che svetta contro il cielo azzurro con una fiamma alla sua sommità, che diventa una vera e propria icona di questo periodo. Partendo dai lavori della Panaria Film realizzati nell’immediato secondo dopoguerra, dove il fuoco è incluso dentro un tempo arcaico e mitico prima di Prometeo, il saggio affronta le trasformazioni di questa icona in alcuni casi di studio esemplari che riguardano sia il nord sia il sud Italia, per analizzare infine alcuni esempi che propongono invece una lettura critica del mito del progresso industriale attraverso un lavoro di decostruzione iconografica del fuoco. Con questo percorso il saggio intende mostrare la rilevanza di una prospettiva elementale per sviluppare un’analisi storico-culturale nella cornice della nuova teoria dei media. 

This paper explores the role of fire as a fundamental visual element for the construction of a mythology of industrial development in the Italian visual culture of the ‘economic miracle’. In fact, through its different representations a stable image is configured that summarizes the idea of progress of the time: the chimney standing out against the blue sky with a red flame at its top, which becomes an icon of this period. Starting from the works of Panaria Film produced immediately after the Second World War, where fire is included in an archaic and mythical time before Prometheus, the essay addresses the transformations of this icon in some exemplary case studies that concern both Northern and Southern Italy, to finally analyse some examples that propose a critical reading of the myth of industrial progress through the iconographic deconstruction of fire. Through these stages, the essay aims to show the relevance of an elemental perspective to develop a historical-cultural analysis in the framework of the new media theory.

3.3. Il mito del fuoco. Media elementali e modernizzazione italiana

di Giacomo Tagliani

Immersa in un paesaggio fuori dal tempo, una ragazza si incammina sulla battigia con un pentolino di coccio e un paio d’uova. Inginocchiatasi in riva al mare, appoggia il tegame sulla sabbia tra i fumi sulfurei che sgorgano dal sottosuolo per cucinarsi un pranzo frugale [fig. 1]. Una languida melodia d’archi lascia improvvisamente il posto all’allegro fraseggio di un flauto suonato da un giovane pastore che ha abbandonato il gregge attratto dalla ragazza. La voce fuori campo, piuttosto parsimoniosa nel concedersi, commenta ora compiaciuta: «Sulla petraia che ribolle e si scuote ardente, terra impastata di fuoco, tra le gialle rovine di montagne esplose, nascono fauneschi amori. È un mondo umano e mitico assieme». La scena è un momento cruciale di Isole di cenere (1947), uno dei cortometraggi prodotti dalla Panaria Film del Principe Francesco Alliata di Villafranca che ritraggono le Isole Eolie nell’immediato secondo dopoguerra: dopo aver mostrato le difficili – ma tutto sommato felici – condizioni sull’isola di Vulcano, questo amore pronto a sbocciare è infatti interrotto dal risveglio dello Stromboli, «furibonda e fiammeggiante montagna», che ricorda come la vita, in questo lembo del Tirreno, sia sempre contigua alla morte.

I film della Panaria non sono certo un caso isolato nel panorama documentaristico italiano per quanto riguarda il racconto di un’Italia dove l’arcaicità sopravvive a fianco del desiderio di modernità, ma qui il richiamo alla dimensione mitologica – anche in termini ironici e caricaturali – ha un peso decisivo nel rappresentare un mondo originario nel cuore del Ventesimo Secolo, anche perché è la Sicilia stessa a riattivare il «tempo divino» dei propri vulcani «nel pieno dell’epoca contemporanea» (Di Girolamo, Rimini 2023, p. 89). Effettivamente, la realtà di cui fa esperienza l’anonima protagonista della storia si riduce a pochi tratti essenziali, il padre, l’umile casa, un solo possibile amore, sino alla scena descritta inizialmente, nella quale il mondo si riduce ai quattro elementi fondamentali: acqua, terra, aria, fuoco. Un fuoco, però, non ancora addomesticato, espressione di una condizione pre-prometeica che la nuova epica della nascente modernità industriale stava per spazzare via, mostrando come sia proprio la sottomissione della materia al volere umano a costituire uno degli aspetti fondamentali di quell’ingente coacervo di trasformazioni sociali e culturali meglio conosciuto come ‘Miracolo economico’ (Palmieri 2019, pp. 120-123). Di fatto, una nuova origine dell’umanità, pienamente conforme alla retorica dello sviluppo, che necessita di mitologie adeguate per poter essere inquadrata dentro schemi di senso comprensibili e condivisi.

