4.1. Schermo, linea, superficie. Cecilia Mangini e l’astrazione analitica*

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La cineasta pugliese Cecilia Mangini è stata una figura emblematica nel panorama italiano del cinema delle donne. Prima documentarista in Italia, la regista ha perseguito il suo impegno politico attraverso un percorso individuale e indipendente, occupando allo stesso tempo un ruolo centrale nel cinema militante italiano. Per un ritratto che ne offra una visione onnicomprensiva rimandiamo all’articolo di Angela Bianca Saponari apparso su questa rivista (Saponari 2020). In questo nostro breve saggio, invece, intendiamo descrivere due film di Mangini nel panorama di una riflessione e di una ricerca analitica e creativa che ne fa l’interprete di un’idea di film documentario nata nel rigore formale dell’estetica cinematografica.

L’esperienza di Mangini è esemplare negli orizzonti del rapporto fra ricerca formale e studi sul film, in particolare considerando gli esordi, in cui la militanza critica sposa la riflessione teorica. Negli anni Cinquanta inizia la sua attività di fotografa, rinunciando alla fotografia di posa in favore di quella di strada, più vicina alla sua vocazione. Comincia dunque pubblicando i suoi scatti su riviste come «Il Punto», «Cinema Nuovo» e «L’Eco del cinema». La collaborazione con i periodici non si limita alle fotografie, ma investe anche la critica: se nel 1955 aveva già scritto un illuminante articolo intitolato Neorealismo e marxismo, già esplicito nella matrice ideologica della regista; nel 1957, con False interpretazioni del realismo, risponde a una polemica iniziata da Renzo Renzi su «Cinema Nuovo», confronto arricchito dall’alternarsi delle firme di Luigi Chiarini, Callisto Cosulich, Paolo Gobetti, Massimo Mida, Riccardo Redi e Giovanni Vento. Il tema è il complesso rapporto fra cinema italiano e cinema sovietico, questione su cui Mangini riflette rispondendo che «Il rapporto tra autonomia e disciplina sarà cioè impostato in senso tanto più dialettico – e quindi meno tattico – quanto più liberamente e a proprio agio gli intellettuali sapranno muoversi sul terreno dell’ideologia» (Mangini 1957, p. 9). La lezione estetica e ideologica dei sovietici investe diversi piani della sua sensibilità artistica: il taglio dialettico della riflessione teorica e la sua stessa estetica filmica rimandano a una concezione moderna dell’apparato cinematografico, «basata sulla convinzione di un rapporto fertile tra immagini e “reale”» (Missero 2016, p. 55). Nel raccontare la vita quotidiana del proletariato urbano ed emarginato, il suo cinema s’inscrive nella tradizione del dispositivo come strumento di protesta, denunciando gli aspetti controversi della modernizzazione industriale postbellica. Il pensiero gramsciano, di grande ispirazione per la sua esperienza di regia, è alla base di un duplice scopo, politico e formale: entrambi convergono nella composizione delle strutture che descrivono l’oppressione egemonica e nella configurazione degli individui appartenenti alle classi sociali subalterne come agenti del cambiamento sociale.

 

1. Dialettica marxista e sintesi delle forme: Ignoti alla città

Legata a Pier Paolo Pasolini da sodalizio artistico, Mangini si ispira al romanzo Ragazzi di vita (1955) per la sua prima pellicola: Ignoti alla città (1958), racconto della marginalizzazione sociale dei ragazzi di borgata. L’esordio di Mangini alla regia è dunque un ritratto di Roma molto distante dalla precettistica convenzionale del cinema non-fiction, che, grazie a un apparato legislativo volto al sostegno pubblico delle produzioni cinematografiche, negli anni Cinquanta promuove la ricostruzione postbellica dietro finanziamenti statali e internazionali in linea con le politiche istituzionali. Sebbene anche in Ignoti alla città ritroviamo l’uso della pellicola Ferraniacolor (impiegata anche nei documentari sponsorizzati) e della voce fuori campo dagli accenti elegiaci, qui il colore delle immagini stride con la desolazione della squallida periferia, lontana dalla speranza di una società fiduciosa nel futuro. La composizione variopinta delle immagini degli interni [fig. 1], che passa poi a mostrare gli spazi ampi e le discariche in cui i ragazzi di periferia trascorrono le loro giornate [fig. 2], segue un pattern dal rigoroso equilibrio cromatico. Mentre il film esplora la vita dei giovani nelle borgate romane, tra lavoretti saltuari e piccoli furti, tra lo sport e le sigarette condivise, la voce fuori campo di Pino Locchi sul testo scritto da Pasolini commenta gli episodi astraendone il contenuto in una raffinata analisi dialettica. Nel documento di presentazione alla revisione cinematografica il soggetto fa riferimento ai ‘bulli’, giovani indolenti la cui gioiosa vitalità (fatta di lotte nel fango, bagni nel fiume, giochi vari per le strade) vede le proprie ali tarpate da un contesto miserabile; il film è stato poi censurato perché «offensivo alla reputazione e al decoro nazionale e perché presenta scene di reati commessi da minori senza alcuna riprovazione dei fatti stessi (furto nella edicola dei giornali)».[1] Da questo documento conosciamo anche la lunghezza della bobina che è stata autorizzata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri: 330 metri.

