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Il testo teatrale La voix humaine (1930) di Jean Cocteau è un atto unico con un solo personaggio femminile parlante al telefono rinchiusa tra le pareti domestiche. L’opera è un monologo disperato di una donna che parla con l’uomo che la sta abbandonando, ovvero un dialogo simulato in cui il pubblico partendo dalle parole di lei deve immaginare le parole e l’essenza di lui. Il testo è stato ed è ancora oggi uno degli spettacoli più rappresentati e più volte oggetto di riscrittura e adattamento. Nell’introduzione Cocteau definisce il progetto come risposta alle lamentele da parte delle attrici che le sue opere erano troppo dominate dallo scrittore/regista, non lasciando spazio per dimostrare la capacità artistica di chi recita. Col passare degli anni è diventato praticamente un manuale di recitazione, la grande prova attoriale per tante grandi interpreti che volevano dimostrare la propria bravura tramite le tante sfumature offerte da un testo puntato sugli aspetti dolorosi dell’amore. In questo saggio prendo in considerazione tre adattamenti cinematografici di La voix humaine che mettono alla prova tre grandissime attrici, partendo dal film di Rossellini con Anna Magnani, passando dall’adattamento di Edoardo Ponti con la madre Sophia Loren, fino ad arrivare alla versione recentissima di Almodovar con Tilda Swinton. In modi diversi e sovversivi, le trasposizioni cinematografiche indagano e sfruttano l’originale, amplificano il tempo e lo spazio spoglio di Cocteau, focalizzando sulla complessità dell’autorappresentazione della protagonista e del suo rapporto con gli oggetti e con gli spazi domestici in cui vive: spazi di sofferenza e assenza ma anche di agency e dignità.

Jean Cocteau’s theatrical text La voix humaine (1930) is a one-act play featuring a sole female character speaking on the phone trapped within the confines of the domestic space. The work is a monologue or more precisely a simulated dialogue of a desperate woman speaking with her lover who is leaving her. From her words, the audience is meant to imagine the words and the essence of the man. Still today the text is a widely staged work, often rewritten and adapted for the stage and screen. In the introduction, Cocteau defines the project as a response to actresses’ complaints that his works were all too often dominated by the writer/director leaving little space for the display of the artistry of the actress. With the passage of time, the text has become practically a manual for acting, a great challenge for actresses who wanted to demonstrate their versatility thanks to the many nuances offered by a text focused on the painful aspects of love. In this essay, I look at three cinematic adaptations of La voix humaine that put three great actresses to the test: Rossellini’s early version featuring Anna Magnani, Edoardo Ponti’s version featuring his mother Sophia Loren, and most recently Pedro Almodovar’s version starring Tilda Swinton. In distinctive and subversive ways, the adaptations explore and exploit the original, expanding the time and space of Cocteau’s text and focusing on the complexity of the self-representation of the protagonist and of her relationship with the objects and the domestic space that she inhabits: spaces of sufferance and absence but also of agency and dignity.

Nell’introduzione al suo testo teatrale La voix humaine (1930), Jean Cocteau definisce il progetto come una risposta alle lamentele da parte di quelle attrici che lo avevano accusato di far risaltare, nelle sue opere, più la voce dello scrittore/regista che non la capacità artistica di chi recita. Il testo di Cocteau nasce quindi come un esperimento a partire da alcuni elementi basilari: è un atto unico, c’è un solo personaggio femminile in una camera da letto spoglia in cui spicca l’accessorio di ogni dramma moderno, il telefono, un’invenzione che ha cambiato definitivamente il modo di concepire e rappresentare le relazioni. Il monologo è un dialogo simulato in cui, tramite le parole della protagonista, dobbiamo immaginare le parole, le reazioni e il carattere di chi sta dall’altra parte della cornetta. Il dramma infatti consiste in una lunga telefonata, più volte interrotta, tra una donna che sta parlando al telefono – probabilmente per l’ultima volta – con l’uomo che la sta lasciando dopo un rapporto sentimentale durato cinque anni. Si tratta di uno spettacolo che è stato fatto più volte oggetto di riscrittura e adattamento, e col passare degli anni è diventato praticamente un manuale di recitazione per tante grandi attrici che volevano dimostrare la propria bravura a partire da un testo basato sugli aspetti dolorosi della fine di un amore.

