La cineasta pugliese Cecilia Mangini è stata una figura emblematica nel panorama italiano del cinema delle donne. Prima documentarista in Italia, la regista ha perseguito il suo impegno politico attraverso un percorso individuale e indipendente, occupando allo stesso tempo un ruolo centrale nel cinema militante italiano. Per un ritratto che ne offra una visione onnicomprensiva rimandiamo all’articolo di Angela Bianca Saponari apparso su questa rivista (Saponari 2020). In questo nostro breve saggio, invece, intendiamo descrivere due film di Mangini nel panorama di una riflessione e di una ricerca analitica e creativa che ne fa l’interprete di un’idea di film documentario nata nel rigore formale dell’estetica cinematografica.

L’esperienza di Mangini è esemplare negli orizzonti del rapporto fra ricerca formale e studi sul film, in particolare considerando gli esordi, in cui la militanza critica sposa la riflessione teorica. Negli anni Cinquanta inizia la sua attività di fotografa, rinunciando alla fotografia di posa in favore di quella di strada, più vicina alla sua vocazione. Comincia dunque pubblicando i suoi scatti su riviste come «Il Punto», «Cinema Nuovo» e «L’Eco del cinema». La collaborazione con i periodici non si limita alle fotografie, ma investe anche la critica: se nel 1955 aveva già scritto un illuminante articolo intitolato Neorealismo e marxismo, già esplicito nella matrice ideologica della regista; nel 1957, con False interpretazioni del realismo, risponde a una polemica iniziata da Renzo Renzi su «Cinema Nuovo», confronto arricchito dall’alternarsi delle firme di Luigi Chiarini, Callisto Cosulich, Paolo Gobetti, Massimo Mida, Riccardo Redi e Giovanni Vento. Il tema è il complesso rapporto fra cinema italiano e cinema sovietico, questione su cui Mangini riflette rispondendo che «Il rapporto tra autonomia e disciplina sarà cioè impostato in senso tanto più dialettico – e quindi meno tattico – quanto più liberamente e a proprio agio gli intellettuali sapranno muoversi sul terreno dell’ideologia» (Mangini 1957, p. 9). La lezione estetica e ideologica dei sovietici investe diversi piani della sua sensibilità artistica: il taglio dialettico della riflessione teorica e la sua stessa estetica filmica rimandano a una concezione moderna dell’apparato cinematografico, «basata sulla convinzione di un rapporto fertile tra immagini e “reale”» (Missero 2016, p. 55). Nel raccontare la vita quotidiana del proletariato urbano ed emarginato, il suo cinema s’inscrive nella tradizione del dispositivo come strumento di protesta, denunciando gli aspetti controversi della modernizzazione industriale postbellica. Il pensiero gramsciano, di grande ispirazione per la sua esperienza di regia, è alla base di un duplice scopo, politico e formale: entrambi convergono nella composizione delle strutture che descrivono l’oppressione egemonica e nella configurazione degli individui appartenenti alle classi sociali subalterne come agenti del cambiamento sociale.

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