1. Storie di traduzioni, ricordate e dimenticate, e di lettori, ricordati e dimenticati
Shelley, certo, moglie e marito, la lunga, sotterranea, traccia di Milton, e anche un po’ Byron: pure, Prometeo nella cultura inglese non vive solo nei grandi nomi, ma anche in un tessuto connettivo di traduttori e commentatori. Figure minori, ‘periferiche’, poco influenti nell’immagine della cultura generale, come appare da un qualche disdegno di Raymond Trousson, l’autore della più massiccia e documentata storia del tema prometeico nella letteratura europea: nel Settecento, sostiene l’autore, le traduzioni non apportarono un sostanziale aumento dell’interesse per Eschilo e in particolare per il Prometeo:[1]
Au total, le substrat des siècles précédents se révèle mince: manifestement, ce n’est plus dans les compilations érudites que les auteurs du siècle des Lumières puisaient leur connaissance du mythe de Prométhée. Faut-il croire alors que c’est l’œuvre d’Eschyle qui vient au premier plan ? que les traductions du Père Brumoy, de Lefranc de Pompignan, de La Porte du Theil en France ; de Goldhagen ou de Achtsnicht en Allemagne ; de Conzati, Cesarotti ou Pasqualoni en Italie ; de Morell ou de Potter en Angleterre, – que ces traductions avaient contribué à faire connaître et apprécier l’auteur du Prométhée enchaîné ? Au contraire, Eschyle fut, semble-t-il, aussi maltraité et méconnu qu’au XVIIme siècle.
Trousson non considera evidentemente significative le traduzioni, neppure quella latina di Stanley, alla quale si riferisce solo menzionando Edgar Quinet, che nel suo Prométhée riconduce appunto a Stanley la ‘cristianizzazione’ di Prometeo.[2]
In realtà, nella costruzione della ricezione di un testo le traduzioni hanno sempre una grande importanza: ancora un secolo fa, Pasquali osservava che era la conoscenza del greco a costituire la vera eccellenza culturale negli strati culturalmente più alti della popolazione inglese:[3] la traduzione era dunque necessaria per raggiungere un pubblico meno elitario. Ma la tragedia greca, e particolarmente quella eschilea, attirava poco per ragioni di sensibilità estetica e anche ‘morale’. Come ha notato Robert Garland, fondandosi su giudizi di Coleridge e di David Hume, la tragedia greca, diversamente, ad esempio, dall’Omero di Pope, colpiva negativamente l’uomo colto del Settecento: «In part the reason for the failure of Greek tragedy to attract the attention of any translator of distinction before the middle of the nineteenth century was the fact that it offended the aesthetic and moral sensibilities of the age».[4]
Proprio per queste ragioni spicca la traduzione latina delle tragedie di Eschilo, pubblicata da Thomas Stanley nel 1663, insieme al testo greco e a un ricco commento. L’influenza di quest’opera sulla filologia del tempo fu profonda; venne riconosciuta non solo come la più importante edizione di Eschilo fino ad allora pubblicata, ma fu anche, particolarmente per il commento, un’edizione capace di mantenere la propria autorevolezza per molto tempo.[5] Una studiosa di Stanley, Margaret Arnold, ha notato che l’importanza culturale dell’opera di Stanley consiste nella struttura dell’edizione, che era la prima in grado di raggiungere un pubblico non specializzato, grazie alla traduzione latina, e insieme gli studiosi specializzati, grazie al testo greco e al commento; l’influenza dell’edizione perdurò a causa delle ristampe del testo durate più di un secolo:[6]
Since Stanley presented the first Aeschylean text, translation, and commentary for a non-specialized audience, the ideas he communicated are important for students of later Restoration and eighteenth-century poets and translators. In fact, the circulation of Stanley’s work increased with Jan Cornelis de Pauw’s re-edition, which included the 1663 commentary (The Hague 1745), and, even later, with Samuel Butler’s Aeschylus (Cambridge 1809), which contained many of Stanley’s manuscript addenda as well as original notes.
