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  • Barbablù. Il mito al crocevia delle arti e delle letterature →

 

 

Il racconto La Barbe Bleue di Ch. Perrault (1697, pp. 57-82) approdò in Russia nella seconda metà del XVIII secolo con la traduzione Skazka o nekotorom čeloveke s sinej borodoj di L. Voinov (Skazki o volšebnicach, s nravoučenijami, 1768). Il soggetto si diffuse nei teatri dalla prima decade del XIX secolo per il tramite dell’opera comica Raoul Barbe-Bleue di M-J. Sedaine e A. Grétry (messa per la prima volta in scena a Parigi nel 1789), che fu rappresentata a San Pietroburgo nel 1815, 1817 е 1821, e variamente arrangiata sulle scene (cfr. Arapov 1861, pp. 235, 253, 310).[1] Il tema fu riacquisito dalla tradizione folclorica a partire dagli anni Venti del XIX secolo, con la comparsa, fra gli altri, dell’adattamento Raul’ sinjaja boroda di V. A. Žukovskij (Detskie skazki, 1826; Žukovskij 2016, pp. 99-106). La versione favolistica conobbe nuova fortuna negli anni Sessanta del XIX secolo, quando A.P. Zontag (Juškova) fece ristampare a suo nome, con il titolo Volšebnye skazki dlja detej pervogо vozrasta (1862, 1867), la raccolta di Žukovskij, l’editore francese J. Hetzel commissionò a I.S. Turgenev la realizzazione dell’opera Volšebnye skazki Perro illustrata da G. Doré (1866), e il racconto di Perrault fu nuovamente edito in forma non adattata (1868). Il volume di Zontag fu ristampato ancora nel 1871. Un’ulteriore versione russa non adattata comparve nel 1894.

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Abbiamo incontrato Maria Nadotti – non solo traduttrice di riferimento in Italia per le opere di John Berger, ma anche sua amica e collaboratrice nell’ambito di vari progetti – nel marzo 2019, in un caffè milanese popolato da molti cani vivaci. Quello che viene pubblicato è il frutto di una conversazione che, grazie alla generosità dell’intervistata, possiamo dire essere avvenuta all’insegna di due parole molto care allo stesso Berger: l’ospitalità e il fare insieme.

 

 

Beatrice Seligardi: Come sei entrata in contatto con l’opera di John Berger e con la sua figura di intellettuale? Come sei diventata la sua traduttrice in Italia?

Maria Nadotti: Tutto è cominciato con la lettura, che risale al 1986, di un libro di John che continua ad essere la sua opera a me più cara: I nostri volti, amore mio, leggeri come foto. Lo trovai per caso in una libreria di New York, dove all’epoca vivevo. Mi colpì subito il titolo, così come la sua copertina spoglia, senza immagini, solo il titolo – And Our Faces, My Heart, Brief as Photos – scritto a mano.

Lo lessi, innamorandomi di quella scrittura, di quel pensiero, e cominciai a tradurne per conto mio alcune pagine – all’epoca non lavoravo come traduttrice –. Da quel momento cominciai a leggere tutto quello che mi capitava di suo. Tra il 1993 e il 1994, durante un mio periodo di collaborazione con la rivista Linea d’ombra, proposi di fare un’intervista a John Berger, che non avevo mai conosciuto e di cui non sapevo nulla, se non quello che avevo letto nei suoi libri. Gli scrissi una lettera, a mano, esprimendogli il mio desiderio di intervistarlo. Lui mi rispose con una lettera – sempre scritta a mano – pochi giorni dopo, dicendomi che non amava le interviste, ma proponendomi qualcosa di più interessante. All’epoca stava lavorando a quello che sarebbe diventato To the Wedding (Festa di nozze), la cui ultima e terza parte si svolge nelle valli di Comacchio. Aveva bisogno di qualcuno che lo guidasse in quello che lui definiva un paesaggio «più misterioso delle Piramidi d’Egitto», per capirne meglio l’economia che ruota intorno al mistero dell’anguilla, il pesce serpente. 

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Abstract: ITA | ENG

A partire dallo scambio intellettuale tra Bertolt Brecht e Walter Benjamin la riflessione propone di pensare alla pratica teatrale come strumento citazionale e traduttivo. Citazione e traduzione condividono la questione della contestualizzazione e ricontestualizzazione, dell’apertura all’estraneità, e pertengono al principio iterativo e differenziale proprio del teatro. Concetti come straniamento, interruzione, montaggio permettono di comprendere il teatro in questi termini e si condensano emblematicamente nel gesto – Gestus brechtiano, atto performativo per eccellenza. 

Concepts such as estrangement, estrangement effect (Verfremdungseffekt), quotation, translatio/translation, interruption, montage are the key terms to understanding not only the mutual influence between Brecht and Benjamin but also the possibility to consider theatre as a ‘tool for quotation and translation’. In particular gest – Brechtian Gestus – the performative act par excellence is the emblem of this theoretical possibility.