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A partire dall’esordio cinematografico in Panic Room (Fincher, 2002), l’attrice losangelina Kristen Stewart (1990) è spesso stata chiamata a ricoprire ruoli la cui complessità emerge in maniera definita soprattutto nella relazione con lo spazio domestico – per lo più ostile o difficilmente pacificato – in cui si muovono. Enucleando alcune performance indicative (quelle dirette dal regista francese Olivier Assayas e quella nei panni della principessa Diana in Spencer di Larraín del 2021), il presente contributo vuole mettere in evidenza come il corpo di Stewart, nell’eterogeneità dei generi cinematografici e dei contesti produttivi, si riveli uno ‘strumento’ capace di restituire – tramite posture e gesti ricorsivi – le tensioni e i desideri che animano le sue protagoniste nel rapporto con l’ambiente domestico circostante.

Il 2 marzo 2022, l’attrice losangelina Kristen Stewart – classe 1990, quarantacinque pellicole all’attivo – viene premiata dalla Hollywood Critics Association nella categoria Best Actress per l’interpretazione da protagonista nel dramma biografico Spencer (Pablo Larraín, 2021). Scott Menzel ed Erik Anderson, tolti i sigilli dalla busta contenente il verdetto, annunciano all’unisono la vincitrice: «Kristen – fucking – Stewart». L’utilizzo dell’intercalare, che è certo comune nello slang informale, non è in questo caso praticato senza ragione: esso è speso come una sorta di ‘omaggio’ allo stile verbale di Stewart, attrice incline a pronunciare parolacce dentro e fuori lo schermo, star che sfugge all’immagine potenzialmente chic consegnata dai propri outfit Chanel – di cui è da anni brand ambassador – togliendosi gli scomodi tacchi per affrontare l’escalier di Cannes e sfidando l’assunto educativo secondo il quale le parolacce non stanno bene in bocca ai ragazzi, men che meno alle ragazze.

In effetti, tale atto verbale ha costituito il gesto inaugurale della performance con la quale Stewart ha firmato definitivamente il proprio ingresso nell’industria cinematografica hollywoodiana. L’attrice ha undici anni quando viene selezionata da David Fincher per interpretare la figlia preadolescente di Jodie Foster in Panic Room (2002), thriller nel quale la famiglia monoparentale formata da Sarah (Stewart) e Meg (Foster) è presa in ostaggio da tre scassinatori nella townhouse newyorkese dove madre e figlia si sono appena trasferite. Ancora segnata dal recente divorzio, Meg scopre nella figlia Sarah la voce di una coscienza che le suggerisce un taglio netto con la vita precedente, una soluzione definitiva nello stabilire il nuovo peso dei rapporti con l’ex marito fedifrago: «Fuck him. Fuck her, too». L’autosegregazione all’interno della panic room – la ‘stanza antipanico’ costruita dal precedente proprietario della townhouse come bunker di difesa – suggerisce didascalicamente la complicata transizione sociale; l’indipendenza – innanzitutto domestica – in fase di acquisizione è subito messa in crisi dall’introduzione violenta dei tre malviventi, che costringe le due donne ad auto-relegarsi in una strana declinazione della stanza ‘tutta per loro’, un luogo certo esclusivo ma altresì angusto, tecnologicamente complesso e inospitale. È però proprio all’interno di queste quattro anguste mura che si registra uno scivolamento dal genere del woman-in-peril movie a quello dell’action movie nel quale spicca la figura della final girl (cfr. Williams, 2002): la panic room si configura ben presto come la fucina di una rivolta che passa dalle intimidazioni suggerite da Sarah e urlate senza convinzione all’interfono da Meg («Get the fuck out of my house!») a un vero e proprio piano strategico, messo a punto tramite un sapiente utilizzo delle tecnologie della stanza [fig. 1] e il coinvolgimento fisico in azioni violente.