Con Ignoti alla città le strutture più tipiche della narrazione documentaria prodotta in quegli anni vengono sovvertite e impiegate in un’autenticità fresca, non retorica. Mangini coniuga ricerca formale e dimensione ideologica, in continuità con la lezione del cinema sovietico.

 

2. Tessitura iconica e rigore acceso: Stendalì

Sperimentatrice fino all’ultimo dei suoi giorni, Cecilia Mangini ha fatto della ricerca formale sul linguaggio cinematografico un prezioso dispositivo di indagine sull’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, nonché un «veicolo di informazione e partecipazione politica e civile» (Domini 2016, p. 16). I possibili risvolti ideologici che emergono dalla tessitura delle forme le consentono di accedere a inaspettate epifanie di senso sul contesto storico-politico del momento, con uno speciale focus sul «riconoscimento della specificità della questione femminile» (Saponari 2020). La cineasta originaria di Mola di Bari mostra di avere una profonda cognizione degli strumenti del cinema, una coscienza di mestiere accesamente artigianale, che le servirà per afferrare gli ultimi respiri vitali di un universo femminile sulla soglia dell’oblio. Prima di Essere donne (1965), coraggioso e discusso scandaglio delle significative, e fino ad allora sconosciute, problematiche legate al lavoro muliebre negli anni del miracolo economico, con Stendalì – Suonano ancora (1960) la regista pugliese punta l’obiettivo su un arcaico e misterioso rito funebre di matrice greca celebrato in un paesino della provincia barese. Il rigore della composizione e dell’assemblaggio delle immagini conduce il film verso una diminutio astrattiva per mezzo della quale le cose e i gesti, collocati in una precisa struttura, rivelano «la forza e la profondità espressiva» (Kandinskij 1925, p.18) di un sistema, etico ed estetico, dove tutto ha una precisa funzione. Al Sud la dimensione del lutto ha rappresentato per secoli uno dei pochi terreni in cui il soggetto femminile ha (ri)creato significato per comunità traumatizzate dalla perdita: i gesti studiati delle lamentatrici funebri, le stereotipie ossessive e lo scrupoloso rispetto di un copione millenario hanno fatto del corpo di queste donne un nodo di passaggio tra ciò che ‘è stato’ e ‘ciò che è’. Il lavoro di Ernesto De Martino al quale, d’altronde, Stendalì guarda come orizzonte d’ispirazione (Bertozzi 2008, pp. 146-150), ha ampiamente indagato il tarantismo, pratica magico-religiosa attraverso la quale in passato donne colpite da accessi isterico-compulsivi, nella tradizione imputabili al morso del ragno (la taranta), diventavano strumento per ricomporre antichi equilibri sociali e contingenti crisi personali.

Con uno scatto in direzione di un’estrema linearità della struttura del quadro, nonché verso il rigore del montaggio, Mangini volge Stendalì all’astrazione, strumento di analisi dello sguardo che rende ‘quel’ corpo femminile un ganglio simbolico, necessario punto di passaggio tra passato e presente. Il contesto del rito funebre, tutto concentrato negli interni di una casa contadina, è rappresentato attraverso dettagli e inquadrature severi nella forma, ma pressanti nel ritmo della successione. L’affastellarsi controllato delle scene è amplificato dal commento recitato da Lilla Brignone su scrittura di Pier Paolo Pasolini.

