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La presenza della storia del mito di Prometeo nella cultura occidentale è così vivida da aver invaso anche il fenomeno comunicativo social dei memi. La ragione d’essere di questa pratica comunicativa multimodale non si ferma allo scopo umoristico ma si spinge fino al riconoscimento, per inferenza, di un’astrazione di caratteristiche e situazioni tipicamente umane nelle quali gli interagenti che leggono e condividono i memi si identificano. Attraverso il modello analitico della ‘Conceptual Integration Theory’ di Gilles Fauconnier e Mark Turner abbiamo analizzato un corpus di memi che integrano diversi template macro con la storia del mito di Prometeo. Le analisi mostrano che, attraverso questa operazione di integrazione, il mito si avvicina alla sfera umana.

The story of the myth of Prometheus is so vivid in Western culture that it has also invaded the social communication phenomenon of memes. The raison d'être of this multimodal communicative practice does not stop at the humorous purpose but it goes so far as the recognition, by inference, of an abstraction of typically human characteristics and situations in which the interactors who read and share the memes, identify. Through the analytical model ‘Conceptual Integration Theory’ by Gilles Fauconnier and Mark Turner we have analyzed a corpus of memes that integrate different macro templates with the story of the myth of Prometheus. The analyzes show that, through this operation of integration, the myth is perceived as closer to the human sphere.

Introduzione

Il mito di Prometeo è parte della nostra enciclopedia,[1] dell’ipertesto della cultura contemporanea, dell’insieme di testi che la costituisce,[2] e quindi del terreno condiviso.[3] Lo testimoniano le opere letterarie, artistiche e cinematografiche che sin dall’Antichità hanno proposto rivisitazioni del mito, in un flusso di riusi e re–interpretazioni,[4] ma anche i riferimenti e richiami del mito in testi e discorsi contemporanei che identificano entità, costruzioni o strutture culturali o sociali non artistiche, resi possibili e significativi dal forte polimorfismo del mito.[5] Anche solo attraverso una indagine sui motori di ricerca, si scoprono progetti e associazioni benefiche a carattere pubblico, che operano a favore di vari gruppi sociali, che si chiamano ‘Prometeo’, ‘Progetto Prometeo’ (richiamando l’aspetto della filantropia, dell’amore e del sacrificio a favore degli uomini), ma anche iniziative e associazioni educative e culturali che rimandano al dono del fuoco che Prometeo fa agli uomini, portando loro la tecnica e la conoscenza. Prometeo è (o è contenuto) nel brand di aziende di marketing e comunicazione, così come di impianti di riscaldamento, ed è richiamato e sfruttato in senso metaforico in discorsi e messaggi pubblici[6] e nei messaggi pubblicitari.[7]

In rete si trovano anche molti internet memes (detti anche ‘memi digitali’ o in gergo semplicemente ‘meme’) che riprendono e sfruttano in vari modi il mito di Prometeo. In generale gli internet memes hanno un preminente carattere umoristico. Ciò potrebbe far pensare che l’intento dei memi digitali su Prometeo sia quello di ridere e divertirsi ‘a spese del mito’, ridicolizzando il contenuto o certi suoi aspetti. In questo senso, quindi, i memi su Prometeo si inserirebbero nel solco aperto dal Prometeo male incatenato di André Gide della demitizzazione del mito[8] nella comunicazione di massa contemporanea.[9] Ma è tutto qui? L’intento di chi ha creato e diffuso questi memi o l’effetto retorico ricercato da questi artefatti è proprio solo quello di mettere in ridicolo la figura di Prometeo e il suo gesto magnanimo in favore degli esseri umani?

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Il saggio offre una lettura del film di Wim Wenders Il cielo sopra Berlino (1987) attraverso la lente – rovesciata – del mito di Prometeo. Laddove nella dimensione mitologica l’individuo vive un’evoluzione della propria condizione grazie al dono divino del fuoco, portatore simbolico di progresso e conoscenza, nell’opera di Wenders tra gli angeli protagonisti del film c’è chi rinuncia al proprio stato angelico per il desiderio di assimilarsi all’uomo e alla sua condizione mortale. L’uscita dall’eternità affrontata dall’angelo Damiel corrisponde così alla scoperta della sensorialità e dell’emotività, ma soprattutto a un’entrata nella storia e nella finitezza temporale. Parola e immagine sono i due orizzonti sui quali si struttura la vicenda e in particolare l’universo della scrittura e delle parole costituisce il legame tra le due dimensioni, umana e angelica, nonché una prometeica forma di progresso. 

