«Spesso mi succede di mettere in scena cose che non conosco con il solo scopo di conoscerle»[1], appunta Luca Ronconi a proposito della sua pluriennale esperienza nel dirigere opere di teatro antico. L’affermazione può essere interpretata in un duplice senso: da un lato il regista denuncia l’impossibilità di comprendere fino in fondo le istanze di un testo così lontano nel tempo e nello spazio; dall’altro mette in luce come la regia sia di per sé uno strumento conoscitivo, che costringe chi la pratica a confrontarsi con i nodi e le questioni irrisolte della drammaturgia originaria. Tanto più l’accesso all’opera risulta impervio, dunque, quanto più il regista è chiamato a prendere importanti decisioni interpretative.
Il Prometeo Incatenato pone al lettore problemi ermeneutici di differente natura, alcuni dei quali sono menzionati o affrontati nelle pagine di questo numero. Ma se si legge la tragedia in una prospettiva squisitamente teatrale, appare chiaro che il testo costituisce una sfida non trascurabile anche per la regia: l’ingresso del protagonista, l’atto di forza con cui viene legato a una roccia, la sua conseguente immobilità sono solo alcune delle concrete difficoltà poste dalla drammaturgia.
Gli studi sulla rappresentazione antica hanno avanzato, in mancanza di dati certi, diverse ipotesi sulla realizzazione e la natura della rupe in scena (forse un pannello ligneo dipinto; forse l’utilizzo di un declivio naturale; forse la piattaforma innalzata del theologeion)[2]; «tutto può essere, o quasi tutto», chiosa con ironia Federico Condello, «e il dibattito minaccia di non cessare mai».[3]
Proprio perché il testo spettacolare antico risulta di così incerta ricostruzione, lo studio delle produzioni artistiche moderne e contemporanee del Prometeo può rivelarsi un prezioso strumento di indagine[4] per illuminare le dinamiche legate allo spazio, e la forte interrelazione tra l’architettura di scena e l’esposizione del corpo del protagonista.
Si prenderanno in considerazione, come caso di studio, alcune soluzioni adottate (tra il 1954 e il 2023)[5] nell’ambito delle rappresentazioni classiche al Teatro Greco di Siracusa, con una particolare attenzione al Prometeo di Luca Ronconi (2002) e di Claudio Longhi (2012). L’Istituto Nazionale del Dramma Antico, punto di riferimento per la storia del dramma antico in Italia, costituisce infatti un significativo osservatorio sulle pratiche di messa in scena del classico;[6] le condizioni produttive (che consentono ai registi di avvalersi di un nutrito cast e di un ampio apparato tecnico), e la possibilità stessa di operare nello spazio archeologico di un teatro antico (in un luogo, dunque, di estensione paragonabile a quello della prima rappresentazione) permettono così di visualizzare, nella loro dimensione concreta, alcune soluzioni sceniche e spaziali che, come si avrà modo di osservare, acquisiscono nel Prometeo particolare rilevanza.
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Quanto tempo ci vuole per attaccare un uomo a una rupe?
I performance studies dell’ultimo cinquantennio hanno mutato profondamente la metodologia di analisi del teatro antico, con una crescente attenzione per lo spazio scenico e per le specificità della prossemica attoriale; un contributo rilevante in questa direzione è arrivato dagli studiosi anglosassoni (e in particolare da Oliver Taplin e dall’Archive of Greek and Roman Drama di Oxford).[7]
Sebbene gli studi semiotici e teatrologici moderni abbiano ben sottolineato come non sia mai possibile desumere dal testo letterario la partitura del testo spettacolare[8] (irrimediabilmente perduto, nel caso del teatro classico), una particolare importanza per la comprensione della dinamica teatrale dell’opera antica rivestono le indicazioni sceniche, cioè i passaggi interni al testo drammatico che segnalano (direttamente o indirettamente) movimenti, determinazioni di luogo, spostamenti nello spazio.
In questo orizzonte, un ruolo determinante è occupato dal prologo: i primi versi della tragedia hanno spesso la funzione di delineare l’identità oppure l’ingresso del protagonista, e di definire il setting della scena. La drammaturgia del Prometeo, che si apre con un dialogo tra Efesto e Kratos, colloca l’azione in Scizia, caratterizzando da subito l’ambiente come un luogo «deserto» e «senza gente» (v. 2), e sollecitando così l’immaginazione dello spettatore. I due emissari del volere di Zeus (a cui si aggiunge Bia, Violenza, un personaggio muto) sono dunque appena arrivati in un remoto angolo dell’odierna Asia, ma non sono soli: con loro c’è Prometeo, come segnala chiaramente il deittico τόνδε (v. 4: «Efesto: abbi a cuore gli incarichi che tuo padre ti ha imposto. Incatenare lui, che è capace di tutto, alle rupi scoscese»)[9]. Prometeo, silente, è dunque già sul palco, e sta forse per essere trascinato in catene con il capo chinato. Spetta a Efesto il compito di mettere in atto la punizione e così pare intenzionato a fare al v. 20, quando designa con un altro deittico la rupe al quale verrà inchiodato il Titano (indicando, con tutta probabilità, la skené).