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La presenza della storia del mito di Prometeo nella cultura occidentale è così vivida da aver invaso anche il fenomeno comunicativo social dei memi. La ragione d’essere di questa pratica comunicativa multimodale non si ferma allo scopo umoristico ma si spinge fino al riconoscimento, per inferenza, di un’astrazione di caratteristiche e situazioni tipicamente umane nelle quali gli interagenti che leggono e condividono i memi si identificano. Attraverso il modello analitico della ‘Conceptual Integration Theory’ di Gilles Fauconnier e Mark Turner abbiamo analizzato un corpus di memi che integrano diversi template macro con la storia del mito di Prometeo. Le analisi mostrano che, attraverso questa operazione di integrazione, il mito si avvicina alla sfera umana.

The story of the myth of Prometheus is so vivid in Western culture that it has also invaded the social communication phenomenon of memes. The raison d'être of this multimodal communicative practice does not stop at the humorous purpose but it goes so far as the recognition, by inference, of an abstraction of typically human characteristics and situations in which the interactors who read and share the memes, identify. Through the analytical model ‘Conceptual Integration Theory’ by Gilles Fauconnier and Mark Turner we have analyzed a corpus of memes that integrate different macro templates with the story of the myth of Prometheus. The analyzes show that, through this operation of integration, the myth is perceived as closer to the human sphere.

Introduzione

Il mito di Prometeo è parte della nostra enciclopedia,[1] dell’ipertesto della cultura contemporanea, dell’insieme di testi che la costituisce,[2] e quindi del terreno condiviso.[3] Lo testimoniano le opere letterarie, artistiche e cinematografiche che sin dall’Antichità hanno proposto rivisitazioni del mito, in un flusso di riusi e re–interpretazioni,[4] ma anche i riferimenti e richiami del mito in testi e discorsi contemporanei che identificano entità, costruzioni o strutture culturali o sociali non artistiche, resi possibili e significativi dal forte polimorfismo del mito.[5] Anche solo attraverso una indagine sui motori di ricerca, si scoprono progetti e associazioni benefiche a carattere pubblico, che operano a favore di vari gruppi sociali, che si chiamano ‘Prometeo’, ‘Progetto Prometeo’ (richiamando l’aspetto della filantropia, dell’amore e del sacrificio a favore degli uomini), ma anche iniziative e associazioni educative e culturali che rimandano al dono del fuoco che Prometeo fa agli uomini, portando loro la tecnica e la conoscenza. Prometeo è (o è contenuto) nel brand di aziende di marketing e comunicazione, così come di impianti di riscaldamento, ed è richiamato e sfruttato in senso metaforico in discorsi e messaggi pubblici[6] e nei messaggi pubblicitari.[7]

In rete si trovano anche molti internet memes (detti anche ‘memi digitali’ o in gergo semplicemente ‘meme’) che riprendono e sfruttano in vari modi il mito di Prometeo. In generale gli internet memes hanno un preminente carattere umoristico. Ciò potrebbe far pensare che l’intento dei memi digitali su Prometeo sia quello di ridere e divertirsi ‘a spese del mito’, ridicolizzando il contenuto o certi suoi aspetti. In questo senso, quindi, i memi su Prometeo si inserirebbero nel solco aperto dal Prometeo male incatenato di André Gide della demitizzazione del mito[8] nella comunicazione di massa contemporanea.[9] Ma è tutto qui? L’intento di chi ha creato e diffuso questi memi o l’effetto retorico ricercato da questi artefatti è proprio solo quello di mettere in ridicolo la figura di Prometeo e il suo gesto magnanimo in favore degli esseri umani?

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Il saggio offre una lettura del film di Wim Wenders Il cielo sopra Berlino (1987) attraverso la lente – rovesciata – del mito di Prometeo. Laddove nella dimensione mitologica l’individuo vive un’evoluzione della propria condizione grazie al dono divino del fuoco, portatore simbolico di progresso e conoscenza, nell’opera di Wenders tra gli angeli protagonisti del film c’è chi rinuncia al proprio stato angelico per il desiderio di assimilarsi all’uomo e alla sua condizione mortale. L’uscita dall’eternità affrontata dall’angelo Damiel corrisponde così alla scoperta della sensorialità e dell’emotività, ma soprattutto a un’entrata nella storia e nella finitezza temporale. Parola e immagine sono i due orizzonti sui quali si struttura la vicenda e in particolare l’universo della scrittura e delle parole costituisce il legame tra le due dimensioni, umana e angelica, nonché una prometeica forma di progresso. 