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«Vendetemi uno dei tre appartamenti, io non potrei mai disturbare: non ci sono quasi mai!» (Martellini, 2022). L’interesse di Monica Vitti per la Casa Papanice di Via Marchi al Nomentano sembra essere piuttosto emblematico del ‘domesticare’ dell’attrice. Progettato da Paolo Portoghesi, il villino rappresenta una riuscita sintesi di arte e natura: un capolavoro post-moderno e libertario che si presta decisamente ad accogliere le prassi abitative dell’attrice. Il «venire a patti» (Meloni, 2014) con lo spazio domestico della commediante sembra infatti essere tutt’altro che ordinario: i passi di Vitti segnano traiettorie insolite, in grado di abbattere potenzialmente le divisioni spaziali più tradizionali o di determinare una caduta della separazione tra sfera pubblica e privata. A partire dallo studio delle commedie interpretate dall’attrice, l’intervento si propone di indagare l’abitare cinematografico vittiano: un agire ‘micro-domestico’ che sembra porsi in connessione con il livello macro-societario’ nonché con l’impatto di questo «corpo imprevisto» (Cardone, 2017) sulle strutture identitarie.  

 

1. Nel cuore della società

È il 1982 e a raccontare a una giornalista del periodico La stampa della difficile intesa con il proprio appartamento romano è Monica Vitti. L’abitazione è «la sola e unica casa da ragazza», presa in affitto dopo aver lasciato la famiglia negli anni in cui Vitti diviene la musa dell’incomunicabilità del cinema antonioniano:

Vitti, in realtà, di case (sebbene cinematografiche) ne abiterà molte negli anni a venire. La collaborazione con il regista segna infatti, con L’avventura (M. Antonioni, 1960), l’esordio di una figura «spersonalizzata» (Gundle, 2007, pp. 301-302) e dall’immagine assai diversa rispetto a quella delle colleghe affermate nel Paese: «Ero tutta sbagliata per il cinema di quegli anni. Ero bionda, lentigginosa, alta, secca, il seno non ce l’avevo e avevo la vita larga, e questa voce qui. Era sbagliato il mio naso, la mia faccia non era italiana» (Mori, 1985, p. 165). Portando avanti un percorso cominciato a teatro (Senza rete, 1954; Sei storie da ridere, 1956; I capricci di Marianna, 1958) e in film comici diretti da registi come Edoardo Anton (Ridere! Ridere! Ridere!, 1954), Glauco Pellegrini (Una pelliccia di visone, 1956), Mario Amendola (Le dritte, 1958), Alessandro Blasetti (La lepre e la tartaruga, primo episodio dell’opera collettiva Le quattro verità, 1963) o Roger Vadim (Il castello in Svezia, 1963), Vitti imboccherà successivamente la strada che la condurrà alla commedia all’italiana. Il disco volante (T. Brass, 1964) la vedrà vestire i panni di una moglie fedifraga e inaugurerà una lunga serie di film di successo (come La ragazza con la pistola di Mario Monicelli, 1968) [fig. 1] nonché di sodalizi noti – in particolare con Alberto Sordi, attore con cui esploderanno «scintille, di comicità e sintonia, tanto da bucare lo schermo» (Borsatti, 2022, p. 109) –, che le faranno conquistare la fama di mattatrice del genere.