Nei confronti della traduzione latina sembra che gli studiosi recenti abbiano, ancora una volta, scarso interesse: ma della sua alta qualità si accorse un lettore d’eccezione, Ezra Pound, confrontando, nell’Agamennone, la traduzione latina di Stanley con quella di Browning, «to the infinite advantage of the Latin, and the complete explanation of why Browning’s Aeschylus, to say nothing of forty other translations of Aeschylus, is unreadable».[7] L’unica altra osservazione in merito alla traduzione di Stanley che meriti di essere riportata è quella della voce eschilea nel Catalogus Translationum et Commentariorum: Stanley è in realtà in debito (non riconosciuto) con la traduzione di Matthias Garbitius (o Grabitius: Matija Grbić o Matthias Grabitz, professore a Tübingen), che pubblicò una traduzione in prosa del Prometeo a Basilea nel 1559; la traduzione venne riutilizzata in seguito.[8] Ma certamente alla diffusione dell’opera di Stanley contribuì la sua fama di traduttore e poeta; e alla serietà dell’opera la sua conoscenza del mondo classico, che trovò una formidabile manifestazione nella sua History of Philosophy (1655–1660), una poderosa opera in tre volumi dedicati alla filosofia greca, più un volume di History of the Chaldaick Philosophy (1662). L’opera venne ristampata varie volte, tradotta in francese e latino e utilizzata anche in Olanda da Jan Cornelis de Pauw, che nel 1745 produsse un’edizione di Eschilo.[9]
Nel 1767 il Prometeo venne tradotto in inglese da un altro personaggio notissimo al suo tempo, Thomas Morell (1703-1784), librettista per Georg Friedrich Händel (divenuto nel frattempo George Frideric Handel), poeta, traduttore, soprattutto di poesia tragica greca ma anche di Seneca, autore o revisore di opere di lessicografia greca e latina, organista, ecclesiastico di scarsa fortuna. Il suo Prometeo apparve nel 1773: ciò che più interessa è la traduzione inglese, pudicamente confinata alla fine del massiccio volume di quasi quattrocento pagine, che ristampano la versione latina di Stanley, ormai un classico; a distanza di più di cent’anni dalla pubblicazione di Stanley, l’edizione di Morell aggiunge materiale scoliastico nuovo, una collezione di notae variorum, e appunto la propria versione inglese.[10] Dal catalogo delle biblioteche inglesi risultano diverse ristampe di quest’opera (1773, 1781, 1798)[11]. Del 1804 è un’edizione, definita editio altera recognita (pubblicata a Eton apud M. Pote et E. Williams) che sembra costituire una riedizione a uso scolastico.
La traduzione inglese più durevole di tutto Eschilo, questa volta, non del solo Prometeo, fu certamente quella di Robert Potter (1721-1804), anch’egli un ecclesiastico anglicano di modeste fortune. Traduttore di tutti i tragici greci, nel 1777 pubblicò il suo Eschilo, che ebbe notevole risonanza, assicurando all’ormai quasi sessantenne Potter una fama che non aveva mai raggiunto precedentemente; e, ciò nonostante, la scarsa simpatia nei suoi confronti da parte del potentissimo Dr Johnson.[12]
La tragedia greca era finalmente entrata, anche grazie a queste traduzioni, nella cultura generale; il cambiamento di gusto dal Settecento all’Ottocento si vede anche nel fiorire di edizioni e commenti a questi testi. Il Prometeo, in particolare, è oggetto di una nota di uno studente non comune, John Henry Newman, che nell’agosto del 1821 traduce tutta la tragedia in tre giorni, e il 16 agosto scrive alla sorella Harriett:[13]
The Prometheus is a wonderful composition, the work of an author with gigantic conceptions, worth all the tragedies of the stiff, cold, artificial, dignified Sophocles.