This essay offers a reading of Wim Wenders’ film Wings of Desire (1987) through the inverted lens of the myth of Prometheus. Where in the mythological dimension, the individual experiences an evolution of his or her condition thanks to the divine gift of fire, symbolic bearer of progress and knowledge, in Wenders’ work, among the angels featured in the film, there are those who renounce their angelic state out of a desire to assimilate with man and his mortal condition. The exit from eternity faced by the angel Damiel thus corresponds to the discovery of sensoriality and emotionality, but above all to an entry into history and temporal finiteness. Word and image are the two horizons on which the story is structured, and in particular, the universe of writing and words constitutes the link between the two dimensions, human and angelic, as well as a Promethean form of progress.

 

Berlin, the divided city of course, was just another metaphor, like the angels themselves. Berlin seems to be a city that well represents not only Germany, but also our civilization. In a way, Berlin really represents the world.[1]

 

Il cielo sopra Berlino, film realizzato da Wim Wenders tra il 1986 e il 1987 con la collaborazione alla sceneggiatura di Peter Handke, è un penetrante dialogo tra cielo e terra, in cui la conquista dell’eternità si scontra e incontra con l’intensa finitezza e sensorialità dell’orizzonte umano. Tra i cieli e le strade di Berlino si dispiegano le ‘ali del desiderio’ – dal significativo titolo inglese dell’opera, Wings of Desire, preferito da Wenders rispetto all’originale tedesco in virtù delle maggiori sfaccettature del termine ‘desire’ –[2] di quella che si può definire una prometeica ribellione e rinuncia all’immortalità per accedere a un livello altro di consapevolezza e conoscenza: non una conoscenza intellettuale, quanto emotiva, sensoriale e soprattutto temporale.

Se il mito di Prometeo narra di un semidio che si ribella alle leggi divine donando all’uomo il fuoco – del progresso o della conoscenza, per citare due delle accezioni che hanno caratterizzato le interpretazioni del mito nel corso del tempo – e per questo gesto subisce le conseguenze di quella che viene considerata una colpa, nella presente lettura del film di Wenders si propone una traslazione della ribellione mitologica. Anziché donare qualcosa di divino all’uomo, il divino nel film in oggetto desidera – e il desiderio è un motore centrale nel mito prometeico – accedere alla dimensione umana, esperendo emozioni e sentimenti, ma anche sottomettendosi alle leggi del tempo. In questa prospettiva la vicenda di Damiel (interpretato da Bruno Ganz), che decide di abbandonare la sua condizione angelica, diviene anche la trasposizione di un’entrata nella storia. È con queste parole che l’angelo sancisce l’addio al suo status:

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Il Prometeo incatenato di Eschilo è una delle tragedie più amate e indagate della tradizione ma è anche, dal punto di vista strettamente teatrale, una sfida di notevole difficoltà. Il protagonista, incatenato a una montagna, resta infatti immobile per tutta la durata della rappresentazione. Il contributo indaga alcune soluzioni adottate (tra il 1954 e il 2023) nell’ambito delle rappresentazioni classiche al Teatro Greco di Siracusa, con una particolare attenzione al Prometeo di Luca Ronconi (2002) e di Claudio Longhi (2012). Lo studio e l’indagine delle due rappresentazioni citate permette di illuminare le dinamiche legate allo spazio presenti nell’opera, e la forte interrelazione tra l’architettura di scena e l’esposizione del corpo del protagonista.

One of the most loved and most researched tragedies Aeschylus’ Prometheus Unbound, from a strictly theatrical point of view, is also a very challenging play. Its protagonist, chained to a mountain, remains motionless for the entire duration of the play. This article investigates some of the solutions adopted (between 1954 and 2023) in the context of classical performances at the Greek Theatre in Syracuse, with particular attention to Luca Ronconi’s Prometheus (2002) and Claudio Longhi’s Prometheus (2012). The study and investigation of the two above-mentioned performances allows us to illuminate the space-related dynamics present in the work, and the strong interrelationship between the stage architecture and the display of the protagonist’s body.