This essay offers a reading of Wim Wenders’ film Wings of Desire (1987) through the inverted lens of the myth of Prometheus. Where in the mythological dimension, the individual experiences an evolution of his or her condition thanks to the divine gift of fire, symbolic bearer of progress and knowledge, in Wenders’ work, among the angels featured in the film, there are those who renounce their angelic state out of a desire to assimilate with man and his mortal condition. The exit from eternity faced by the angel Damiel thus corresponds to the discovery of sensoriality and emotionality, but above all to an entry into history and temporal finiteness. Word and image are the two horizons on which the story is structured, and in particular, the universe of writing and words constitutes the link between the two dimensions, human and angelic, as well as a Promethean form of progress.

 

Berlin, the divided city of course, was just another metaphor, like the angels themselves. Berlin seems to be a city that well represents not only Germany, but also our civilization. In a way, Berlin really represents the world.[1]

 

Il cielo sopra Berlino, film realizzato da Wim Wenders tra il 1986 e il 1987 con la collaborazione alla sceneggiatura di Peter Handke, è un penetrante dialogo tra cielo e terra, in cui la conquista dell’eternità si scontra e incontra con l’intensa finitezza e sensorialità dell’orizzonte umano. Tra i cieli e le strade di Berlino si dispiegano le ‘ali del desiderio’ – dal significativo titolo inglese dell’opera, Wings of Desire, preferito da Wenders rispetto all’originale tedesco in virtù delle maggiori sfaccettature del termine ‘desire’ –[2] di quella che si può definire una prometeica ribellione e rinuncia all’immortalità per accedere a un livello altro di consapevolezza e conoscenza: non una conoscenza intellettuale, quanto emotiva, sensoriale e soprattutto temporale.

Se il mito di Prometeo narra di un semidio che si ribella alle leggi divine donando all’uomo il fuoco – del progresso o della conoscenza, per citare due delle accezioni che hanno caratterizzato le interpretazioni del mito nel corso del tempo – e per questo gesto subisce le conseguenze di quella che viene considerata una colpa, nella presente lettura del film di Wenders si propone una traslazione della ribellione mitologica. Anziché donare qualcosa di divino all’uomo, il divino nel film in oggetto desidera – e il desiderio è un motore centrale nel mito prometeico – accedere alla dimensione umana, esperendo emozioni e sentimenti, ma anche sottomettendosi alle leggi del tempo. In questa prospettiva la vicenda di Damiel (interpretato da Bruno Ganz), che decide di abbandonare la sua condizione angelica, diviene anche la trasposizione di un’entrata nella storia. È con queste parole che l’angelo sancisce l’addio al suo status:

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Il Prometeo incatenato di Eschilo è una delle tragedie più amate e indagate della tradizione ma è anche, dal punto di vista strettamente teatrale, una sfida di notevole difficoltà. Il protagonista, incatenato a una montagna, resta infatti immobile per tutta la durata della rappresentazione. Il contributo indaga alcune soluzioni adottate (tra il 1954 e il 2023) nell’ambito delle rappresentazioni classiche al Teatro Greco di Siracusa, con una particolare attenzione al Prometeo di Luca Ronconi (2002) e di Claudio Longhi (2012). Lo studio e l’indagine delle due rappresentazioni citate permette di illuminare le dinamiche legate allo spazio presenti nell’opera, e la forte interrelazione tra l’architettura di scena e l’esposizione del corpo del protagonista.

One of the most loved and most researched tragedies Aeschylus’ Prometheus Unbound, from a strictly theatrical point of view, is also a very challenging play. Its protagonist, chained to a mountain, remains motionless for the entire duration of the play. This article investigates some of the solutions adopted (between 1954 and 2023) in the context of classical performances at the Greek Theatre in Syracuse, with particular attention to Luca Ronconi’s Prometheus (2002) and Claudio Longhi’s Prometheus (2012). The study and investigation of the two above-mentioned performances allows us to illuminate the space-related dynamics present in the work, and the strong interrelationship between the stage architecture and the display of the protagonist’s body.