Nei giorni seguenti Newman legge e traduce i Sette contro Tebe, i Persiani e l’Agamennone, e rivede il Prometeo il 30 agosto, e poi in seguito fino ai primi di novembre, come tutti gli altri testi studiati, in modo da assimilarli a fondo. Sull’ammirazione per Eschilo Newman ritorna ancora in una lettera di pochi giorni dopo alla sorella Jemina, reiterando la contrapposizione tra la forza di Eschilo e la freddezza di Sofocle (definito «dry, stiff, formal, affected, cold, prolix, dignified»), riferendosi in particolare ancora al Prometeo. Newman apprezza la traduzione di Potter, e dice alla sorella (che evidentemente non era in grado di leggere l’originale):[14]
I hope when I have taken my degree to read Potter’s translation to you; it is a very good one, though of course it cannot be supposed to come up to the unapproachable beauties of the original; I am sure you will like it; you may feed on metaphors in it for days together, since Æschylus very seldom speaks without a metaphor. Sometimes he runs into the turgid and bombastic, venial fault compared to his excellences […]
La promessa di leggere la traduzione di Potter ritorna in una lettera dell’11 dicembre dello stesso anno 1821; l’entusiasmo di Newman per Eschilo non accenna a diminuire, al punto di avere iniziato a imparare a memoria i cori eschilei e di avere in mente di comporre la musica per un paio di essi; e sempre la traduzione di Potter, questa volta anche di Sofocle, viene promessa alla madre.[15]
Le note di Newman mostrano appunto quella funzione della traduzione alla quale si accennava all’inizio di questa ricerca, cioè assicurare la lettura dei testi greci anche alle persone di media cultura ma non in grado di leggere l’originale. Dopo la traduzione di Potter, in pieno Ottocento spicca certo il nome dei Browning, dei quali si parlerà qui a poco; ma non va dimenticato l’infelice John Selby Watson (1804-1884), un ecclesiastico anglicano che rischiò di essere impiccato per aver ucciso la moglie, il conseguente tentativo di suicidarsi non avendo raggiunto lo scopo.[16] Il suo Prometeo (1870) non presenta traduzione, ma un ricco commento filologico e linguistico: dai lontani tempi di Stanley è cambiato il mondo della ricerca; Watson segue il testo del Dindorf (1827), che costituiva l’edizione di riferimento dell’epoca, e il suo orizzonte filologico è ormai quello aggiornato della filologia internazionale.[17]
2. Speranze e attese
Il Prometeo in Germania di Fabio Turato[18] è sicuramente un modello al quale riferirsi per sviluppare questi appunti di lettura in una ricerca completa. Nel frattempo, si potrà ricorrere alla lente d’ingrandimento laddove lo sguardo complessivo dello storico non sia ancora possibile. In una ricerca di alcuni anni fa era stata studiata la storia dell’interpretazione di un noto passo del Prometeo, quello relativo alle «cieche speranze» (vv. 248-253), che riporto nella traduzione di Federico Condello (p. 92):[19]
Prometeo
A chi mi è amico fa pietà vedermi.
Coro
È questa la tua colpa? O sei andato anche oltre?
Prometeo
Ho distolto lo sguardo degli uomini – l’ho fatto – dalla morte
Coro
Qual è la medicina che hai trovato, per questa malattia?
Prometeo
Io li ho colmati di speranze cieche
Coro
Bel vantaggio, bel dono hai fatto agli uomini
Προμηθεύς
καὶ μὴν φίλοις ἐλεινὸς εἰσορᾶν ἐγώ.
Χορός
μή πού τι προύβης τῶνδε καὶ περαιτέρω;
Προμηθεύς
θνητούς γ’ ἔπαυσα μὴ προδέρκεσθαι μόρον.
Χορός
τὸ ποῖον εὑρὼν τῆσδε φάρμακον νόσου;
Προμηθεύς
τυφλὰς ἐν αὐτοῖς ἐλπίδας κατώικισα.
Χορός
μέγ’ ὠφέλημα τοῦτ’ ἐδωρήσω βροτοῖς.
Nel 1833 esce il Prometeo di Elizabeth Browning, in cui la traduzione del verso 252 (τυφλὰς ἐν αὐτοῖς ἐλπίδας κατώικισα) suona «Blind Hopes I sent among them». La seconda traduzione (1850) propone «I set blind Hopes to inhabit in their house». La complessiva revisione della traduzione fu profondissima, e di fatto si tratta di testi diversi; le recensioni alla prima versione, non tutte favorevoli, vennero prese sul serio dall’autrice, che giunse a criticare la propria opera giovanile in modo molto severo. Parecchi studi hanno accuratamente esaminato la differenza tra le due edizioni in rapporto allo sviluppo poetico dell’autrice nel periodo intercorrente tra il 1833 e il 1850;[20] una nota di dettaglio, che mi pare sfuggita a chi si è dedicato al confronto tra l’edizione del 1833 e quella del 1850, è che verisimilmente la traduzione riecheggia quella del Potter, che la traduttrice ben conosceva, richiamandolo già nella prefazione all’edizione del 1833 (p. vii): Potter traduceva infatti «I sent blind Hope t’inhabit in their hearts».
Robert Browing, in Christmas-Eve and Easter-Day (Easter-Day, XII, 329-335), riecheggia l’espressione, menzionando esplicitamente Eschilo:
But, do you see, my friend, that thus
You leave St. Paul for Aeschylus?