«Spesso mi succede di mettere in scena cose che non conosco con il solo scopo di conoscerle»[1], appunta Luca Ronconi a proposito della sua pluriennale esperienza nel dirigere opere di teatro antico. L’affermazione può essere interpretata in un duplice senso: da un lato il regista denuncia l’impossibilità di comprendere fino in fondo le istanze di un testo così lontano nel tempo e nello spazio; dall’altro mette in luce come la regia sia di per sé uno strumento conoscitivo, che costringe chi la pratica a confrontarsi con i nodi e le questioni irrisolte della drammaturgia originaria. Tanto più l’accesso all’opera risulta impervio, dunque, quanto più il regista è chiamato a prendere importanti decisioni interpretative.

Il Prometeo Incatenato pone al lettore problemi ermeneutici di differente natura, alcuni dei quali sono menzionati o affrontati nelle pagine di questo numero. Ma se si legge la tragedia in una prospettiva squisitamente teatrale, appare chiaro che il testo costituisce una sfida non trascurabile anche per la regia: l’ingresso del protagonista, l’atto di forza con cui viene legato a una roccia, la sua conseguente immobilità sono solo alcune delle concrete difficoltà poste dalla drammaturgia.

Gli studi sulla rappresentazione antica hanno avanzato, in mancanza di dati certi, diverse ipotesi sulla realizzazione e la natura della rupe in scena (forse un pannello ligneo dipinto; forse l’utilizzo di un declivio naturale; forse la piattaforma innalzata del theologeion)[2]; «tutto può essere, o quasi tutto», chiosa con ironia Federico Condello, «e il dibattito minaccia di non cessare mai».[3]

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Un bassorilievo della Marciana, attribuito alla scuola sansoviniana, presenta Prometeo intento ad animare il primo uomo con la torcia celeste, dotato di ali. L’inedito attributo, allotrio rispetto alla tradizione, invita a gettare uno sguardo nel panorama della vicina produzione artistica a soggetto mitologico e a soffermarsi soprattutto sugli esempi figurativi proposti da Zelotti negli affreschi di due ville palladiane. In questa reincarnazione, diramata in un particolare contesto storico e geografico, Prometeo si cristallizza con l’ornamentazione delle ali: se il tema di base rimane lo stesso, il movimento innovativo mette in evidenza un nuovo ritmo semantico, dettato dal cortocircuito iconografico con il Tempo.

A bas-relief in the Marciana, attributed to the School of Sansovino, shows Prometheus, equipped with wings, intent on animating the first man with a celestial torch. This unusual attribute, diverging from tradition, suggests analysing the panorama of nearby artistic production on mythological subjects and dwelling on Zelotti’s frescoes in two Palladian villas. In this reincarnation, spread in a particular historical and geographical context, Prometheus is crystallised with the ornamentation of wings. While the theme remains the same, the innovative movement emphasises a new semantic rhythm, originating from the iconographic overlap with Time.

Nell’arco di Phanes del «più ricco et ornato edificio che forse sia stato fatto dagli antichi in qua»,[1] come ebbe a dire Palladio nel Proemio al primo dei Quattro libri dell’architettura, ossia della Libreria Marciana di Venezia, un bassorilievo raffigura Prometeo in atto di animare il primo uomo, attribuito alla Scuola di Sansovino.[2] Datato tra il quarto e il sesto decennio del Cinquecento, presenta un curioso attributo, raro e inedito: Prometeo è alato.

La singolare iconografia dell’evento, divergente dai paradigmi antichi,[3] è passata in sordina, oppure è stata affrontata lasciando aperto il quesito, per cui deriverebbe da una fonte circolante in ambito veneto non ancora riconosciuta.[4]

Secondo la lezione di Panofsky, le immagini si delineano come raffigurazioni convenzionali, depositarie di significati variabili in base al contesto, pertanto nell’interpretazione iconologica è necessario identificare con precisione, prima di tutto, i motivi, per poi ragionare sulle composizioni attivate.[5] Non resta allora che dinamizzare le ipotesi, proponendo qualche tenue tentativo di passage dall’immanente al contestuale, dal fattuale all’intrinseco, limitato ai casi distintivi.

