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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Sin dalle prime sequenze del pilot, la serie Jane the Virgin (Jennie Snyder Urman, The CW 2014-2019) vede la sua protagonista nella cucina della casa di Miami, che divide con la madre nubile e la nonna venezuelana, intenta a guardare con le altre donne della sua famiglia un episodio di una fittizia telenovela ispanofona, dedicata al pubblico latinex negli Stati Uniti. In modo arguto e ricco di sfumature, la serie utilizza la pratica di spettatorialità condivisa fra le tre donne e il loro diverso modo di reagire ai generi del romance (affettuosamente parodiati nella messa in scena) per delineare genealogie culturali e sentimentali e la produzione di un discorso femminista intersezionale in seno a questa famiglia. Si sviluppa così il complesso rapporto fra generazioni e rispettivi posizionamenti culturali, fra modi narrativi diversificati a cui ispirano la propria esistenza, e fra configurazioni della soggettività. Il saggio affronta innanzitutto il modo in cui la memoria – personale e collettiva – venga messa in scena da Jane the Virgin come strumento di posizionamento rispetto all’essere genitori o figliə, nella sua qualità di atto condiviso, narrativo ed emotivo. E va a sottolineare come la serie proponga questa esperienza in modo simile a quella del confronto con il racconto melodrammatico delle telenovelas, secondo il modo in cui è stato studiato dalle teorie femministe sin dagli anni ’80. La spettatorialità domestica condivisa diviene dunque pratica di messa in scena che permette la produzione di una complessità soggettiva e narrativa, una diversificazione e una molteplicità che coinvolgono lə personaggə così come gli spazi che possono chiamare ‘casa’.

From its opening scenes, the TV series Jane the Virgin (Jennie Snyder Urman, The CW 2014-2019) shows its main character in the kitchen of the Miami house she shares with her single mom and the Venezuelan abuela. The Villanueva women are watching together an episode from the fictitious Hispanic telenovela for the Latinx audience in the US. The show uses the representation of women’s spectatorship and their various reactions to romance to produce cultural and sentimental genealogies and create an intersectional feminist discourse in the Villanueva family. It also proposes a loving and pointed parody of telenovelas and develops a complex intergenerational network. All the characters have a mobile but conscious cultural location, and all face multiple narrative models for their subjectivity. The essay addresses how personal and collective memories are represented in Jane the Virgin as a tool to locate the characters regarding the relationship between parents and children. Memory is, more and foremost, a shared act from a narrative and emotional perspective. Therefore, the series represents memories as an experience that has very much in common with the melodramatic imaginary of telenovelas – according to how melodrama has been studied by feminist theory since the 1980s. Domestic and shared spectatorship is a practice that represents and produces the complexity of subjects and narrative, creating diversification and a multiplicity for both the characters and the spaces they can call ‘home’.

Una nonna, una madre, una figlia: tre generazioni di donne, appartenenti alla stessa famiglia ma di nazionalità diverse, discendenti le une dalle altre, sedute assieme, spettatrici di un avvincente racconto. Potrei stare descrivendo una variante della famosa fotografia Por um fio di Anna Maria Maiolino, scattata nel 1976, in cui la fotografa italiana si ritrae al centro, fra la madre ecuadoregna e la figlia brasiliana, mentre un filo le tiene legate per la bocca. Potrei stare anche descrivendo – questione della nazionalità a parte – un pomeriggio qualunque in casa mia, fra il 1982 e il 2000: io, mia madre e mia nonna sedute nella cucina-soggiorno, con la televisione accesa su qualche melodramma hollywoodiano. Potrei stare raccontando un momento in una miriade di saghe familiari femministe, e in un certo senso lo è: si tratta della sequenza iniziale di Jane the Virgin [fig. 1], serie creata da Jennie Snyder Urman per il canale statunitense The CW, sulla base della telenovela venezuelana Juana la virgen (Perla Farías, RCTV 2002). I 100 episodi che la compongono sono un viaggio che, fra le altre cose, narra il passaggio dell’eroina eponima, Jane Gloriana Villanueva, da spettatrice ad autrice, grazie al suo essere appunto anche protagonista della telenovela stessa.