– Who made his Titan’s arch-device
The giving men blind hopes to spice
The meal of life with, else devoured
In bitter haste, while lo! death loured
Before them at the platter’s edge!
Nella loro corrispondenza i due coniugi si scambiano idee in merito al significato del verso eschileo: Elizabeth Browning dà per scontato che si tratti appunto di «hopes of immortality», e il marito si lancia in una breve tirade a proposito delle banali affermazioni in merito a questo tremendo interrogativo:
R.B. to E.B.B. Tuesday Morning. [Post-mark, March 12, 1845].
he (= Prometheus) shall achieve the salvation of man, body (by the gift of fire) and soul (by even those τυφλαὶ ἐλπίδες, hopes of immortality), and so having rendered him utterly, according to the mythos here, independent of Jove – for observe, Prometheus in the play never talks of helping mortals more, of fearing for them more, of even benefiting them more by his sufferings.
R.B. to E.B.B. Saturday Night, March 1 [1845].
I forget your version (it was not yours, my ‘yours’ then; I mean I had no extraordinary interest about it), but the original makes Prometheus (telling over his bestowments towards human happiness) say, as something περαιτέρω τῶνδε, that he stopped mortals μὴ προδέρκεσθαι μόρον –τὸ ποῖον εὑρών, asks the Chorus, τῆσδε φάρμακον νόσου. Whereto he replies, τυφλὰς ἐν αὐτοῖς ἐλπίδας κατῴκισα (what you hear men dissertate upon by the hour, as proving the immortality of the soul apart from revelation, undying yearnings, restless longings, instinctive desires which, unless to be eventually indulged, it were cruel to plant in us, &c. &c.).
Quest’interpretazione appare quasi scontata: ma, sulla traccia della lettura del corrispondente passo ‘prometeico’ di Esiodo proposta dal Verdenius, si può proporre, come è stato fatto di recente, che τυφλαὶ ἐλπίδες siano in realtà ‘attese’, orizzonti di aspettativa, non ‘speranze’:[21]
It should be borne in mind that the original meaning of ἔλπομαι is not ‘to hope’ but ‘to suppose’. Ἐλπὶς in the sense of ‘hope’ is only a specialization of the meaning ‘expectation’, which in its turn is a specialization of ‘supposition’. There is ample evidence that the linguistic feeling of the Greeks was fully alive to this fact.
Per ricorrere appunto alla ‘lente’ cui sopra si faceva riferimento, la lettura dei Browning, che pone elpís in rapporto con la morte e con il ‘nascondimento’ della conoscenza della propria morte, è così ovvia nella letteratura eschilea che abbiamo qui sopra esaminato? Spes cæcas suonava il latino di Stanley: come già osservato, per Potter, nella sua traduzione inglese, non c’è dubbio: «I sent blind Hope t’inhabit in their hearts»,[22] e così Morell, che infiocchetta un po’ («Blind Hope, sweet lenitive of pain and care»); ma è interessante come dal commento di Watson emerga chiaramente che non si immagina nessun rapporto con l’attesa di immortalità, come pensava invece Elizabeth Browning, e come nel Novecento interpreterà Simone Weil, cristianizzando l’antico testo greco, ma di una semplice speranza di migliorare la propria condizione: «Whatever evils mortals suffer to day, they hope, in their inability to see the future, for improvement in their condition to-morrow»:[23] qualcosa di molto elementare, in fondo, e ben lontano sia dalla polemica di Robert Browning sia da quello che sarà, nel secolo successivo, la lettura misticheggiante di Simone Weil.[24]
Un magro bottino, dunque: ma in realtà Stanley e i suoi continuatori ci soccorrono ancora. Nella sua edizione lo studioso seicentesco stampa gli scholia noti alla sua epoca, quelli vittoriani, e riporta un commento antico che spiega il testo sia come Browning (immaginarsi di vivere per sempre) sia come Watson (miglioramente della propria vita pratica): se gli uomini avessero sempre davanti ai loro occhi la loro morte e non coltivassero attese[25] la vita umana diventerebbe impossibile, preda di continua tristezza e lamenti. Le ‘attese cieche’, infatti, permettono di immaginarsi di poter diventare ricchi, o di vivere eternamente[26]:
V.250. Τυφλὰς ἐν αὐτοῖς ἐλπίδας κατώκισα] εἰ γὰρ εἶχον οἱ ἄνθρωποι πρὸ ὀφθαλμῶν τὸν θάνατον, καὶ μὴ ἐλπίσι ἐβουκολοῦντο , ὁ μὲ προσδοκῶν ευδαίμων γενήσεσθαι καὶ περιεῖναι, καὶ ζῆν αεί , ὁ δὲ αὐτὸ τοῦτο καὶ ὅτι πλούσιος ἔσται, λύπαις ἂν ὀδυρμοῖς τὸν πάντα αἰῶνα διέφερον
Il commento antico è riprodotto nell’edizione di Morell (1773), e lo Schütz ripubblicava questo scholion nel IV volume della sua edizione eschilea. Il testo del Dindorf e l’edizione degli scholia recentiora pubblicati da Smyth coincidono con il testo vittoriano dello Stanley.[27] Sarebbe ozioso domandarsi se la Browning avesse o meno letto gli scholia pubblicati da Stanley e ripresi in seguito; può darsi, data la sua buona conoscenza del greco; ed è ugualmente ipotetico pensare che i Browning conoscessero l’edizione di Schütz[28]; più plausibile una dipendenza dall’edizione inglese dell’opera dello studioso tedesco, pubblicata nel 1810, che doveva avere conosciuto una buona circolazione in Inghilterra, ma il cui commento ad locum è meno incisivo.[29] Dipenda o no da propria autonoma lettura, l’interpretazione della Browning viene a coincidere in parte con quella dell’antico commentatore greco; sarà poi la Weil a porre in contatto l’esegesi di questi versi con la cristianizzazione di Prometeo: ma questa è davvero un’altra storia.
* Il presente articolo presenta osservazioni in un certo senso episodiche; ma il tipo di ricerca è già riconosciuto nel titolo del saggio e nel rinvio ‘comparativo’ alla monografia di Turato su Prometeo in Germania (cfr. nota 18). Mancano i riferimenti a Shelley e a Byron, le cui riflessioni sulla teoria e prassi della traduzione sono significative, ma ne sarebbe risultato uno studio diverso da quello, costruito su ‘margini’, qui presentato. Cfr. F. Rognoni, ‘Appunti sul mito di Prometeo nel romanticismo inglese. Con una proposta di edizione della traduzione di P.B. Shelley del Prometeo Incatenato 1-314 (Bodleian ms. Shelley Adds. cC 5. fols. 73-84)’, in Prometeo. Percorsi di un mito tra antichi e moderni, citato qui appresso alla nota 19. Il complessivo articolo di S. Curran, ‘The Political Prometheus’, Studies in Romanticism 25, 3, 1986, pp. 429-455, è ricco di osservazioni interessanti ma sull’aspetto traduttivo, che qui principalmente interessa, non particolarmente incisive.
1 Cfr. R. Trousson, Le thème de Prométhée dans la littérature européenne, Genève, Librairie Droz, 2001, pp. 247-248.
2 Ivi, p. 110; E. Quinet, Prométhée, Bruxelles, Laurent, 1838, p. XIII. Trousson cita dall’edizione Paris 1857, p. X; della traduzione in quanto tale lo studioso belga non tratta.
3 G. Pasquali, ‘Paradossi didattici’, in Pagine stravaganti, Firenze, Sansoni, 1968, vol. I, pp. 151-164, p. 159. L’articolo uscì originariamente nel 1930.
4 R. Garland, Surviving Greek tragedy, London, Duckworth, 2002, p. 139.
5 Cfr. W. Chernaik, ‘Stanley, Thomas (1625–1678), poet and classical scholar’, in Oxford Dictionary of National Bibliography, May 2008 <https://www.oxforddnb.com/view/10.1093/ref:odnb/9780198614128.001.0001/odnb-9780198614128-e-26281> [accessed 10 April 2024], Oxford University Press, May 2008; M. Arnold, ‘Thomas Stanley’s “Aeschylus”: Renaissance Practical Criticism of Greek Tragedy’, Illinois Classical Studies, IX 1984, pp. 229–249, sottolinea che da Casaubon (1809) fino a Eduard Fraenkel (1950) gli studiosi di Eschilo concordano nel ritenere l’edizione di Stanley come centrale nella storia degli studi.
6 Ivi, p. 230.
7 E. Pound, Literary essays of Ezra Pound, ed. by T. Eliot, New York, New Directions Publishing Corporation, 1954, p. 270. Su Pound traduttore dalla tragedia greca, e critico delle versioni precedenti, cfr. P. Liebregts, Translations of Greek Tragedy in the Work of Ezra Pound, London, Bloomsbury Academic, 2019, pp. 22-25.