Stendalì rende più tangibile che mai la materia cinematografica, eleggendo il cinema documentario ad apparato di ristrutturazione del tempo, dello spazio e degli uomini (Sciannameo 2010, pp. 69-98). Il primo strumento del percorso di riorganizzazione è il montaggio, per il quale la regista segue in maniera originale la lezione di Ejzenštejn. In questo fiammante e preciso sistema, l’assemblaggio riflette la cadenza del canto funebre, mentre la composizione interna degli scatti si riduce a una rete di linee essenziali pregne della prospettiva estetica dell’insieme. Mangini sceglie per lo più inquadrature ravvicinate, preferendo i primi piani e i dettagli. In questo modo, per effetto di contrasto, il culmine visivo della storia, il letto di morte inquadrato dall’alto e schiacciato sul fondo [fig. 3], assume la veste di un’apertura verso una dolorosa verità, cruda ma imprescindibile. Il virtuosismo manieristico di alcune angolazioni delle riprese è conseguenza di un estremo rigore costruttivo, che supera persino i limiti tecnici, visti da Mangini quale occasione per accentuare la «cura per la composizione dell’immagine» (Sciannameo 2020, p. 9). In questa disciplinata struttura compositiva la catarsi del dolore è espressa con due inquadrature quasi perfettamente sovrapponibili: la prima è la già citata plongée sul corpo esanime circondato dalle donne piangenti; la seconda è un totale dello stesso cerchio di lamentatrici che però, ora, sono immerse nel silenzio [fig. 4]. Al centro del quadro, infatti, spicca un vuoto che sa di quiete e nuovi inizi. I movimenti concitati delle piangenti si esauriscono lentamente in impercettibili dondolii di teste ammantate di neri panni. La superficie dello schermo, appiattita dalla simmetria della scena, restituisce con l’immediatezza iconica delle composizioni geometriche la forza espressiva di un mondo che muore e nasce attraverso il corpo femminile.

 

Bibliografia

M. Bertozzi, Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell’altro cinema, Venezia, Marsilio, 2008.

M. Cinquegrani, ‘Tra arcaismo e modernità. Il cinema documentario di Cecilia Mangini’, in S. Parigi, C. Uva, V. Zagarrio (a cura di), Cinema e identità italiana. Cultura visuale e immaginario nazionale fra tradizione e contemporaneità, Roma, RomaTre Press, 2019, pp. 293-302.

E. de Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento antico al pianto di Maria, Torino, Bollati Boringhieri, 2008.

L. Di Girolamo, ‘Alchimia tecnica, identità e memoria: Due scatole dimenticate di Mangini e Pisanelli’, Fata Morgana, n. 42, 2020, pp. 221-227.

C. Domini, ‘Essere fotografe’, in C. Domini, P. Pisanelli (a cura di), Cecilia Mangini. Visioni e passioni. Fotografie 1952-1965, Errata corrige & Big Sur, 2016, pp. 28-32.

M. Grasso, Stendalì. Canti e immagini della morte nella Grecia salentina, Calimera, Kurumuny, 2005.

V. V. Kandinskij, Punto, linea, superficie [1925], in Ph. Sers (a cura di), Tutti gli scritti, vol. I, Milano, Feltrinelli, 1989.

C. Mangini, ‘False interpretazioni del realismo’, Cinema Nuovo, VI, 112, 15 agosto 1957, p. 84.

C. Mangini, ‘Neorealismo e marxismo’, Cinema Nuovo, IV, 68, 10 ottobre 1955, pp. 265-267.

D. Missero, ‘A Counterhegemonic Experience of Cinema’, Feminist Media Histories, vol. 2, n. 3, 2016, pp. 54-72.

F. Rossin, ‘Incontro con Cecilia Mangini’, in G. Morano (a cura di), NodoDoc3. Festival nazionale del documentario. 6-11 maggio 2009, Trieste, Artgroup, 2009, pp. 81-94.

A. M. Saponari, ‘Autonomia autoriale e riconoscibilità pubblica di una documentarista ritrovata: Cecilia Mangini oltre Lino del Frà’, in L. Cardone, E. Marcheschi, G. Simi (a cura di), ‘Sperimentali. Cinema videoarte e nuovi media’, Arabeschi, n. 16, luglio-dicembre 2020, [accessed 01 September 2021].

G. Sciannameo, ‘Quello che ho imparato’, Mondo Niovo, 105 [numero monografico su Cecilia Mangini], novembre 2020, pp. 4-9.

G. Sciannameo, Con ostinata passione. Il cinema documentario di Cecilia Mangini, Bari, Edizioni del Sud, 2010.


1 Dal documento di nulla osta alla censura disponibile online sul database Italiataglia al seguente link: <http://www.italiataglia.it/files/visti21000_wm_pdf/27057.pdf> [accessed 20 September 2021].

* Questo saggio è il frutto, per quanto riguarda l’intero contenuto, della collaborazione tra le due autrici; dovendo però selezionare i rispettivi contributi, il primo paragrafo (Dialettica marxista e sintesi delle forme: Ignoti alla città) è stato scritto da Rossella Catanese, mentre il secondo paragrafo (Tessitura iconica e rigore acceso: Stendalì) è stato scritto da Lucia Di Girolamo.