Preferisco il cinema.

[…]

Preferisco in amore gli anniversari non tondi,

da festeggiare ogni giorno.

[…]

Preferisco il tempo degli insetti a quello siderale.

W. SzymborskÄ…, Possibilità, 1986

 

1. Uno sguardo d’insieme

Sono trascorsi, d’un soffio, dieci anni dal primo pionieristico (ma timido) convegno su ‘Cinema e donne’ organizzato all’Università di Sassari: correva l’anno 2011 e il seme di quella rete di relazioni e di studi che oggi chiamiamo FAScinA era stato gettato, con la leggerezza, l’ingenua baldanza e la cura che caratterizzano i moti del desiderio. Da quel primigenio incontro sono scaturiti, negli anni successivi, progetti di ricerca, saggi su riviste e volumi, workshop e giornate di studio disseminate in molti Atenei italiani; e soprattutto da quel lontano confronto ha preso avvio il fitto network di ricerca che tiene insieme numerosissime studiose interessate a indagare il panorama del cinema e degli audiovisivi tenendo conto dei saperi, delle storie, delle soggettività e dei talenti delle donne. Tuttavia, dieci anni fa, a fronte di un contesto internazionale già assiduamente attraversato e vivificato da questo approccio, lo scenario italiano sembrava ancora refrattario: il territorio sul quale ci affacciavamo appariva come una landa vasta, addirittura sterminata, promettente come un Campo Lungo dove via via compaiono le prime incerte figure di una avventura che va prendendo forma. Sentieri selvaggi, appunto.

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È il 1998 quando Marina Ballo Charmet, psicoterapeuta di professione e fotografa sin dagli anni Ottanta, presenta la sua prima videoinstallazione dal titolo Conversazione (installazione con 4/10 video su 4/10 monitor, 1' ciascuno in loop) [fig. 1]. Il luogo espositivo è lo Studio Marconi di Milano, spazio di ricerca sempre attento alle sperimentazioni anche in ambito multimediale: in una stanza sono disposti ad ellisse dieci monitor, i quali trasmettono close-up di corpi di altrettante persone, prevalentemente volti, colli, tempie. La traccia audio, invece, riproduce il suono del loro respiro: ci si aspetterebbe uno scambio, un dialogo tra i diversi soggetti, come vorrebbe il titolo – o, al massimo, una riflessione sull’impossibilità di esso, sull’incomunicabilità – invece, semplicemente, essi sostano, pazienti e sospesi.

Lo spettatore è immerso nella presentificazione di ciò che non è nulla di speciale, che non è nemmeno pensato, un processo automatico, ma che è tale, «esattamente così e niente di più» (Barthes 1980, p. 108). Si fa ‘presenza’, in altre parole, ciò che è percepito ma non visto, il «fuori campo» (Ballo Charmet 2013, pp. 81-96; 2019; Lissoni 2007, p. 110 e 113): «è come se la frangia, la piega, il vivere esperienze senza essere presenti attentamente, assumesse importanza, fosse necessario. “La cosa” esiste: ha una sua presenza e un suo senso. Il marginale, il latente, si rivelano sorprendenti» (Ballo Charmet 2017, p. 57).

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Summer, ultimo romanzo della scrittrice scozzese Ali Smith, pubblicato nel 2020 e uscito nell’estate del 2021 anche in traduzione italiana per i tipi di SUR, chiude il quartetto romanzesco Seasonal, in cui l’autrice ha cercato di indagare l’iper – o ultra – contemporaneo, tuttavia avvalendosi, in ogni volume, della mediazione intermediale di un’artista del Novecento. Questa operazione, che potremmo definire quasi ‘curatoriale’ nell’intento di predisporre un canone artistico alternativo per la storia delle arti visive del Novecento, ha consentito di portare di fronte a un pubblico più ampio di lettrici e lettori figure che, al momento, si trovano ancora per lo più confinate nell’avanguardia e nello sperimentale, categorie ermeneutiche di per sé estremamente fruttifere, ma purtroppo ancora relegate in una posizione marginale all’interno del dibattito critico e accademico. Se in Autumn (2016), romanzo inaugurale dell’esperimento narrativo di Smith, era stata Pauline Boty, pittrice della Pop Art inglese e attrice cinematografica, a essere fatta oggetto di riscoperta, i successivi Winter (2017) e Spring (2019) includono riferimenti intermediali a Barbara Hepworth, forse la più importante scultrice inglese nella storia dell’arte, e Tacita Dean, artista poliedrica nota soprattutto per i film sperimentali in 16mm.