8 V. R. Lachmann and F. E. Kranz, “Aeschylus,” in Catalogus Translationum et Commentariorum, Washington, D.C., The Catholic University of America Press, 1971, vol. II, pp. 5-25, p. 7, con notizie biografiche sullo studioso tedesco di origine istriana (1505-1559).
9 W. Chernaik, ‘Stanley, Thomas (1625–1678)’, p. 4. Su Cornelis de Pauw ed Eschilo cfr. R. Garland, Surviving Greek tragedy, cit. p. 122.
10 Su Thomas Morell informa R. Smith, ‘Morell, Thomas (1703–1784), classical scholar and librettist’, in Oxford Dictionary of National Biography, May 2009
11Library Hub Discover, <https://discover.libraryhub.jisc.ac.uk/>, [accessed 15 March 2024].
12 Su Potter cfr. D. Stoker, ‘Potter, Robert (1721–1804), translator and Church of England clergyman’, in Oxford Dictionary of National Biography, Sept. 2004,
13 J. H. Newman, The letters and diaries of John Henry Newman, vol. I: Ealing, Trinity, Oriel, February 1801 to December 1826, ed. by I. Ker and T. Gornall, Oxford, Clarendon Press, 1978, p. 82.
14 Ivi, p. 84.
15 Newman era un eccellente musicista: cfr. la documentazione in G. Milanese, ‘Newman and Gregorian Chant’, Antiphon, XX, 2 (2016), pp. 123–150. La lettera dell’11 dicembre 1821 si legge in J. H. Newman, The letters and diaries of John Henry Newman, vol. I, p. 97; quella del 14 dicembre 1822 ivi, p. 157.
16 Notizie su Watson in W. Courtney and H. Matthew, ‘Watson, John Selby (bap. 1804, d. 1884), scholar and murderer’, in Oxford Dictionary of National Biography, Sept. 2004, <https://www.oxforddnb.com/view/10.1093/ref:odnb/9780198614128.001.0001/odnb-9780198614128-e-28848> [accessed 5 May 2024].
17 Aeschylus, ΑΙΣΧΥΛΟΥ ΠΡΟΜΗΘΕΥΣ ΔΕΣΜΩΤΗΣ The Prometheus vinctus of Aeschylus, ed. by J. Watson, London; Edinburgh, Williams and Norgate, 1870.
18 F. Turato, Prometeo in Germania: storia della fortuna e dell'interpretazione del Prometeo di Eschilo nella cultura tedesca, 1771-1871, Firenze, Olschki, 1988.
19 G. Milanese, ‘Dominare le attese (Prometeo, Epicuro e dintorni)’, in Prometeo. Percorsi di un mito tra antichi e moderni, a cura di M. P. Pattoni, ‘Aevum Antiquum’ n. s. XII-XIII, 2012-2013, Milano, Vita e Pensiero, 2015, pp. 471-484, atti delle Giornate di Studio 29 e 30 ottobre 2012; 3 e 4 dicembre 2013, Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia.
20 La vicenda è studiata da C. Drummond, ‘A “Grand Possible”: Elizabeth Barrett Browning's Translations of Aeschylus's “Prometheus Bound”’, International Journal of the Classical Tradition, XII (2006), pp. 507-562. Precisi confronti tra le due versioni sono offerti da A. Falk, ‘Elizabeth Barrett Browning and Her Prometheuses: Self-Will and a Woman Poet’, Tulsa Studies in Women's Literature, VII (1988), pp. 69-85. J. Wallace, ‘Elizabeth Barrett Browning: knowing Greek’, Essays in Criticism, L (2000), pp. 329-353, sottolinea la buona conoscenza del greco da parte della poetessa, «the most scholarly woman poet of the nineteenth century» (p. 329), e nota come la versione del 1850 tenda a una ‘cristianizzazione’ di Prometeo: la versione è «permeated with Christian notions of sin, atonement, martyrdom and selflessness» (p. 332); sull’argomento note importanti anche nel già citato studio di A. Falk, ‘Elizabeth Barrett Browning and Her Prometheuses’. Osservazioni significative sulla cultura classica della poetessa, particolarmente per il versante omerico, offre A.S. Reising, ‘«Having dared to touch with bloody hands the verses»: Elizabeth Barrett Browning's Embodied Approach to the Homeric Corpus’, Victorian Poetry, LXI (2023), pp. 161-186, che annuncia una monografia sull’argomento. La prefazione all’edizione del 1833 è studiata da E. Rossi Linguanti, ‘A voice of her own: la prefazione di Elizabeth Barrett alla traduzione del Prometeo di Eschilo’, in Prometeo. Percorsi di un mito tra antichi e moderni, pp. 351-363
21 Cfr. ivi, pp. 477-479, che si riferisce a W. Verdenius, ‘A ’Hopeless’ Line in Hesiod: “Works and Days” 96’, Mnemosyne, IV s. 24 (1971), pp. 225–231, p. 230, da cui cito, ripreso in W. Verdenius, A commentary on Hesiod Works and days, vv. 1-382, Leiden, E.J. Brill, 1985, p. 70.