«Spesso mi succede di mettere in scena cose che non conosco con il solo scopo di conoscerle»[1], appunta Luca Ronconi a proposito della sua pluriennale esperienza nel dirigere opere di teatro antico. L’affermazione può essere interpretata in un duplice senso: da un lato il regista denuncia l’impossibilità di comprendere fino in fondo le istanze di un testo così lontano nel tempo e nello spazio; dall’altro mette in luce come la regia sia di per sé uno strumento conoscitivo, che costringe chi la pratica a confrontarsi con i nodi e le questioni irrisolte della drammaturgia originaria. Tanto più l’accesso all’opera risulta impervio, dunque, quanto più il regista è chiamato a prendere importanti decisioni interpretative.

Il Prometeo Incatenato pone al lettore problemi ermeneutici di differente natura, alcuni dei quali sono menzionati o affrontati nelle pagine di questo numero. Ma se si legge la tragedia in una prospettiva squisitamente teatrale, appare chiaro che il testo costituisce una sfida non trascurabile anche per la regia: l’ingresso del protagonista, l’atto di forza con cui viene legato a una roccia, la sua conseguente immobilità sono solo alcune delle concrete difficoltà poste dalla drammaturgia.

Gli studi sulla rappresentazione antica hanno avanzato, in mancanza di dati certi, diverse ipotesi sulla realizzazione e la natura della rupe in scena (forse un pannello ligneo dipinto; forse l’utilizzo di un declivio naturale; forse la piattaforma innalzata del theologeion)[2]; «tutto può essere, o quasi tutto», chiosa con ironia Federico Condello, «e il dibattito minaccia di non cessare mai».[3]

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L’esposizione "Il mito di Prometeo, dagli antichi ai moderni" ha avuto come intento quello di raccontare le tappe di un percorso volto a ricostruire il mito di Prometeo a partire dalle edizioni antiche e moderne di Esiodo ed Eschilo sino alle riscritture moderne e contemporanee di P. B. Shelley, Carl Spitteler e André Gide. Il contributo si sofferma sulle strategie e sulle scelte che hanno portato alla realizzazione della mostra nelle due diverse sedi, la Biblioteca universitaria Lugano e la Biblioteca cantonale di Lugano, con particolare attenzione al concetto di intermedialità. 

The exhibition ‘Il mito di Prometeo, dagli antichi ai moderni’ has the aim to illustrate the stages of a journey that recreates the mith of Prometheus, from the ancient and modern editions of Esiodo and Eschilo works to the modern and contemporary rewritings from P. B. Shelley, Carl Spitteler and André Gide. The contribution focuses on strategies and choices that led to this exhibition, in its two locations, Biblioteca universitaria Lugano and Biblioteca cantonale of Lugano, with a focus on the notion of intermedial approach. 

La mostra bibliografica Il mito di Prometeo, dagli antichi ai moderni è nata da un’idea del micro-gruppo ‘Miti in migrazione: intermedialità del mito’, nell’ambito del Progetto culturale ‘Convergenza e distanza’ della Facoltà di comunicazione, cultura e società dell’Università della Svizzera italiana. La scelta di esporre alcuni volumi posseduti dalle Biblioteche, così come la loro disposizione all’interno delle teche, è legata anche ad un altro evento organizzato dal micro-gruppo dal titolo Mito e intermedialità, nel quale sono intervenuti Piero Boitani, professore emerito di Letterature comparate all’Università La Sapienza di Roma, Irina O. Rajewsky, docente all’Università di Mainz e Peppino Ortoleva, già professore di Storia e teoria dei media all’Università di Torino. Il concetto di intermedialità, ovvero la compresenza di due o più media, sistematizzato da Rajewsky, emerge chiaramente dalla presenza all’interno dell’esposizione di libri illustrati moderni e di xilografie inserite nei libri antichi.[1]

La Biblioteca universitaria Lugano, la Biblioteca cantonale di Lugano e la Biblioteca Salita dei Frati hanno collaborato all’iniziativa, mettendo a disposizione gli esemplari custoditi nelle loro Biblioteche.

L’intento dell’esposizione è stato quello di far conoscere, non solo ad un pubblico strettamente accademico ma ben più ampio, le edizioni sul mito di Prometeo presenti sul territorio, al fine di valorizzare i fondi librari in cui sono inserite e di mostrare come lo stesso mito si sia modificato nel corso del tempo ad opera di autori antichi e moderni.