Con Summer Ali Smith chiude non solo il quartetto narrativo legato a questioni attuali quali la Brexit, i migranti, il cambiamento climatico, la pandemia, ma anche questa delicata operazione di mediazione culturale al femminile con una figura particolarmente interessante per riflettere su una serie di elementi che riguardano lo studio delle donne nelle arti e nell’audiovisivo. Per Summer, infatti, Smith ha scelto di gettare luce su Lorenza Mazzetti, cineasta e scrittrice italiana emigrata a Londra ancora giovanissima e tra le principali animatrici del Free Cinema inglese, un movimento sorto negli anni Cinquanta a partire dalla collaborazione della filmmaker con Lindsay Anderson, Karel Reisz e Tony Richardson, firmatari con lei di quello che sarebbe diventato il Manifesto del Free Cinema Movement, che recita così:

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Nonostante l’abbandono della pratica fotografica agli inizi degli anni Ottanta, è indubbio che Lisetta Carmi abbia assunto una certa centralità nella storia della fotografia italiana. Negli anni Duemila, dopo una lunga dimenticanza, le sue opere sono diventate oggetto di grande attenzione e sono state esposte in mostre personali e collettive. Nel 2010 il regista Daniele Segre ha dedicato alla sua figura di artista il film documentario Lisetta Carmi, un’anima in cammino, presentato con grande successo alla Mostra del Cinema di Venezia dello stesso anno. Poi hanno assunto sempre maggior rilievo le esposizioni come quella a Palazzo Ducale di Genova (città in cui è nata nel 1924) del 2015, al Museo di Roma in Trastevere nel 2017, al MAN di Nuoro nel 2017, fino all’ultima mostra intitolata Gli altri, sviluppata attraverso due tappe al Castello Carlo V di Lecce e al Museo Osvaldo Licini di Ascoli nel 2021.

Alla luce di questo grande successo, con sguardo retrospettivo, oggi possiamo provare a leggere la funzione assunta dal lavoro della fotografa nel più ampio sistema dell’industria culturale italiana di ieri e di oggi, distinguendo la necessaria azione destabilizzante che le sue fotografie provocarono allora dal valore storiografico di cui si caricano attraverso le mostre e gli studi a loro dedicati in questi ultimi anni.

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Una delle frasi conclusive del primo manifesto di Rivolta femminile redatto nel luglio 1970 – «Vogliamo essere all’altezza di un universo senza risposte» (Lonzi 1974, p. 18) – è all’origine dell’unico autoritratto realizzato da Silvia Giambrone, esposto a Villa Medici nel 2010 con il titolo Autoritratto (Io nel settembre 2009 all’altezza di un universo senza risposte) [fig. 1]. Su una serie di nove fogli di acetato trasferibili contenenti le lettere dell’alfabeto, scelti tra quelli in uso una volta nella grafica e nel disegno industriale, Giambrone cancella le singole lettere che compongono il titolo dell’opera in modo che la scrittura proceda attraverso un processo di sottrazione. «Il lavoro di Carla Lonzi» – spiega l’artista in conversazione con Nina Power – «è stato tanto importante da ispirare l’unico autoritratto che io abbia mai fatto […]. Allora mi ero resa conto che per realizzare un autoritratto, dovevo correre il rischio di sottrarmi ai codici linguistici» (Giambrone-Power 2016, p. 45).

L’autoritratto di Giambrone, come ha chiarito Giovanna Zapperi, rimanda all’urgenza di rendere visibile ciò che è assente o è stato rimosso (Zapperi 2017, p. 247) e si ricollega a un’altra affermazione lonziana tratta da Sputiamo su Hegel – «Noi siamo il passato oscuro del mondo» (Lonzi 1974, p. 61) – usata dall’artista come titolo di un secondo lavoro di matrice linguistico-concettuale realizzato anch’esso nel 2010. La centralità del pensiero di Lonzi nel percorso di Giambrone è un aspetto su cui la critica si è soffermata in più occasioni e sul quale, come appena visto, anche l’artista si è espressa (Giambrone-Iamurri 2013; Giambrone-Power 2016). Resta invece da chiarire come l’interesse per gli scritti di Lonzi e l’aperta adesione alle istanze neofemministe stiano in relazione con un altro aspetto altrettanto importante ma meno esplorato del suo lavoro, che riguarda il rapporto con l’Arte povera: la ripresa dei testi femministi lonziani, nell’opera di Giambrone va infatti di pari passo con la rivisitazione di iconografie desunte dalle opere di artisti come Alighiero Boetti, Jannis Kounellis e Giuseppe Penone, e che talora viene espressa sotto forma di citazione. Per spiegare le ragioni del fenomeno è utile riprendere il concetto di «double allegiance» coniato in ambito letterario da Susan Rubin Suleiman nel volume Subversive Intent. Gender, Politics, and the Avant-Garde (1990), poi esteso dalla studiosa al campo delle arti visive per interpretare lo speciale rapporto che lega le opere di Cindy Sherman e Francesca Woodman a quelle dei loro predecessori surrealisti Hans Bellmer e René Magritte (Suleiman 1998, pp. 128-154). Suleiman propone un modello di lettura dialogico, riassumibile nell’espressione «yes, but», secondo il quale nelle opere di Woodman e Sherman il confronto con i precursori non implicherebbe né l’accettazione passiva della tradizione, né la distruzione del canone, ma un dialogo serrato che consentirebbe loro di saldare la sperimentazione formale e culturale dell’arte d’avanguardia con la critica alle ideologie dominanti formulata dalla teoria femminista.