22 Aeschylus, The tragedies of Æschylus translated, ed. by R. Potter, London, W. Strahan – T. Cadell, 17792, vol. I, p. 25.
23 Aeschylus, ΑΙΣΧΥΛΟΥ ΠΡΟΜΗΘΕΥΣ ΔΕΣΜΩΤΗΣ, p. 70.
24 Sulle cristianizzazioni del Prometeo cfr. l’ampio studio di F. Condello, ‘«Battezzare Eschilo». Letture cristologiche del Prometeo’, in Prometeo. Percorsi di un mito tra antichi e moderni, pp. 429-469. Sullo ‘scivolamento’ cristianizzante della Barrett Browning cfr. nota 19.
25 Probabilmente il verbo indica che si tratta di attese illusorie: cfr. Agamennone 669: ἐβουκολοῦμεν φροντίσιν νέον πάθος.
26 ΑΙΣΧΥΛΟΥ, ΤΡΑΓΩΔΙΑΙ ΕΠΤΑ: Aeschyli tragoediae septem. Cum scholiis graecis omnibus; deperditorum dramatum fragmentis. Versione & Commentario Thomae Stanleii., Londini , Typis Jacobi Flesher: prostant verò apud Cornelium Bee, sub insignibus regalibus in vico vulgo dicto Little-Britain, MDCLXIII, p. b2: «Textum Æfchyli Græcum è Canterianâ editione, Scholia è Victorianâ deprompfimus». Stanley si riferisce a Aeschyli Tragoediae VII, in quibus præter infinita menda sublata carminum omnium ratio hactenus ignorata nunc primùm proditur opera Gulielmi Canteri, Antwerp, Plantin, 1580 e a Aeschyli Tragoediae VII : quæ cùm omnes multo quàm antea castigatiores eduntur, tum verò vna, quæ mutila & decurtata prius erat, integra nunc profertur : scholia in easdem, plurimis in locis locupletata, & in penè infinitis emendata Petri Victorii cura et diligentia, [Genava], Ex officina Henrici Stephani, 1557.
27 Cfr. H. Smyth, ‘The commentary on Aeschylus’ Prometheus in the codex Neapolitanus’, Harvard Studies in Classical Philology., XXXII (1921), pp. 3-82. Nell’edizione di C. Herington, The Older Scholia on the Prometheus Bound, Leiden, E.J. Brill, 1972, p. 70, si legge un testo di contenuto simile, ma che mette in modo più chiaro in rapporto la rimozione della paura della morte, della quale non si conosce il momento perché si è divenuti ciechi rispetto ad essa, con l’attività umana.
28 Cito da Aeschyli, Tragoediae Quae Supersunt ac Deperditarum Fragmenta, Recensuit et commentario illustravit Chr. Godofr. Schütz. Vol. IV, Scholia Graeca in septem Aeschyli quae extant Tragoedias, Halae, In Bibliopolio Gebaueriano, MDCCCXXI; ma l’opera dello studoso tedesco ha una lunga storia editoriale, dall’edizione in 2 volumi, del 1782-1783, a quella in tre (1799-1801)), a quella in 5 tomi (1809-1821).
29 Aeschyli, Tragoediae quae supersunt, Recensuit varietate lectionis, et commentario perpetuo illustravit C.G. Schutz, Oxonii, Impensis Roberti Bliss, 1810, vol. I p. 41. Dal Library Hub Discover, <https://discover.libraryhub.jisc.ac.uk/>, [accessed 15 June 2024] risultano in totale 17 copie nelle biblioteche pubbliche inglesi.