Trenta versi più tardi, però, Kratos deve richiamarlo all’ordine, intimandogli di sbrigarsi (v. 52) poiché l’atto non è ancora stato compiuto. Da qui la drammaturgia comincia a battere il ritmo implacabile dell’esecuzione: Kratos accompagna con le parole le azioni di Efesto, punteggiando con le battute ogni gesto necessario per assicurare il corpo alla rupe. Prima viene fissato un braccio (v. 60), poi l’altro (v. 61), si passa poi al petto (v. 64) – il fabbro pietoso esita di nuovo (v. 67) – poi tocca ai fianchi (v. 71) e alle gambe (v. 74). Al v. 81 Efesto dichiara l’opera compiuta, e altrettanto devono aver fatto gli attori e il regista: poiché da questo momento, e per tutta la durata dello spettacolo, l’attore protagonista dovrà restare immobile nella posizione in cui è stato issato in questi venti cruciali versi. Per pronunciarli ad alta voce occorrono circa due minuti, un tempo ragionevole per compiere teatralmente un’azione fittizia, ma un tour de force se si intende assicurare davvero l’attore al luogo dove resterà per il resto della rappresentazione.
Nei primi ottanta versi, dunque, il regista deve fare in modo di introdurre su palco il personaggio principale; issarlo a una ‘rupe scenica’ idonea, dove Prometeo possa restare ben visibile al pubblico nel corso della tragedia; inchiodarlo a quel luogo in pochi minuti, sistemandolo in modo che possa sopportare la sua posizione statica pur recitando ampie sezioni di testo. Quali soluzioni scenografiche adottare, dunque? «Alla mastodontica rupe le regie non sanno rinunciare», appunta Condello;[10] e in effetti la storia degli spettacoli e delle regie del Prometeo è anche un catalogo di virtuosistiche ideazioni architettoniche. Nella rappresentazione diretta da Luigi Squarzina, nel 1954, lo scenografo Mario Chiari costruisce una imponente struttura con due rocce (una di 13, l’altra di 14 metri); Prometeo (interpretato da Vittorio Gassman) resta seduto, fermato da catene, nell’intercapedine tra le due montagne.[11]
La realizzazione di Chiari/Squarzina è forse quella più legata a una dimensione schiettamente descrittiva, e alla riproduzione di un ambiente montuoso come descritto dall’originale. Già nella seconda rappresentazione siracusana, nel 1994, il regista Antonio Calenda si muove piuttosto nella direzione di una resa astratta: la scena (disegnata da Bruno Buonincontri) è dominata da un’estesa cancellata nera.[12] Da un tombino in proscenio emergono Efesto e Kratos (in questa versione denominati Schutz e Staffel) e poi fa capolino Prometeo (Roberto Herlitzka); dopo l’uscita di scena dei due sgherri l’attore resta nascosto nelle profondità del palco, sotto le grate, mostrando al pubblico solo la testa dell’attore.[13] L’immagine di un Prometeo ‘sotterrato’, evidentemente debitrice a Giorni Felici di Beckett, rovescia la prospettiva spaziale dell’originale, con la sua prigionia montana e dunque ‘alta’; e al contempo indaga l’ostensione del corpo attoriale davanti al pubblico, facendone il perno della propria regia. Proprio questo aspetto, anche nelle sue connotazioni metateatrali,[14] verrà ulteriormente approfondito da due rappresentazioni ospitate a Siracusa nel nuovo millennio.
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Nella testa del Titano: la regia di Luca Ronconi
Nel maggio del 2002 va in scena al Teatro Greco di Siracusa (in collaborazione con il Piccolo Teatro di Milano) una trilogia interamente a firma di Luca Ronconi, per la prima volta all’opera all’INDA. I tre drammi rappresentati – Prometeo Incatenato di Eschilo, Baccanti di Euripide, Rane di Aristofane[15] – delineano, nelle intenzioni del regista, un ideale percorso unitario, in particolare per quanto riguarda l’evoluzione del rapporto tra umano e divino.
L’esperienza, presentata con il titolo Progetto Greci, rappresenta il punto di arrivo di un pluriennale attraversamento dei classici. La ricerca sulla tragedia, iniziata da Ronconi negli anni Settanta, aveva dato fin da subito esiti sorprendenti (in particolare l’Orestea del 1972 e le Baccanti create in seno al Laboratorio di Prato nel 1978)[16] inaugurando una inedita possibilità metodologica.[17] La via ronconiana per il teatro antico si era infatti distinta, da un lato, per la ferma volontà di allontanare le tendenze attualizzanti e le frettolose analogie tra passato e presente (attraverso un’oculata scelta di traduzioni, costumi e scene); dall’altro, per la sperimentazione sullo spazio, volta a modificare l’assito dello spettatore e la prospettiva di sguardo sull’atto performativo. Per l’Orestea del 1972, Ronconi si rivolge infatti allo scenografo e scultore Enrico Job, chiedendogli di ideare uno spazio con tre possibili sistemazioni del pubblico nei confronti della scena; ne nasce una grande struttura in ferro e legno capace di inglobare al suo interno attori e spettatori. Il pubblico viene disposto su tre lati in tre gallerie sovrapposte, mentre al centro l’azione si svolge su un piano rettangolare a vista, che viene manovrato da sotto e la cui inclinazione cambia a seconda dei momenti dello spettacolo. La scatola scenica viene raccontata dalla critica con immagini icastiche e rappresentative: «gli spettatori ai tre lati si trovano nella condizione di chi segue, in un teatro anatomico, le fasi di un’operazione chirurgica»;[18] «una scatola compatta come una strettoia, un ordigno oscillante e insidioso come la sorte, in quel duro legno cosparso di attrezzi ammiccanti»;[19] «la struttura ideata e costruita da Enrico Job, è per certi versi una nave, nella quale siamo tutti a bordo».