Fu rilevante per il mutamento del clima artistico veneziano l’arrivo in laguna di Jacopo Tatti detto il Sansovino, dileguatosi dal sacco di Roma. Formatosi nell’entourage di Bramante, Raffaello e Peruzzi, giunge a Venezia già celebre e pienamente inserito nell’élite intellettuale. Nel giro di pochi anni mitiga superbamente le esperienze romane e fiorentine dell’Alto Rinascimento con le esigenze locali. Giovando della mediazione artistica e soprattutto politica di Pietro Aretino e del cardinale Grimani, riesce a sollecitare il cambiamento che avverrà dopo gli anni Trenta nel panorama artistico veneziano, complici anche la morte di molti artisti lagunari a causa della peste e l’emigrazione di altri. Già nel 1523 era stato convocato per una consultazione in merito al rinforzo delle cupole di San Marco e in soli due anni arriva a rivestire la massima carica, divenendo proto della Procuratoria di San Marco de supra. Il 6 marzo 1537 l’approvazione del Senato e il voto unanime dei procuratori segna l’avvio della costruzione della Libreria,[6] secondo il progetto di quel «banditore del gusto tosco-romano, ammiratore convinto di quel decorativismo postraffaellesco che era stato uno dei coefficienti più attivi della visione manieristica».[7] In questo momento la Repubblica, considerata lo stendardo della libertà dell’Italia, stava elaborando il proprio mito, e la grandiosa commissione pubblica, sorta come solenne repositorio della ricca biblioteca personale del cardinale Giovanni Bessarione, donata alla Serenissima nel 1468, e come sede illustre della Procuratoria, si iscriveva perfettamente nella nuova imago urbis desiderata dal doge Gritti e dall’establishment.

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L’esposizione "Il mito di Prometeo, dagli antichi ai moderni" ha avuto come intento quello di raccontare le tappe di un percorso volto a ricostruire il mito di Prometeo a partire dalle edizioni antiche e moderne di Esiodo ed Eschilo sino alle riscritture moderne e contemporanee di P. B. Shelley, Carl Spitteler e André Gide. Il contributo si sofferma sulle strategie e sulle scelte che hanno portato alla realizzazione della mostra nelle due diverse sedi, la Biblioteca universitaria Lugano e la Biblioteca cantonale di Lugano, con particolare attenzione al concetto di intermedialità. 

The exhibition ‘Il mito di Prometeo, dagli antichi ai moderni’ has the aim to illustrate the stages of a journey that recreates the mith of Prometheus, from the ancient and modern editions of Esiodo and Eschilo works to the modern and contemporary rewritings from P. B. Shelley, Carl Spitteler and André Gide. The contribution focuses on strategies and choices that led to this exhibition, in its two locations, Biblioteca universitaria Lugano and Biblioteca cantonale of Lugano, with a focus on the notion of intermedial approach. 

La mostra bibliografica Il mito di Prometeo, dagli antichi ai moderni è nata da un’idea del micro-gruppo ‘Miti in migrazione: intermedialità del mito’, nell’ambito del Progetto culturale ‘Convergenza e distanza’ della Facoltà di comunicazione, cultura e società dell’Università della Svizzera italiana. La scelta di esporre alcuni volumi posseduti dalle Biblioteche, così come la loro disposizione all’interno delle teche, è legata anche ad un altro evento organizzato dal micro-gruppo dal titolo Mito e intermedialità, nel quale sono intervenuti Piero Boitani, professore emerito di Letterature comparate all’Università La Sapienza di Roma, Irina O. Rajewsky, docente all’Università di Mainz e Peppino Ortoleva, già professore di Storia e teoria dei media all’Università di Torino. Il concetto di intermedialità, ovvero la compresenza di due o più media, sistematizzato da Rajewsky, emerge chiaramente dalla presenza all’interno dell’esposizione di libri illustrati moderni e di xilografie inserite nei libri antichi.[1]

La Biblioteca universitaria Lugano, la Biblioteca cantonale di Lugano e la Biblioteca Salita dei Frati hanno collaborato all’iniziativa, mettendo a disposizione gli esemplari custoditi nelle loro Biblioteche.