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La tragedia greca non era molto popolare in Inghilterra fino alla fine del XVIII secolo: oltraggiava la sensibilità estetica e morale dell'epoca. Tuttavia, la versione latina delle tragedie di Eschilo, pubblicata da Thomas Stanley nel 1663, ebbe una notevole diffusione e fu ristampata anche all'estero. Dopo la traduzione latina di Stanley nel XVIII e all'inizio del XIX secolo furono pubblicate diverse traduzioni e commenti in inglese, in particolare del Prometeo; anche se una storia dettagliata di questo soggetto è ancora un desideratum. È interessante notare che J.H. Newman considerava questa tragedia come un vero e proprio capolavoro, e che l'interpretazione di Browning di un passaggio difficile è simile a quella offerta da un antico scholion, già pubblicato da Stanley.

Greek tragedy was not very popular in England up to the end of the 18th century: it offended the aesthetic and moral sensibilities of the age. However, the Latin version of Aeschylus’s tragedies, published by Thomas Stanley in 1663, achieved a remarkable circulation and was reprinted even abroad. After Stanley’s Latin translation, several English translations and commentaries, particularly of the Prometheus, were published in the 18th and early 19th century; even if a detailed history of this topic is still a desideratum, it is interesting to notice that J.H. Newman regarded this tragedy as a real masterwork, and that Browning's interpretation of a difficult passage is similar to that offered by an ancient, scholion, already published by Stanley.

1. Storie di traduzioni, ricordate e dimenticate, e di lettori, ricordati e dimenticati

Shelley, certo, moglie e marito, la lunga, sotterranea, traccia di Milton, e anche un po’ Byron: pure, Prometeo nella cultura inglese non vive solo nei grandi nomi, ma anche in un tessuto connettivo di traduttori e commentatori. Figure minori, ‘periferiche’, poco influenti nell’immagine della cultura generale, come appare da un qualche disdegno di Raymond Trousson, l’autore della più massiccia e documentata storia del tema prometeico nella letteratura europea: nel Settecento, sostiene l’autore, le traduzioni non apportarono un sostanziale aumento dell’interesse per Eschilo e in particolare per il Prometeo:[1]

Trousson non considera evidentemente significative le traduzioni, neppure quella latina di Stanley, alla quale si riferisce solo menzionando Edgar Quinet, che nel suo Prométhée riconduce appunto a Stanley la ‘cristianizzazione’ di Prometeo.[2]

In realtà, nella costruzione della ricezione di un testo le traduzioni hanno sempre una grande importanza: ancora un secolo fa, Pasquali osservava che era la conoscenza del greco a costituire la vera eccellenza culturale negli strati culturalmente più alti della popolazione inglese:[3] la traduzione era dunque necessaria per raggiungere un pubblico meno elitario. Ma la tragedia greca, e particolarmente quella eschilea, attirava poco per ragioni di sensibilità estetica e anche ‘morale’. Come ha notato Robert Garland, fondandosi su giudizi di Coleridge e di David Hume, la tragedia greca, diversamente, ad esempio, dall’Omero di Pope, colpiva negativamente l’uomo colto del Settecento: «In part the reason for the failure of Greek tragedy to attract the attention of any translator of distinction before the middle of the nineteenth century was the fact that it offended the aesthetic and moral sensibilities of the age».[4]

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Muovendo da un passo di Aulo Gellio (Noctes Atticae 13, 17) e soffermandosi su testi di Eschilo, Varrone, Firmico Materno e Erasmo da Rotterdam, nonché tenendo conto di testimonianze vascolari dell’antica Grecia, questo contributo intende mostrare come nella figura di Prometeo possa incarnarsi il mitico fondatore di uno dei concetti portanti del pensiero romano classico, quello di humanitas.

Starting from a passage by Aulus Gellius (Noctes Atticae 13, 17) and dwelling on texts by Aeschylus, Varro, Firmicus Maternus and Erasmus of Rotterdam, as well as taking into account vase evidence from ancient Greece, this contribution aims to show how the mythical figure of Prometheus can embody the founder of one of the most important concepts of classical Roman thought, that of humanitas.