[20] In sinergia con la struttura scenografica, Ronconi cerca una traduzione capace di mostrare la tragedia come «uno spaccato, una sedimentazione di parole solenni e di morte vestigia»,[21] e opta per il testo già edito di Mario Untersteiner (1947): «meticolosamente fedele al testo greco, presenta qualche difficoltà a dirsi in italiano, perché più che a usare la tua propria lingua ti invita ad entrare nei meandri, nei giri sintattici di pensiero di un’altra».[22]
In una simile direzione di ricerca si colloca anche lo spettacolo Baccanti, ideato all’interno della prolifica esperienza del Laboratorio di Prato (1978) e affidato, per la parte scenografica, a Gae Aulenti. Il luogo scelto per la rappresentazione è un ex orfanotrofio (in particolare, un’ala dell’Istituto Magnolfi, un palazzo seicentesco) e lo spettacolo coincide con un percorso compiuto da ventiquattro spettatori attraverso i corridoi e le stanze guidati da un’unica attrice, Marisa Fabbri. Aulenti non procede qui, come negli altri casi, alla realizzazione ex novo di uno spazio scenico fisso, ma si concentra piuttosto sul momento di passaggio tra una stanza e l’altra (talvolta chiudendo o riducendo i varchi) e più in generale sulla percezione del transito.[23] Il gruppo di spettatori si trova nel corso della performance a ripassare più volte dalle stesse aree, ma queste vengono volta per volta riadattate (con luci e posizionamenti differenti nello spazio) al punto da risultare quasi irriconoscibili. Lo spettatore si trova così, come affermava Aulenti, fuori dal suo «baricentro, che viene continuamente deviato»;[24] lo spaesamento provocato dal posizionamento instabile nello spazio trova per altro piena corrispondenza con una delle istanze tematiche più forti del testo euripideo, cioè il desiderio di conoscere, e l’impossibilità di riuscirci. Come Penteo è costretto a sbirciare, nel quinto episodio della tragedia, i segreti culti bacchici nascondendosi in precario equilibrio su un albero, così il pubblico assiste alla rappresentazione della tragedia senza potersi fermare in un unico punto, e perdendo l’orientamento all’interno dell’Istituto.
L’obiettivo della prima sperimentazione ronconiana sul classico, qui brevemente ricordata attraverso due spettacoli particolarmente significativi, sembrava dunque quella di restituire allo spettatore l’esperienza di un «rito perduto»,[25] dell’origine remota e misteriosa, anche attraverso la diversa disposizione del pubblico in uno spazio anticonvenzionale.
Il ritorno al teatro antico per il Progetto Greci – a trent’anni di distanza dalle esperienze già citate, in una fase assai diversa della produzione – sembra a un primo sguardo molto lontana dalle sperimentazioni spaziali sopra ricordate. Eppure la ricerca muove di fatto dal medesimo assunto: che l’incolmabile distanza storica che ci separa dal classico non vada velleitariamente ridotta, ma piuttosto denunciata e così amplificata. Oltre all’assoluta fedeltà al testo eschileo (nella traduzione di Dario Del Corno, che evita soluzioni naturalizzanti), Ronconi sceglie di valorizzare la natura dello spazio archeologico a cui le rappresentazioni sono destinate: «il luogo è talmente ricco di segni storici e teatrali che sarebbe un peccato cancellarli imponendovi sopra una scenografia».[26] Le rovine restano dunque a vista, come una testimonianza del tempo che separa lo spettatore dal contesto originario dell’opera; in voluto contrasto con i reperti antichi emergono alte gru gialle, una trasposizione contemporanea dell’antica mechané che conferisce allo spazio una dimensione quasi da archeologia industriale. In questo ambiente, progettato con la scenografa Margherita Palli, viene inserito il segno registico più forte, un’enorme statua (alta quattordici metri, percorribile all’interno) di un uomo accasciato. L’ispirazione iconografica, nelle dichiarazioni della scenografa, non è da cercarsi nel Galata Morente (rifermento talvolta avanzato da critici e lettori)[27] ma nelle atmosfere pittoriche di Arnold Böcklin e nel suo Prometheus (1882).
L’enorme figura caduta evoca simbolicamente il destino dei Titani da cui Prometeo discende, e dunque la prima generazione di divinità sottomesse e annientate dal regno di Zeus. Nel vasto spazio scenico siracusano, il colosso – oltre a costituire un ideale doppio dello stesso sofferente Prometeo – assolve anche la funzione prevista nel testo dagli elementi paesaggistici, e in particolare dalla rupe: sulla sua superficie, come sull’antica skené, sarà inchiodato il Titano. La regia affronta con sapienza le questioni sceniche contenute nei primi versi, di cui si è precedentemente discusso, rendendo astratta la partitura di azioni che porta all’adempimento della punizione di Zeus.
