1. Donne che traducono

 

Siamo nei primi anni Novanta e a scrivere alcuni appunti riguardanti la traduzione della serie di novellizzazioni La signora in giallo (romanzi basati sulla serie televisiva di Peter S. Fischer, Richard Levinson e William Link) è Lisa Morpurgo. Le parole di questa professionista dell’ambito editoriale possono tuttavia considerarsi rappresentative delle operazioni di moltissime altre figure femminili che intraprendono l’attività traduttoria: un impiego che, ‘consentito’ alle donne in quanto esercitabile anche da casa e, soprattutto, ritenuto di secondaria importanza rispetto alle scritture degli autori, permette loro di uscire dalla propria sfera privata e di esprimersi pubblicamente tra le righe. In quanto alla ‘femminilizzazione’ del lavoro di traduzione in Italia non vi sono attualmente dati sistematici, essendo le indagini dedicate all’argomento proliferate nell’ambito degli studi sull’editoria soltanto di recente, in particolare sulla scia dei Traslation Studies (si veda per esempio Venuti 2005, Cunico e Munday 2007), e focalizzandosi i contributi prevalentemente sulle mediatrici culturali più rinomate (Finocchi e Marchetti 1997, Brigatti et al 2018).

Un termine a quo dell’ipotetico processo di regendering che investe il settore nel Paese e che giunge fino a oggi è stato ciononostante pressoché stabilito. Già tra il XIX e il XX secolo numerose intellettuali italiane intraprendono invero la professione di traduttrici, ma è verosimilmente negli anni Trenta che le donne conseguono, all’interno di un ramo decisamente nascosto della nascente industria editoriale, «uno spazio» più «squisitamente femminile»:

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A un decennio dalla pubblicazione del Dizionario degli Studi Culturali,[1] il convegno internazionale Studi culturali in Italia. Reloaded. Dieci anni di ricerca a Palermo 2003-2013 (Palermo, 24-27 febbraio 2014) ha messo a confronto prospettive e temi che animano oggi il dibattito sui Cultural Studies nel nostro Paese. Uno sforzo ancora oggi problematico, dato che la fluidità e l’ampiezza degli oggetti di studio non si prestano a una mappatura agevole ed esaustiva. Dieci anni fa il Dizionario rappresentava il tentativo di scrivere una cartografia provvisoria degli Studi Culturali che, a fronte di una consolidata tradizione di area anglosassone e tedesca, stentavano a penetrare tra gli steccati della rigida differenziazione disciplinare dell’accademia italiana. In questo senso, il Dizionario e il lavoro di ricerca coordinato da Michele Cometa (Università di Palermo) hanno avuto il merito non solo di tradurre in italiano – meglio sarebbe dire transitare verso l’Italia – il lessico e gli oggetti di studio dei Cultural Studies e della Kulturwissenschaft (ad esempio il Border crossing o i Jewish Studies), ma di creare un paradigma culturalista italiano in grado di utilizzare strumenti nuovi e di costruire voci nuove. Si pensi a questo proposito alla cultura materiale e alla microstoria, le quali hanno spinto verso un’analisi che privilegi il frammento e il fatto singolo rispetto a una visione generale e univoca della storia. O, d’altra parte, si pensi alle ricerche semiotiche che hanno preso in esame prodotti mediali (fotografie, pubblicità, trailer, telegiornali), spazi urbani, artefatti e immagini considerandoli come testi e studiandone i modi di funzionamento, le strategie di costruzione, le trasformazioni interne e le procedure di traduzione in testi ulteriori.[2]

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