L’intento dell’esposizione è stato quello di far conoscere, non solo ad un pubblico strettamente accademico ma ben più ampio, le edizioni sul mito di Prometeo presenti sul territorio, al fine di valorizzare i fondi librari in cui sono inserite e di mostrare come lo stesso mito si sia modificato nel corso del tempo ad opera di autori antichi e moderni.

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La tragedia greca non era molto popolare in Inghilterra fino alla fine del XVIII secolo: oltraggiava la sensibilità estetica e morale dell'epoca. Tuttavia, la versione latina delle tragedie di Eschilo, pubblicata da Thomas Stanley nel 1663, ebbe una notevole diffusione e fu ristampata anche all'estero. Dopo la traduzione latina di Stanley nel XVIII e all'inizio del XIX secolo furono pubblicate diverse traduzioni e commenti in inglese, in particolare del Prometeo; anche se una storia dettagliata di questo soggetto è ancora un desideratum. È interessante notare che J.H. Newman considerava questa tragedia come un vero e proprio capolavoro, e che l'interpretazione di Browning di un passaggio difficile è simile a quella offerta da un antico scholion, già pubblicato da Stanley.

Greek tragedy was not very popular in England up to the end of the 18th century: it offended the aesthetic and moral sensibilities of the age. However, the Latin version of Aeschylus’s tragedies, published by Thomas Stanley in 1663, achieved a remarkable circulation and was reprinted even abroad. After Stanley’s Latin translation, several English translations and commentaries, particularly of the Prometheus, were published in the 18th and early 19th century; even if a detailed history of this topic is still a desideratum, it is interesting to notice that J.H. Newman regarded this tragedy as a real masterwork, and that Browning's interpretation of a difficult passage is similar to that offered by an ancient, scholion, already published by Stanley.

1. Storie di traduzioni, ricordate e dimenticate, e di lettori, ricordati e dimenticati

Shelley, certo, moglie e marito, la lunga, sotterranea, traccia di Milton, e anche un po’ Byron: pure, Prometeo nella cultura inglese non vive solo nei grandi nomi, ma anche in un tessuto connettivo di traduttori e commentatori. Figure minori, ‘periferiche’, poco influenti nell’immagine della cultura generale, come appare da un qualche disdegno di Raymond Trousson, l’autore della più massiccia e documentata storia del tema prometeico nella letteratura europea: nel Settecento, sostiene l’autore, le traduzioni non apportarono un sostanziale aumento dell’interesse per Eschilo e in particolare per il Prometeo:[1]

Trousson non considera evidentemente significative le traduzioni, neppure quella latina di Stanley, alla quale si riferisce solo menzionando Edgar Quinet, che nel suo Prométhée riconduce appunto a Stanley la ‘cristianizzazione’ di Prometeo.[2]

In realtà, nella costruzione della ricezione di un testo le traduzioni hanno sempre una grande importanza: ancora un secolo fa, Pasquali osservava che era la conoscenza del greco a costituire la vera eccellenza culturale negli strati culturalmente più alti della popolazione inglese:[3] la traduzione era dunque necessaria per raggiungere un pubblico meno elitario. Ma la tragedia greca, e particolarmente quella eschilea, attirava poco per ragioni di sensibilità estetica e anche ‘morale’. Come ha notato Robert Garland, fondandosi su giudizi di Coleridge e di David Hume, la tragedia greca, diversamente, ad esempio, dall’Omero di Pope, colpiva negativamente l’uomo colto del Settecento: «In part the reason for the failure of Greek tragedy to attract the attention of any translator of distinction before the middle of the nineteenth century was the fact that it offended the aesthetic and moral sensibilities of the age».[4]

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Muovendo da un passo di Aulo Gellio (Noctes Atticae 13, 17) e soffermandosi su testi di Eschilo, Varrone, Firmico Materno e Erasmo da Rotterdam, nonché tenendo conto di testimonianze vascolari dell’antica Grecia, questo contributo intende mostrare come nella figura di Prometeo possa incarnarsi il mitico fondatore di uno dei concetti portanti del pensiero romano classico, quello di humanitas.

Starting from a passage by Aulus Gellius (Noctes Atticae 13, 17) and dwelling on texts by Aeschylus, Varro, Firmicus Maternus and Erasmus of Rotterdam, as well as taking into account vase evidence from ancient Greece, this contribution aims to show how the mythical figure of Prometheus can embody the founder of one of the most important concepts of classical Roman thought, that of humanitas.