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Fotografa, pittrice, disegnatrice, animatrice, sperimentatrice indipendente, anima libera, visionaria, poeta dell’immagine. Ursula Ferrara potrebbe essere definita in molti modi, sia pensando alla produzione creativa che ha sviluppato negli anni, sia guardando alla sua metodologia di lavoro dove indipendenza, tenacia, rigore e pazienza si uniscono a un’attitudine onnivora verso l’impiego di tecniche e linguaggi diversi. Nata nel 1961 a Pisa, ha frequentato l’Istituto d’Arte di Porta Romana a Firenze, dove ha potuto studiare grafica pubblicitaria e fotografia, nonché approfondire varie tecniche artistiche, dal disegno all’incisione, dalla litografia all’acquerello e alla tempera a olio. Il suo è un percorso di crescita artistica che parte da una base genetica peculiare: dal padre geologo Ferrara eredita la passione per la fotografia, ed è proprio lui a regalarle la prima macchina fotografica. Giovanissima inizia a scattare, a sviluppare, a stampare, intraprendendo un percorso sperimentale che porta avanti insieme al disegno. Ed è qui che vibra l’altra componente genetica, quella materna: figlia dell’eclettica pittrice e scultrice Milena Moriani, Ursula riceve da lei non solo il dono dell’abilità grafica e pittorica, ma ne eredita la capacità visionaria e il coraggio per la sperimentazione libera, componenti essenziali per la costruzione di mondi poetici dove l’elemento memoriale e il vissuto intimo si fondono con la dimensione immaginaria più creativa.

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Giuliana Cunéaz (Aosta, 1959) è un’artista del tutto originale nel panorama delle arti elettroniche e digitali (viene definita media artist) italiane. Il nucleo forte del suo lavoro è caratterizzato dal dialogo e dal confronto con la scienza, intesa sia come apporto di riflessioni e cambiamento dei paradigmi del nostro pensare, sia – e forse soprattutto – come inarrestabile bellezza e suggestione evocativa delle immagini scientifiche, rivisitate e ricreate grazie alle ultime tecnologie digitali, fino al 3D e al virtuale. Definirla media artist è riduttivo, in quanto il suo lavoro – dagli esordi nei primi anni Ottanta – prende le mosse da studi artistici (Accademia di Belle Arti di Torino) ed è segnato dalla commistione di nuove tecnologie e di oggetti e di materiali che esulano da quest’ambito: la luce, innanzitutto (in dialogo con l’ombra), ma anche pietra, polvere dorata, carta, marmo, ferro, coni riflettenti. Questo dialogo si esprime in alcune opere anche attraverso un più ampio richiamo a figure e a temi del passato, che affiorano dal mito e dalla leggenda. Ad esempio, nell’installazione Il silenzio delle fate (1990). Qui, mi scrive Giuliana Cunéaz, «affronto, attraverso lo studio delle leggende legate al territorio della Valle d'Aosta, la natura misteriosa e inquietante di queste creature femminili (spesso capricciose, vanitose e irascibili) in relazione al nostro immaginario e ai luoghi. Le fate, figure sempre in bilico tra l’immateriale e l’umano, sono indubbiamente emanazioni della natura. È interessante notare, (sempre attraverso le leggende) come dietro alla bellezza e al fascino spesso nascondono una deformità (piede caprino o coda d’asino) che cercano di mascherare. Un altro aspetto è l’innamoramento verso un essere umano che generalmente poi le abbandona lasciandole nella disperazione o anche come possano partorire solo orchi che cercano di sostituire con bimbi rapendoli in fasce nelle culle...» (Cunéaz 2021).

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Non c’è sperimentalismo nella poesia, c’è

sperimentalismo nella vita, c’è

sperimentalismo finché si fa una ricerca di se

stessi nell’esperienza.