Nei primi istanti dello spettacolo Kratos ed Efesto appaiono sopra il capo reclinato della statua, mentre Prometeo (interpretato da Franco Branciaroli) spunta in aggetto attraverso una botola che si apre dal cranio. Efesto non tocca dunque mai direttamente il corpo di Prometeo; si limita a colpire simbolicamente la statua con una grossa pietra, da lontano, mentre le catene che legano l’attore si serrano manovrate dai macchinisti all’interno della grande struttura. Da questo momento, per tutta la durata della rappresentazione, Franco Branciaroli resta immobile, inginocchiato, lontano fisicamente dagli altri personaggi. Alla dimensione verticale, cioè l’alto seggio dove viene lasciato Prometeo e le gru che trasportano le divinità (Oceano ed Ermes) si contrappone l’orizzontalità del palco dove appaiono figure alleate o solidali al protagonista, come Io e il Coro, che si muovono con una sensibile vicinanza alla terra. Io (Laura Marinoni) riproduce le movenze di una giumenta, mentre le Oceanine procedono attraversando alcune vasche piene d’acqua e trascinando le vesti zuppe.
La corifea (Galatea Ranzi) siede invece sulle gradinate, in mezzo al pubblico, fino al momento del suo ingresso: una scelta registica volta a restituire, icasticamente, l’idea del coro come una prima ideale cerchia di spettatori che ascolta, guarda, soffre e commenta.[28]
La vecchiaia appare nella regia di Ronconi come un elemento simbolico: Prometeo esibisce lunghi capelli bianchi mentre il coro delle Oceanine viene rappresentato – in opposizione alla tradizionale iconografia di giovani ninfe – come un gruppo di potenze femminili anziane, appesantite dal tempo. La scelta, oltre a delineare una generazione di dei e semidei antichi in opposizione al ‘giovane’ governo divino di Zeus, va interpretata anche metateatralmente, come uno sguardo sul classico che non cerca forzosamente di ‘ringiovanire’ il dettato tragico, ma anzi di indicarne la distanza. Pur in un contesto molto mutato e in una nuova fase della sua produzione, Ronconi si mostra ancora coerente con i presupposti teorici che l’avevano mosso alla creazione di Orestea e di Baccanti, in una rigorosa scelta anti-attualizzante. L’enorme statua, a cui Prometeo resta incatenato, sembra assumere i connotati metaforici della tradizione classica: un colosso che occupa la scena, e che mantiene intatta la sua inaccessibilità, il suo mistero. «Non posso non vedere molte opere del passato come segnali provenienti da stelle luminose che non ci sono più», dichiarava Ronconi in un’intervista con Maria Grazia Gregori;[29] «è proprio questo il loro fascino; il sapere, la propulsione, il bagliore di cose a cui corrisponde un vuoto, un niente».[30]
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Alla mercé del nostro sguardo: Prometeo secondo Claudio Longhi
In una foto scattata durante le prove del Prometeo, nel 2002, si può notare seduto su un tavolino accanto a Luca Ronconi una figura di spalle, intenta a prendere appunti: è Claudio Longhi, in quei giorni assistente alla regia dello spettacolo. Nel 2012 Longhi torna a Siracusa per firmare una sua versione del Prometeo, debitrice all’esperienza al fianco di Ronconi per impostazione e presupposti, ma originale per ispirazione e risultati. Anche la regia di Longhi, infatti, si tiene lontano dalle attualizzazioni e dai forzati tentativi di avvicinamento al classico; la volontà di restituire il dettato tragico nella sua distanza e inaccessibilità deriva non solo dallo studio presso la bottega ronconiana, ma anche da una profonda conoscenza della ricerca traduttiva di Edoardo Sanguineti,[31] e del suo modo di guardare la opere antiche come «forme di esperienza da noi remote, anche impraticabili, e anche, non di rado, incomprensibili».[32]
Se il Prometeo del 2002 rappresentava, come si è già sottolineato, una generazione di divinità antiche ormai in decadenza (anche nel più ampio arco della trilogia con Baccanti e Rane), l’indagine di Claudio Longhi si concentra invece su altri aspetti della drammaturgia eschilea, e in particolare sull’ossessiva ricorrenza dei verbi legati all’area del guardare. L’opera «può forse essere letta come una sorta di tragedia dello sguardo», suggerisce il regista,[33] poiché il principale strumento di cui Zeus si serve per punire il suo nemico, è di incatenarlo lasciandolo esposto allo sguardo altrui. Lo studio meticoloso del testo si traduce così nell’esigenza di creare uno spazio scenico adatto a restituire la prigionia di Prometeo come vera e propria esposizione pubblica; se nella maggior parte delle rappresentazioni, infatti, il Titano finisce con l’essere incatenato sulla parte retrostante dello spazio «col risultato di ridurlo a lungo andare a uno ‘sfondo’ dell’azione»,[34] Longhi cerca con la sua regia di farne invece un centro mobile dell’azione.
Il protagonista viene collocato in un carrello a vetri, una teca mobile che durante lo spettacolo viene traslata in diversi punti dell’orchestra; viene così tutelata una delle caratteristiche drammaturgiche fondamentali del personaggio, cioè la sua immobilità, e allo stesso tempo lo spostamento nello spazio permette allo spettatore di mutare continuamente il suo punto di vista (evitando così anche il rischio di perdita di attenzione connesso alla staticità).[35]
La soluzione scenografica si innesta nell’ambiente progettato dall’architetto Rem Koolhaas, chiamato nel 2012 all’INDA di Siracusa per curare l’intera trilogia (con Baccanti dirette da Calenda e Gli Uccelli di Roberta Torre), e che prevede la presenza di una gradinata lignea e tondeggiante speculare agli spettatori, è la prosecuzione ideale del semicerchio scenico. Anche la struttura, maestosa ed essenziale, può girare su sé stessa proprio come il carrello, rivelando l’intrico ferreo che la tiene in piedi e può aprirsi al centro, come la porta dell’antica skené.