La figura di Prometeo all’interno del panorama mitologico classico, soprattutto greco, gode di particolare fortuna nell’ambito legato ai cosiddetti miti del progresso, ovvero quelle narrazioni in cui la storia del mondo e del ruolo dell’uomo al suo interno è presentata come una continua evoluzione da condizioni più arretrate culturalmente, e perciò meno agevoli per la vita umana, a situazioni migliori, più evolute, più civilizzate.[1] Emblematica, in questo contesto, è la versione contenuta nel Protagora platonico (320d-322d), secondo cui Prometeo rimedia alle mancanze del fratello Epimeteo nei confronti degli uomini consegnando loro il fuoco e la sapienza tecnica, dopo aver sottratto con l’inganno il primo a Efesto e la seconda ad Atena.[2] Proprio per il furto del fuoco Eschilo aveva definito Prometeo philánthropos in un passo del Prometeo incatenato su cui ritorneremo, chiamando così in causa la philanthropía, da identificarsi, come chiarirà bene un passo di Aulo Gellio, come una componente fondamentale del concetto latino di humanitas, che nel suo senso più ampio indica proprio la nozione di civilizzazione – ovviamente secondo i parametri romani e con sfumature diverse in relazione agli autori e ai periodi della storia di Roma – ovvero il risultato del progresso umano descritto nei miti e cui i Greci non diedero mai una denominazione vera e propria.[3]

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Procedendo dall’analisi di Hes. Th. 507-613 e di altre testimonianze puntuali, si ricostruiscono le sequenze fondamentali del mito prometeico del furto del fuoco, a partire dal retroscena della spartizione di Mecone. L’insieme dei dati, posto in relazione con le fonti letterarie e iconografiche relative ai Promethia, permette di illuminare la funzione cultuale di Prometeo nella città di Atene e le prerogative del fuoco che il Titano dona agli uomini: intermediario tra il fuoco inestinguibile di Zeus e quello perfettamente addomesticato di Efesto, il fuoco prometeico resta nascosto ma non si spegne. È dunque divenuto a ‘misura d’uomo’, ma conserva, dell’antico fuoco cosmogonico, quella vigorìa che lo mantiene acceso, rendendolo ‘instancabile’.

Proceeding from the analysis of Hes. Th. 507-613 and other punctual testimonies, the fundamental sequences of the Promethean myth of the theft of fire are reconstructed, starting from the background of the partition of Mecon. The set of data, placed in relation to the literary and iconographic sources relating to the Promethia, allows us to illuminate the cultic function of Prometheus in the city of Athens and the prerogatives of the fire that the Titan bestows on mankind: an intermediary between the unquenchable fire of Zeus and the perfectly tamed fire of Hephaestus, Promethean fire remains hidden but is not extinguished. It has therefore become 'human-sized', but retains, of the ancient cosmogonic fire, that vigour that keeps it burning, making it 'indefatigable'.

Anche il “mito” di Prometeo – come altri racconti complessi e stratificati di dèi ed eroi tramandati nelle fonti antiche – si frastaglia nella letteratura e nell’iconografia greca segmentandosi in diverse imprese, senza che vi sia la possibilità di ricostruire genesi e articolazione dell’insieme delle gesta che al Titano sono attribuite. Prometeo portatore del fuoco agli uomini, Prometeo che inaugura il sacrificio bovino insegnando ai mortali come lasciare agli dèi le sole ossa tenendo per sé la carne, Prometeo che plasma il protògonos al quale Atena infonde la psyché, Prometeo che subisce la punizione sul Caucaso e che poi viene liberato da Eracle. A queste si aggiungono ulteriori imprese, meno celebri, nelle quali il Titano è ricordato insieme a Deucalione e a Chirone, fino alla rilettura platonica del furto del fuoco. Nella letteratura antica, dunque, è difficile imbattersi in una rassegna completa delle imprese prometeiche, mentre prevalgono i resoconti e le riletture focalizzati su una particolare sezione del mito; unica e attesa eccezione è il resoconto della Biblioteca dello Pseudo Apollodoro. Nella selettività delle fonti visive, connaturata al mezzo, si segnala tuttavia l’originale e inattesa riproduzione di più momenti del mito di Prometeo su un celebre sarcofago, che ne riproduce in sequenze alcuni dei momenti più significativi.[1]