La figura di Prometeo all’interno del panorama mitologico classico, soprattutto greco, gode di particolare fortuna nell’ambito legato ai cosiddetti miti del progresso, ovvero quelle narrazioni in cui la storia del mondo e del ruolo dell’uomo al suo interno è presentata come una continua evoluzione da condizioni più arretrate culturalmente, e perciò meno agevoli per la vita umana, a situazioni migliori, più evolute, più civilizzate.[1] Emblematica, in questo contesto, è la versione contenuta nel Protagora platonico (320d-322d), secondo cui Prometeo rimedia alle mancanze del fratello Epimeteo nei confronti degli uomini consegnando loro il fuoco e la sapienza tecnica, dopo aver sottratto con l’inganno il primo a Efesto e la seconda ad Atena.[2] Proprio per il furto del fuoco Eschilo aveva definito Prometeo philánthropos in un passo del Prometeo incatenato su cui ritorneremo, chiamando così in causa la philanthropía, da identificarsi, come chiarirà bene un passo di Aulo Gellio, come una componente fondamentale del concetto latino di humanitas, che nel suo senso più ampio indica proprio la nozione di civilizzazione – ovviamente secondo i parametri romani e con sfumature diverse in relazione agli autori e ai periodi della storia di Roma – ovvero il risultato del progresso umano descritto nei miti e cui i Greci non diedero mai una denominazione vera e propria.[3]

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Procedendo dall’analisi di Hes. Th. 507-613 e di altre testimonianze puntuali, si ricostruiscono le sequenze fondamentali del mito prometeico del furto del fuoco, a partire dal retroscena della spartizione di Mecone. L’insieme dei dati, posto in relazione con le fonti letterarie e iconografiche relative ai Promethia, permette di illuminare la funzione cultuale di Prometeo nella città di Atene e le prerogative del fuoco che il Titano dona agli uomini: intermediario tra il fuoco inestinguibile di Zeus e quello perfettamente addomesticato di Efesto, il fuoco prometeico resta nascosto ma non si spegne. È dunque divenuto a ‘misura d’uomo’, ma conserva, dell’antico fuoco cosmogonico, quella vigorìa che lo mantiene acceso, rendendolo ‘instancabile’.

Proceeding from the analysis of Hes. Th. 507-613 and other punctual testimonies, the fundamental sequences of the Promethean myth of the theft of fire are reconstructed, starting from the background of the partition of Mecon. The set of data, placed in relation to the literary and iconographic sources relating to the Promethia, allows us to illuminate the cultic function of Prometheus in the city of Athens and the prerogatives of the fire that the Titan bestows on mankind: an intermediary between the unquenchable fire of Zeus and the perfectly tamed fire of Hephaestus, Promethean fire remains hidden but is not extinguished. It has therefore become 'human-sized', but retains, of the ancient cosmogonic fire, that vigour that keeps it burning, making it 'indefatigable'.

Anche il “mito” di Prometeo – come altri racconti complessi e stratificati di dèi ed eroi tramandati nelle fonti antiche – si frastaglia nella letteratura e nell’iconografia greca segmentandosi in diverse imprese, senza che vi sia la possibilità di ricostruire genesi e articolazione dell’insieme delle gesta che al Titano sono attribuite. Prometeo portatore del fuoco agli uomini, Prometeo che inaugura il sacrificio bovino insegnando ai mortali come lasciare agli dèi le sole ossa tenendo per sé la carne, Prometeo che plasma il protògonos al quale Atena infonde la psyché, Prometeo che subisce la punizione sul Caucaso e che poi viene liberato da Eracle. A queste si aggiungono ulteriori imprese, meno celebri, nelle quali il Titano è ricordato insieme a Deucalione e a Chirone, fino alla rilettura platonica del furto del fuoco. Nella letteratura antica, dunque, è difficile imbattersi in una rassegna completa delle imprese prometeiche, mentre prevalgono i resoconti e le riletture focalizzati su una particolare sezione del mito; unica e attesa eccezione è il resoconto della Biblioteca dello Pseudo Apollodoro. Nella selettività delle fonti visive, connaturata al mezzo, si segnala tuttavia l’originale e inattesa riproduzione di più momenti del mito di Prometeo su un celebre sarcofago, che ne riproduce in sequenze alcuni dei momenti più significativi.[1]

Sia pure trattate quasi sempre in modo separato, le imprese di Prometeo lasciano intuire una stretta relazione tra il dio e il genere umano. Una relazione già individuata da Kerényi nella struttura espositiva della Teogonia esiodea, ove la genealogia di Giapeto segue a quella della linea Urano-Crono.[2]

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