All’inizio dello spettacolo, il personaggio muto di Violenza (Michele Dell’Utri) entra in scena percorrendo di corsa lo spazio circolare dell’orchestra, seguono Kratos (Massimo Nicolini) ed Efesto (Gaetano Bruno) che comincia a battere il martello a terra, marcando così una lugubre anticipazione sonora di quanto avverrà dopo. Prometeo fa il suo ingresso come un prigioniero di guerra, sdraiato su una barella e già legato, con il volto coperto da un cappuccio. I cruciali venti versi, che punteggiano nella drammaturgia l’atto dell’incatenare alla pietra, corrispondono nella regia di Longhi al momento in cui il protagonista Massimo Popolizio viene alzato in piedi e poi issato nella gabbia di vetro frontalmente al pubblico. La piena attuazione della punizione di Zeus avviene, in definitiva, non solo quando il corpo di Prometeo viene esposto, ma quando anche il capo gli viene scoperto, lasciandolo così alla mercé degli sguardi dalla platea; il gesto sottolinea così la valenza metateatrale della punizione imposta al Titano.[36]
Anche la funzione del coro, e il suo cambiamento nell’evoluzione dello spettacolo, costituiscono un elemento centrale dello spettacolo. Quasi per contrasto implicito con le coreute acquatiche del 2002, e con i loro vestiti impregnati dal passaggio nelle vasche, Longhi precipita le Oceanine «in un mondo desertificato, uno spazio privo d’acqua, che nel nostro presente potrebbe richiamare il disastro della Deepwater o il surriscaldamento del pianeta».[37] L’atmosfera post-apocalittica è sottolineata anche dai costumi a cura di Gianluca Sbicca (color sabbia, con solo pochi innesti blu e azzurri, come residui marini ormai secchi) e dai movimenti coreografici, di matrice astratta, valorizzati dalla presenza in scena di dieci danzatrici della Martha Graham Dance Company (collaborazione trasversale alle già citate tre opere in cartellone a Siracusa nel 2012). Anche nel dirigere i movimenti del coro, il regista ha declinato il leit motiv dello sguardo: le performer si muovono sulla scena con la costante consapevolezza di trovarsi sotto lo sguardo di Zeus, come in un regime di sorveglianza.[38] Attraverso la partitura coreografica e il mutare del posizionamento nello spazio, la regia mostra plasticamente la profonda trasformazione delle Oceanine, in particolare nella relazione empatica con Prometeo; in un primo momento caute e diffidenti circa l’inflessibilità dell’eroe (vv. 178 e seguenti), si risolvono alla fine della tragedia in un netto schieramento a favore della vittima delle angherie di Zeus. La conversione, così significativa da suggerire a Longhi la lettura del Prometeo come un vero e proprio Bildungsroman del coro,[39] è naturalmente da interpretare in senso latamente politico: se i coreuti incarnano una rappresentanza dei cittadini in scena (così ricordava icasticamente anche Ronconi, con la sua scelta di fare alzare la corifea dalle gradinate), allora la profonda mutazione di consapevolezza delle Oceanine, e il loro differente collocarsi di fronte al potere, è da leggersi come l’auspicio di una trasformazione sociale. Non è inutile, in questa prospettiva, sottolineare che il Prometeo Incatenato di Longhi segue un’altra importante e fortunata fatica registica, l’allestimento de La resistibile ascesa di Arturo Ui, prodotto nel 2011 da Emilia Romagna Teatro. Come è noto, l’opera di Brecht dipinge allegoricamente l’ascesa di Hitler nel contesto degli interessi economici europei definendola – così ammonisce il titolo – resistibile, cioè, mostrando in controluce tutte le azioni di contrasto che potevano essere attuate. Tra gli ispiratori della sua regia brechtiana, Longhi menziona il maestro Edoardo Sanguineti («credo sia il più brechtiano fra gli intellettuali e i poeti italiani del secondo Novecento», afferma)[40]; l’insegnamento sanguinetiano – ovvero la possibilità di rileggere i classici in modo politico, ma non attualizzante – orienta dunque tanto Arturo Ui quanto Prometeo. Vanno dunque lette in questa prospettiva: la decisione di enfatizzare attraverso i costumi di Kratos e Bia (severe maschere nere di stringhe di cuoio) il loro ruolo di sgherri del potere; la ferma volontà di interpretare l’onnipresente sguardo di Zeus come un vero e proprio «stato di polizia»; e, la progressiva emancipazione politica del coro. Evitando da un lato precise allusioni all’attualità politica e dall’altro una lettura del tutto astorica, Claudio Longhi invita a leggere il suo Prometeo Incatenato come una parabola sul rapporto tra la società e il potere.
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Prometeo, ovvero il sacrificio del corpo attoriale
La scelta di presentare l’antica rupe in senso astratto e simbolico emerge nuovamente anche nell’ultima rappresentazione siracusana di Prometeo con la direzione di Leo Muscato (2023).[41] La scena, disegnata da Federica Parolini, rappresenta una imponente architettura post-industriale con tubi e cisterne: «pochi elementi simbolici che raccontano un’epoca tecnica esaurita e fallita», testimonia la scenografa nelle note di regia.[42] Prometeo (Alessandro Albertin) viene legato alla parte più alta della cisterna, come il corpo sacrificale dell’intera civiltà dell’industrializzazione giunta ormai al suo tragico finale.