Sia pure trattate quasi sempre in modo separato, le imprese di Prometeo lasciano intuire una stretta relazione tra il dio e il genere umano. Una relazione già individuata da Kerényi nella struttura espositiva della Teogonia esiodea, ove la genealogia di Giapeto segue a quella della linea Urano-Crono.[2]

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L’articolo, che ha lo scopo di introdurre l’omonimo fascicolo monografico, indaga la ricezione del mito di Prometeo, nella sua mobilità non solo diacronica e diatopica, ma anche intermediale. Nel ripercorrere le recenti acquisizioni metodologiche degli studi intermediali, e nel sottolinearne la crescente importanza, il contributo mette in luce la prolifica fortuna della figura di Prometeo attraverso diversi media, dalla letteratura e il teatro fino al cinema, i videogiochi e i meme contemporanei, che ne determinano trasformazioni sostanziali. L’instabilità, caratteristica costitutiva della fortuna del mito, nel caso di Prometeo è legata anche alla mancanza di un solido e unico testo sorgente; la cangiante molteplicità del Titano lo rende una figura emblematica per analizzare i meccanismi complessi della ricezione intermediale.

The article, which aims to introduce the current monographic issue, explores the reception of the mythical figure of Prometheus from an intermedial perspective. By retracing recent methodological developments in intermedial studies and emphasizing their growing significance, the contribution highlights the prolific reception of Prometheus across different media, including literature, theatre, cinema, video games, and contemporary memes, all of which contribute to significant transformations of the myth. Instability, a defining characteristic of the myth’s reception, in the case of Prometheus is also linked to the absence of a single authoritative source text. The Titan’s multiplicity thus makes him an emblematic figure for analysing the complex mechanisms of intermedial reception.

Una didascalia in sovraimpressione nella sequenza iniziale di Oppenheimer informa lo spettatore, eventualmente ignaro di trovarsi di fronte all’ennesima metamorfosi del mito, che «Prometheus stole fire from the gods and gave it to man. For this he was chained to a rock and tortured for eternity». Il riferimento al Titano, già presente nel titolo della biografia scritta da Kai Bird e Martin J. Sherwin sulla quale è basata la sceneggiatura del film di Christopher Nolan (American Prometheus. The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer, 2005), rientra in una casistica verso la quale già Schelling attirava l’attenzione: «La mitologia è essenzialmente qualcosa che si muove».[1] Immunizzato dalla catastrofe del nazismo nei confronti delle ipostatizzazioni del mito, Hans Blumenberg avrebbe neutralizzato il «mito della mitologia» risolvendo quest’ultima nella storia dei suoi effetti: «L’originario rimane un’ipotesi, l’unica base per verificare la quale è la ricezione»;[2] assunto in seguito echeggiato dalla mitocritica più avvertita, che muove dall’ipotesi «d’un sens non inhérent au(x) mythe(s), mais généré en perpétuelle réinvention à partir de la situation du sujet énonciateur».[3]

Se la «mobilità diacronica e diatopica»[4] del mito in generale è ormai un dato acquisito, non lo è altrettanto, o non a sufficienza, la dimensione mediale di tale mobilità. Come ha osservato una studiosa particolarmente sensibile alla questione, «le jeu des prismes interprétatifs est parfois d’une complexité qui repose bien plus que de l’intertextualité littéraire».[5] Ovviamente non godono più di credito semplificazioni come quella che relegava il mito alla sfera dell’oralità, attribuendo alla scrittura un’implacabile funzione demitizzante; per quanto, naturalmente, si continui ad attribuire un ruolo fondamentale all’oralità nei circuiti intermediali dell’antico.[6] È però un dato di fatto che l’attenzione all’intermedialità del mito stenta ancora ad affermarsi, per quanto da questo studio potrebbero trarre beneficio non solo le ricerche sulla tradizione del classico (alle quali aggiunge alcune tessere il contributo di Guido Milanese presente in questo fascicolo), ma anche gli stessi studi di intermedialità, troppo spesso appiattiti su un ‘presentismo’ dimentico del radicamento e della profondità storica delle questioni.

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