 

Memorie e riscritture

Non è un caso né un vezzo che io mi sia confrontata con la mia memoria nel momento stesso in cui ho iniziato a guardare Jane the Virgin: è il racconto stesso a mettere continuamente in discussione i modelli di produzione della soggettività attraverso la memoria personale, nonché la configurazione di genealogie femminili – più o meno risolte – tramite la condivisione e la trasmissione della memoria familiare. L’abilità dell’autrice e dellÉ™ suÉ™ collaboratorÉ™ sta proprio nel creare un intreccio costante fra le memorie dellÉ™ personaggÉ™, che risuonano potenzialmente con quelle dellÉ™ spettatorÉ™, producendo significati e modelli di interpretazione delle esperienze condivise.

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1. Introduzione

«Nonostante la percezione diffusa che il crime drama sia un genere intrinsecamente ‘maschile’, le donne vi hanno giocato un ruolo fondamentale fin dall’inizio, non soltanto nella veste di vittime indifese o femme fatale doppiogiochiste, ma anche in qualità di personaggi sempre più risolutivi nell’ambito delle indagini, nonché come percentuale del pubblico televisivo in costante aumento dagli anni Cinquanta a oggi». Inoltre, «la rappresentazione della donna nel crime drama ne [ha] testimoniato il mutamento del ruolo sociale nel corso degli anni, alimentando il dibattito sia sulla stampa di massa che nel campo dei feminist media studies» (Turnbull 2019, p. 247).

Per quanto l’indagine di Turnbull sulla presenza della donna nella serialità televisiva di genere crime coniughi virtuosamente le due prospettive «behind the camera» e «on-screen», e analizzi nel dettaglio la presenza femminile in ruoli produttivi e creativi, tale analisi resta circoscritta all’area anglofona (in particolare USA e UK) con una breve incursione in territorio nordico, per esaminare i celeberrimi ruoli di Sarah Lund (The Killing, 2007-2012) e Saga Norén (The Bridge, 2011-2018). Per l’Italia, anche nelle sue relazioni con altre esperienze produttive e narrative che si sviluppano a livello europeo, una indagine di questo tipo sembra ancora mancare del tutto, e solo di recente è stata mappata la presenza femminile nella produzione di fiction televisiva a livello europeo (Jiménez Pumares 2021).

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In un contributo del 2014, Dana Renga ha rintracciato nel cinema italiano post-Duemila un incremento dei film con protagoniste giovani e giovanissime, sia nel filone del teen movie, sia nel cinema d’autore, o meglio delle autrici (come Costanza Quatriglio, Alice Rohrwacher, Susanna Nicchiarelli). Un discorso simile si applica anche alle serie televisive italiane, dove negli ultimi anni è aumentato il numero di prodotti che muovono le ragazze al centro della narrazione. L’amica geniale, best-seller letterario adattato in serie televisiva, è forse il prodotto culturale italiano che più fruttuosamente ha azzeccato la congiunzione tra girlhood, specificità nazionale e storia sociale: nonostante i romanzi – e di conseguenza i prossimi adattamenti – attraversino molti decenni e fasi della vita delle protagoniste Lenù e Lila, le prime due stagioni sono inevitabilmente centrate sull’amicizia totalizzante tra le loro versioni giovanissime [fig. 1], rendendo L’amica geniale una delle rappresentazioni più complesse della crescita e della connessione tra ragazze viste sul piccolo schermo. Tuttavia, la serie rimane un prodotto atipico: per la sua origine letteraria da un lato, e per la sua storia produttiva e distributiva dall’altro (co-produzione Rai-HBO andata in onda sui rispettivi canali), è evidentemente indirizzata a una audience transnazionale e trasversale (Bisoni e Farinacci 2020), che comprende tanto il pubblico generalista quanto quello più di nicchia attratto dalla componente autoriale, trasferita dai libri (Elena Ferrante) alla trasposizione (la regia di Saverio Costanzo con alcune incursioni di Alice Rohrwacher).

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