Nelle sue mutevoli interpretazioni architettoniche e politiche, la rupe si rivela immancabilmente il fulcro del disegno scenico, che si realizza pienamente in corrispondenza del v. 81, con l’atto di legare il protagonista alla skené: la punizione di Zeus e l’atto registico vengono, cioè, a coincidere.
Se si tiene conto del carattere metascenico della postura di Prometeo – conseguenza del suo essere allo stesso tempo personaggio del mito e attore in carne ed ossa – si può interpretare dunque l’immagine che segna inevitabilmente ogni allestimento del Prometeo Incatenato, comunque venga realizzata, come una potente metafora dell’atto teatrale stesso: l’ostensione del corpo dell’attore imposta dalla regia, il suo offrirsi alla platea. Come è noto[43] la storia della tradizione di Prometeo ha talvolta conferito al sacrificio del protagonista caratteri cristologici, con sovrapposizioni tra la crocifissione e l’esposizione dell’eroe sulla rupe; ma esso rappresenta, allo stesso tempo, il sacrificio dell’attore.
L’immagine plastica di tale auto-esposizione pubblica è dunque di sorprendente modernità e anticipa vertiginosamente tutta la sperimentazione teatrale novecentesca, e in particolare la ricerca di Jerzi Grotowski, una delle figure che più ha segnato l’immaginario e le pratiche del teatro europeo. L’attore, secondo Grotowski, «non esibisce il suo corpo, ma lo annulla, lo brucia, lo libera da ogni resistenza agli impulsi», e così «non vende il suo corpo, ma lo offre in sacrificio; ripete l’atto della Redenzione, si avvicina alla santità».[44]
Non è possibile, in questa sede, approfondire la fitta produzione teorica e pratica lasciata in eredità dal maestro polacco;[45] per comprendere con immediatezza la suggestione sopra riportata basterà tuttavia evocare la scena di uno dei più celebri spettacoli grotowskiani, cioè il Principe Costante (1967) elaborato a partire dall’opera di Calderón. Uno steccato di legno marrone alto un paio di metri delimita uno spazio rettangolare nel quale è posata una tavola di legno, «che può essere insieme un’asse per la tortura e la superficie inclinata di una catafalco».[46] Ottanta spettatori, posizionati all’esterno dello steccato, sbirciano dall’alto il corpo sdraiato del protagonista (Ryszard Cieslak, qui nel ruolo del Principe Ferdinando) che viene torturato, ma oppone ai suoi aguzzini gentilezza e resistenza passiva.
Osservando quel corpo umano esposto allo sguardo, come su un tavolo anatomico o su una croce, il critico Alberto Arbasino – presente tra i pochi spettatori al debutto a Spoleto – comprese immediatamente che quella «cristologia denutrita e macilenta»[47] incarnata dal corpo dell’attore era, a ben guardare, una folgorante epifania del Prometeo Incatenato.
1 L. Ronconi, Prove di autobiografia, a cura di G. Agosti, Milano, Feltrinelli, 2019, p. 223.
2 Le diverse ipotesi e i problemi di messinscena sono discussi in: O. Taplin, The Stagecraft of Aeschylus. The Dramatic Use of Exits and Entrances in Greek Tragedy, Oxford, Clarendon Press, 1977; J. Davidson, ‘Prometheus Vinctus on the Athenian Stage’, Greece & Rome, 41, 1994, pp. 33-40; S. Dworacki, ‘Note on the Staging of the Prometheus Bound’, Eos, 71, 1983, pp. 159-165; M. Dyson, ‘Prometheus and the Wedge. Text and Staging at Aeschylus’, Journal of Hellenic Studies, 114, 1994, pp. 154-156.
3 F. Condello (a cura di), Prometeo. Variazioni sul mito, Venezia, Marsilio, 2011, p. 8.
4 Sul tardo approdo in Italia degli studi sul dramma antico nella scena contemporanea, sul loro valore ermeneutico, e sul ruolo chiave di studiosi quali Umberto Albini e Dario del Corno si leggano A. Andrisano, ‘Umberto Albini e Dario Del Corno, studiosi di teatro antico’, Stratagemmi, 11, 2012, pp. 13-32 e, nello stesso volume, M. Treu, ‘Due accademici in sala prove’, Stratagemmi, 11, 2012, pp. 33-44.
5 Una ricognizione (a cura di Anna Banfi) delle diverse rappresentazioni del Prometeo Incatenato, con relativa analisi della rassegna stampa, si trova sul sito dell’Inda: INDA, ‘Dall’Archivio dell’INDA un approfondimento su Prometeo Incatenato’, 23 marzo 2023, <https://www.indafondazione.org/dallarchivio-dellinda-un-approfondimento-su-prometeo-incatenato/> [accessed 12 April 2024].
6 L’osservatorio siracusano, tra aspettative del pubblico e specificità del luogo, non è privo di contraddizioni; ho trattato questo argomento in M. Giovannelli, ‘Dramma antico: quale orizzonte d’attesa per gli spettacoli di Siracusa’, Mantichora, 4, 2014, pp. 35-41.