Amelia Rosselli

 

Amelia Rosselli nasce nel 1930 a Parigi, dove i genitori, Marion Cave e Carlo Rosselli, si erano rifugiati dopo il confino a Lipari del padre. La sua infanzia è segnata da numerosi viaggi e trasferimenti, un nomadismo esistenziale forzato dalle contingenze storiche e dall’antifascismo della famiglia. Fuggiasca, profuga, orfana e straniera (Barile 2014, p. 131), la sua è una «formazione non italiana, anglo-francese-americana», come la definisce lei stessa durante l’intervista rilasciata a Renato Minore nel 1984 (Rosselli in Venturini e De March 2010, p. 65), interdisciplinare, e destinata a essere cosmopolita.

«Mi misi ad un certo punto della mia adolescenza a cercare le forme universali», così scrive Amelia in Spazi Metrici (1962), saggio teorico sulla metrica sollecitatole da Pier Paolo Pasolini e pubblicato in coda a Variazioni Belliche nel 1964. La redazione di questo saggio mette in gioco l’ampio patrimonio culturale e di studi da lei coltivato negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento (Carpita 2013), e che spazia dalla letteratura all’etnomusicologia, dalla pittura astratta (in particolare Mondrian) alla psicologia della Gestalt e la filosofia orientale. Sono anni decisivi, questi, anche per le sperimentazioni a cavallo fra le arti esercitate dalla giovane Rosselli che, in quel periodo, alla teoria e alla pratica musicale affianca la scrittura a le arti visive: pittura, fotografia e ripresa cinematografica si rivelano esperienze estetiche determinanti per la stesura di Spazi Metrici, e permeano tutta la sua opera. Una modernissima «avanguardia personale» (Paris 2020, p. 129), ai margini, ma tutt’altro che marginale, della letteratura.

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La cineasta pugliese Cecilia Mangini è stata una figura emblematica nel panorama italiano del cinema delle donne. Prima documentarista in Italia, la regista ha perseguito il suo impegno politico attraverso un percorso individuale e indipendente, occupando allo stesso tempo un ruolo centrale nel cinema militante italiano. Per un ritratto che ne offra una visione onnicomprensiva rimandiamo all’articolo di Angela Bianca Saponari apparso su questa rivista (Saponari 2020). In questo nostro breve saggio, invece, intendiamo descrivere due film di Mangini nel panorama di una riflessione e di una ricerca analitica e creativa che ne fa l’interprete di un’idea di film documentario nata nel rigore formale dell’estetica cinematografica.

L’esperienza di Mangini è esemplare negli orizzonti del rapporto fra ricerca formale e studi sul film, in particolare considerando gli esordi, in cui la militanza critica sposa la riflessione teorica. Negli anni Cinquanta inizia la sua attività di fotografa, rinunciando alla fotografia di posa in favore di quella di strada, più vicina alla sua vocazione. Comincia dunque pubblicando i suoi scatti su riviste come «Il Punto», «Cinema Nuovo» e «L’Eco del cinema». La collaborazione con i periodici non si limita alle fotografie, ma investe anche la critica: se nel 1955 aveva già scritto un illuminante articolo intitolato Neorealismo e marxismo, già esplicito nella matrice ideologica della regista; nel 1957, con False interpretazioni del realismo, risponde a una polemica iniziata da Renzo Renzi su «Cinema Nuovo», confronto arricchito dall’alternarsi delle firme di Luigi Chiarini, Callisto Cosulich, Paolo Gobetti, Massimo Mida, Riccardo Redi e Giovanni Vento. Il tema è il complesso rapporto fra cinema italiano e cinema sovietico, questione su cui Mangini riflette rispondendo che «Il rapporto tra autonomia e disciplina sarà cioè impostato in senso tanto più dialettico – e quindi meno tattico – quanto più liberamente e a proprio agio gli intellettuali sapranno muoversi sul terreno dell’ideologia» (Mangini 1957, p. 9). La lezione estetica e ideologica dei sovietici investe diversi piani della sua sensibilità artistica: il taglio dialettico della riflessione teorica e la sua stessa estetica filmica rimandano a una concezione moderna dell’apparato cinematografico, «basata sulla convinzione di un rapporto fertile tra immagini e “reale”» (Missero 2016, p. 55). Nel raccontare la vita quotidiana del proletariato urbano ed emarginato, il suo cinema s’inscrive nella tradizione del dispositivo come strumento di protesta, denunciando gli aspetti controversi della modernizzazione industriale postbellica. Il pensiero gramsciano, di grande ispirazione per la sua esperienza di regia, è alla base di un duplice scopo, politico e formale: entrambi convergono nella composizione delle strutture che descrivono l’oppressione egemonica e nella configurazione degli individui appartenenti alle classi sociali subalterne come agenti del cambiamento sociale.

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