Durante l’esilio americano (1941-1947) Bertolt Brecht si trova nella necessità di dover tradurre in inglese il testo del suo Galileo (1938) per la messa in scena programmata nel luglio del 1947 a Beverly Hills. Nel lavorare alla traduzione con l’attore destinato a impersonare Galileo, Charles Laughton, non solo Brecht sapeva poco l’inglese, ma Laughton non conosceva il tedesco. Malgrado le non poche difficoltà i due riuscirono comunque nell’impresa perché, assieme alla traduzione del testo condotta da Brecht con l’aiuto di dizionari, l’attore «recitava il tutto finché andava bene, cioè finché si era trovato il gesto».[1] L’individuazione del gesto era quindi funzionale alla resa della recitazione. Ciò porta a constatare che l’utilizzo del gesto come verifica della traduzione rende conto del fatto che a teatro una rappresentazione recitata in lingua straniera si comprende bene pur senza capirne le parole. E porta anche a osservare che il gesto, poiché sanciva la comprensione dell’attore ed era riconosciuto da Brecht, «non faceva parte di ciò che veniva tradotto e non era quindi traducibile».[2] Oppure, per converso, si potrebbe pensare che il gesto fosse l’unica cosa traducibile, lì dove la lingua non costituiva il codice comune di comunicazione.

Brecht afferma come l’estraneità di ciascuno alla lingua dell’altro li avesse obbligati a usare la recitazione (acting) come mezzo, come strumento di traduzione. Precisamente alla gestualità agita da Brecht in cattivo inglese o in tedesco seguiva la frequente ripetizione agita da Laughton in inglese corretto, fino a che non si otteneva qualcosa di soddisfacente. Il tutto veniva scritto, e l’individuazione della giusta espressione linguista poteva richiedere anche molti giorni. Brecht definisce questa modalità d’individuazione del gesto e dell’espressione ad esso associata un «system of performance-and-repetition»,[4] ossia un metodo in cui l’espressione dell’azione e la sua ripetizione erano funzionali all’esito performativo. E specifica come si concentrassero sui frammenti più piccoli, persino le esclamazioni, considerati di per sé.

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  • Il corpo plurale di Pinocchio. Metamorfosi di un burattino →

Una citazione dalla critica letteraria dell’opera collodiana rende ragione della scelta di adottare l’emoji del runner, ragazzo che corre, per rappresentare il nome Pinocchio nella traduzione dell’opera in emoji elaborata e curata in seno alla social community di Scritture Brevi, promossa su Twitter e nota come Pinocchio in Emojitaliano, ora pubblicata in volume per i tipi di Apice libri [fig. 1].

Ispirato a modelli e programmi storici di lingue artificiali e ausiliarie a statuto universale, Emojitaliano consiste in un repertorio di corrispondenze lessicali stabilizzate e coerenti e nella elaborazione di una struttura grammaticale semplificata volta a individuare le parti del discorso, permettendo in tal modo la lettura autonoma e la decodificazione del senso. Emojitaliano è, concretamente, la ‘grammatica’ il ‘glossario’ di Pinocchio in Emojitaliano, ovvero il set di regole predefinite e il repertorio di corrispondenze italiano-emoji concordate nel corso della traduzione, contestualmente depositate nel collegato dizionario e traduttore digitale @emojitalianobot presente su Telegram.

 

Emojitaliano: il lessico

Esperimento di riscrittura creativa, Pinocchio in Emojitaliano attesta l’allestimento di un repertorio a base semantica, con corrispondenze istituite tra gli emoji dello standard Unicode e la lingua. Nei casi di mancata, o assente, simmetria, nuovi segni sono stati elaborati attraverso la ricombinazione di segni esistenti o attraverso processi di risemantizzazione, sfruttando le potenzialità iconiche, ma anche simboliche, del linguaggio per immagini. Il codice Emojitaliano si giova, per questo, della qualità pittografica degli emoji (come segni di referenti), e parimenti del loro valore ideografico (segni di concetti), per l’assegnazione dei significati, ma soprattutto attinge alla dimensione logografica, per la possibilità di ‘leggere’ i segni nella specifica lingua.

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Cosa significa tradurre? Fino a che punto un testo riesce a opporre resistenza alla traduzione, non solo a quella da una lingua a un’altra, ma anche a quella tra media differenti? Esistono testi intraducibili? E non andrebbe considerata tra le pratiche di traduzione – cioè di trasferimento e ricodificazione – anche la critica letteraria? Sono queste le domande che pone il volume Gadda Goes to War: An Original Drama by Fabrizio Gifuni, curato da Federica Pedriali (Edinburgh, Edinburgh University Press, 2013), che dirige l’«Edinburgh Journal of Gadda Studies» e da anni si occupa della promozione e della diffusione degli studi su Gadda anche al di là dei confini dell’accademia. Corredato di un dvd, il libro si presenta come una versione in inglese – con testo originale a fronte – di Lingegner Gadda va alla guerra o della tragica istoria di Amleto Pirobutirro, monologo scenico che Fabrizio Gifuni ha allestito nel 2010 con la regia di Giuseppe Bertolucci, e che costituisce, insieme allo spettacolo dedicato a Pasolini – Na specie de cadavere lunghissimo (2006) – un dittico, riproposto come tale da Minimum Fax col titolo Gadda e Pasolini: antibiografia di una nazione (2012).

Si tratta dunque di un oggetto ibrido, non solo perché affianca al testo il dvd della performance di Gifuni, ma perché ha l’ambizione di ragionare, sul piano teorico e critico, sul gesto di ‘traslazione’ – sia concesso qui l’uso di un calco efficace dall’inglese – che può garantire l’esistenza degli oggetti della cultura ben oltre i contesti, i codici e i supporti che li determinano all’origine. Questione fondamentale, soprattutto quando si tratti della circolazione di uno degli autori centrali del canone italiano novecentesco – senz’altro il più celebrato, il più intraducibile.

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