7 È del 1996 la fondazione, presso il dipartimento di Classics a Oxford, dell’Archive of Performances of Greek and Roman Drama, e di un gruppo di ricerca attivo da allora sulla fortuna del dramma antico nel teatro contemporaneo, nelle altre arti, e nella cultura di massa, e sull’analisi del testo drammatico antico alla luce degli esiti performativi contemporanei, con una sempre più solida consapevolezza teorica delle specificità della comunicazione teatrale. Un vero proprio saggio di metodo in questo senso è il già citato O. Taplin, The Stagecraft of Aeschylus.
8 Ancora fondamentale, in questa prospettiva, M. De Marinis, Semiotica del teatro. L’analisi testuale dello spettacolo, Milano, Bompiani, 1982.
9 La traduzione del Prometeo Incatenato, qui e di seguito, è di F. Condello (a cura di), Prometeo. Variazioni sul mito. Poiché gli spettacoli analizzati si avvalgono di traduzioni differenti, ognuna con uno specifico stile traduttivo, ho scelto per la presente ricognizione trasversale una versione del testo per ora mai utilizzata in scena.
10 F. Condello (a cura di), Prometeo. Variazioni sul mito, p. 7.
11 Alcune immagini dello spettacolo del 1954 sono reperibili sul database online dedicato all’attività registica di Squarzina: <http://luigisquarzina.it/wp/italiano/1954/05/15/prometeo/>. [accessed 9 January 2024].
12 I crediti dello spettacolo, e le immagini di scena, sono consultabili sul sito dell’Inda: Fondazione Gramsci, ‘Prometeo Incatenato’, <https://www.indafondazione.org/prometeo-di-eschilo/> [accessed 9 January 2024].
13 Il monologo di Prometeo è visibile in una clip resa disponibile sul sito dell’Inda: Fondazione INDA, ‘Prometeo di Eschilo (1994) - Fondazione Inda’, <https://www.youtube.com/watch?v=ne1z3zZyBvc> [accessed 15 July 2024].
14 Per approfondire le istanze metateatrali già presenti nel testo di partenza, cfr. G. Cerri, ‘Il dio incatenato come spettacolo. Il coro come pubblico: tragedia e rapsodia nella dimensione metateatrale del Prometeo’, Lexis, 24, 2003, pp. 265-282.
15 La letteratura e l’attenzione critica sulla trilogia è stata in parte catalizzata da Rane, in particolare per un atto di censura politica avvenuto prima del debutto. Per approfondimenti, F. Schironi, ‘A Poet without ‘Gravity’: Aristophanes on the Italian Stage’ in E. Hall, A. Wrigley (a cura di), Aristophanes in Performance 421 BC–AD 2007: Peace, Birds, and Frogs, Oxford, Legenda, 2007, pp. 267-275.
16 È possibile ripercorrere le due esperienze attraverso le testimonianze dello stesso Ronconi: sulle Baccanti nel Laboratorio di Prato si legga F. Quadri, L. Ronconi, G. Aulenti, Il laboratorio di Prato, Milano, Ubulibri, 1981; sull’Orestea, L. Ronconi, G. Capitta, Teatro della conoscenza, Bari, Laterza, 2012. Al teatro antico è dedicato poi un intero capitolo di L. Ronconi, Prove di autobiografia, pp. 220-243.
17 A questa parte della produzione ronconiana Franco Quadri dedica un’ispirata monografia dal titolo F. Quadri, Il rito perduto, Torino, Einaudi, 1973 che esce con sorprendente tempismo, anticipando le esigenze di storicizzazione. Sugli esiti delle vie tracciate da Ronconi (e più in generale sulla tragedia greca sulla scena di oggi), cfr. D. Sacco, Tragico contemporaneo, Bologna, Luca Sossella, 2018.
18 R. De Monticelli, ‘Affascinante involucro ma discutibile contenuto’, Il Giorno, 8 ottobre 1972.
19 A.M. Ripellino, ‘Una tarantola sulla lingua’, L’Espresso, 15 luglio 1973.
20 C. Milanese, Luca Ronconi e la realtà del teatro, Feltrinelli, Milano, 1973, p. 63.
21 L. Ronconi, Prove di autobiografia, p. 228.
22 Ivi, p. 224.
23 Aulenti afferma a questo proposito: «Ci siamo portati dietro la teatralità in tutti gli altri luoghi, i lunghi corridoi, le altre stanze connettendole tra di loro con le “cerniere”, costruzioni mutevoli che avevano il compito di sfigurare e negare il semplice passaggio da un stanza all'altra». Cfr. F. Quadri, ‘Nello spazio dell’ambiguità. Intervista con Gae Aulenti’, Patalogo, 1, 1979, pp. 70-85.
24 F. Quadri, L. Ronconi, G. Aulenti, Il laboratorio di Prato, p. 329.
25 La formulazione riprende l’emblematico titolo della monografia di Franco Quadri, cfr. nota 17.
26 L’affermazione si trova in: INDA, ‘Conversazione con Luca Ronconi’, libretto di sala, 2002, <https://lucaronconi.it/storage/filemedia/intervista-pasticciaccio.pdf> [accessed 12 September 2023].
27 È possibile ascoltare la stessa Margherita Palli ricordare l’iter di ideazione e costruzione della scena di Prometeo Incatenato: Fondazione INDA, ‘Il mito nel teatro di Luca Ronconi - Siracusa 2002/Fondazione Inda’, <https://www.youtube.com/watch?v=WPTb0MJulUQ&t=3648s> [accessed 12 September 2023]. L’occasione, creata dal direttore dell’Inda Antonio Calbi, è stata un seminario online dedicata alle regie ronconiane a Siracusa. In quell’occasione, Palli smentisce apertamente che l’ispirazione sia stata una rielaborazione del Galata Morente.
28 Tra le moltissime trattazioni a disposizione sulle funzioni del coro, si segnalano per chiarezza e concisione C. Calame, ‘Il gruppo corale tragico: ruoli drammatici e funzioni sociali’, Dioniso, 5, 2006, pp. 6-24, e il più ampio S.R. Gagné M. Hopman, (a cura di), Choral Mediations in Greek Tragedy, Cambridge, Cambridge University Press, 2013.
29 Pubblicata in Piccolo Teatro Di Milano, ‘Conversazione con Luca Ronconi a cura di Maria Grazia Gregori’, libretto di sala, 2002/2003, <https://lucaronconi.it/storage/filemedia/intervista-prometeo-2.pdf> [accessed 15 July 2024]. Lo spettacolo fu infatti ripreso al Piccolo Teatro nella stagione 2002/2002, con inevitabili e significative modifiche alla scenografia dovute allo spazio chiuso: Luca Ronconi, ‘Prometeo Incatenato’, lucaronconi.it, <https://lucaronconi.it/scheda/teatro/prometeo-incatenato> [accessed 12 May 2024].
30 Ibidem.
31 La vicinanza con Sanguineti è testimoniata anche da due importanti pubblicazioni: Claudio Longhi firma infatti, con Federico Condello, la raccolta delle traduzioni sul teatro antico, cfr. E. Sanguineti, Teatro antico. Traduzioni e ricordi, a cura di F. Condello e C. Longhi, Milano, BUR Rizzoli, 2006 e un volume interamente dedicato all’esperienza dell’Orlando Furioso, frutto di una storica e fortunata collaborazione Sanguineti-Ronconi: cfr. C. Longhi, «Orlando furioso» di Ariosto-Sanguineti per Luca Ronconi, Pisa, Edizioni ETS, 2006.
32 E. Sanguineti, Cultura e realtà, Milano, Feltrinelli, 2010, p. 37.
33 C. Longhi, ‘Il Prometeo Incatenato. Tragedia dello sguardo e anatomie del tempo: considerazioni di regia’, Drammaturgia XI, 2014, pp. 283-303, in particolare p. 286.
34 Ivi, p. 288.
35 La soluzione di far salire Prometeo «su una sorta di patibolo mobile (…) è egregia, non solo per il ritmo e la vivacità dello spettacolo stesso, ma dal punto di vista squisitamente semantico», si appunta nella recensione di A. Porcheddu, ‘Prometeo siracusano’, Engramma, 98, 2012 <https://engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=1880> [accessed 22 September 2023].
36 G. Cerri, ‘Il dio incatenato come spettacolo. Il coro come pubblico’, pp. 267-268. Si legga anche la dichiarazione di Longhi: «Forse potremmo parlare di una metateatralità del Prometeo, perché il teatro è il luogo attraverso cui e in cui si guarda un’esposizione di corpi», pubblicata all’interno di INDA, ‘Conversazione con Claudio Longhi a cura di Daniela Sacco’, programma di sala, 2012, p. 17.
37 A. Andrisano, ‘Dieci domande a Claudio Longhi, regista di Prometeo’, Dionysus ex machina III, 2012, pp. 281-292, in particolare p. 284.
38 C. Longhi, ‘Il Prometeo Incatenato’, p. 291.
39 A. Andrisano, ‘Dieci domande a Claudio Longhi’, p. 284.
40 R. Ferraresi, ‘Tempi di crisi: da Brecht a oggi. Intervista a Claudio Longhi’, Il Tamburo di Kattrin, 2012 <https://www.iltamburodikattrin.com/interviste/2012/intervista-claudio-longhi-brecht> [accessed 22 October 2023]. Sanguineti (si legge nel programma di sala dello spettacolo) aveva per altro accettato di curare una nuova versione italiana dell’opera ma è mancato (nel maggio 2010) prima di mettere mano al lavoro.
41 Per un’approfondita esegesi critica dello spettacolo, cfr. S. Fornaro, ‘Considerazioni su Prometeo’, Visioni del tragico, <https://www.visionideltragico.it/blog/contributi/considerazioni-su-prometeo-a-proposito-della-regia-di-leo-muscato-siracusa-2023> [accessed 15 July 2024].
42 F. Parolini, ‘Prometeo incatenato, la scenografia’, in AA.VV., Eschilo. Prometeo incatenato. Regia Leo Muscato, Siracusa, INDA, 2023, p. 23.
43 F. Condello (a cura di), Prometeo. Variazioni sul mito, in particolare il capitolo ‘Cristologie (e satanismi)’, pp. 54-58.
44 J. Grotowski, Per un teatro povero [1968], trad. it. di Maria Ornella Marotti, Roma, Bulzoni, 1970, p. 113.
45 Per un’ottima ricognizione in lingua italiana cfr. L. Flaszen, C. Pollastrelli, Il Teatr Laboratorium di Jerzi Grotowski 1959-1969, Firenze, La Casa Usher, 2007.
46 Con queste parole si descrive la scena in R. De Monticelli, ‘Viaggio alle origini più tipiche del teatro’, Il Giorno, 4 luglio 1967.
47 A. Arbasino, Off-Off, Milano, Feltrinelli, 1968, p. 277.