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Il caso di Anna Magnani offre una fenomenologia sempre feconda sulle possibiltà di osservare l’opera di un’attrice come la testimonianza creativa di un autore. La sua politica di attrice (Moullet, 1993; Brenez, 2013; Carnice Mur, 2015) afferma non soltanto un compendio di figure e personaggi che diventano essenziali per capire il paesaggio filmico del neorealismo italiano, ma anche un manifesto sulla creazione del personaggio in un momento in cui dalle cinematografie nate dal dopoguerra europeo spuntano i ritratti della femminiltà moderna (Sieghlor 2000; Jandelli 2007; Pravadelli 2015). Dal punto di vista figurativo, troviamo nei suoi film delle immagini ricorrenti che si ripetono intorno alla sua presenza. Intendiamo queste immagini come motivi visuali (Balló & Bergala, 2016) che accompagnano la costruzione dei personaggi dall’attrice di film in film, e che a volte diventano delle vere unità di significazione narrativa e simbolica composte intorno alle sue figure. Il motivo più costante che troviamo a questo riguardo è quello della donna sdraiata sul letto. Un’immagine composta intorno a dei momenti significativi delle sue eroine realiste, che esprimono l’angoscia, la calma, la tristezza o la gioia della solitudine nell’intimità della propria camera. Pur non essendo in apparenza il motivo più rilevante in un senso narrativo, è quello più frequente e probabilmente quello che rege un maggior simbolismo nella carriera di un’attrice che ha esplorato e rappresentato le idee degli affetti e del desiderio oltre la narrativa melodrammatica classica e dell’amore romantico.  Attraverso il motivo della donna sul letto, questo studio cercherà di delineare il significato e l’importanza che prendono i luoghi dell’intimità legati allo spazio domestico nella costruzione del divismo di un’attrice per cui la rappresentazione della femminilità è stata fondamentale nella sua politica di attrice. 

The case of Anna Magnani offers an always fertile phenomenology on the possibilities of observing the work of an actress as the creative testimony of an author. Her actress policy (Moullet, 1993; Brenez, 2013; Carnice Mur, 2015) affirms not only a compendium of figures and characters that become essential for understanding the filmic landscape of Italian neo-realism, but also a manifesto on the creation of the character at a time when portraits of modern femininity were emerging from post-war European cinema (Sieghlor 2000; Jandelli 2007; Pravadelli 2015). From a figurative point of view, we find recurring images around her films. We understand these images as visual motifs (Balló & Bergala, 2016) that accompany the construction of characters by the actress from film to film, and that sometimes become true units of narrative and symbolic signification composed around her figures. The most constant motif we find in this regard is that of the woman lying on the bed. An image composed around significant moments of his realist heroines, expressing the anguish, calm, sadness or joy of loneliness in the intimacy of their own room. Although it is apparently not the most relevant motif in a narrative sense, it is the most frequent and probably the one that holds the most symbolism in the career of an actress who explored and portrayed the ideas of affection and desire beyond classical melodramatic fiction and romantic love.  Through the motif of the woman on the bed, this study will attempt to delineate the meaning and importance of the places of intimacy linked to domestic space in the construction of the stardom of an actress for whom the representation of femininity was fundamental in her politics as an actress.

Il caso di Anna Magnani offre numerose possibilità di osservare nel percorso di un’attrice la testimonianza creativa di una autrice. La sua politica di attrice (Moullet, 1993; Brenez, 2013; Carnicé Mur, 2015) mostra non soltanto un compendio di figure essenziali del paesaggio filmico del neorealismo italiano, ma appare anche come un manifesto della creazione del personaggio in un momento in cui nelle cinematografie europee del dopoguerra affiorano i tratti della femminilità moderna (Sieghlor, 2000; Jandelli, 2007; Pravadelli, 2015). Dal punto di vista figurativo, troviamo nei suoi film una serie di immagini ricorrenti che muovono intorno alla sua presenza, generando una certa familiarità tra il mondo drammaturgico legato ai suoi gesti e la memoria degli spettatori. Ne sono esempi il motivo della pietà, quello della donna che corre, l’attrice nel suo camerino, o la donna sul letto. Vorrei leggere queste immagini attraverso il prisma della prospettiva teorica con la quale autori come Casetti e Di Chio (1994) o Balló e Bergala (2016) osservano i motivi visuali nell’analisi filmica, ovvero unità iconografiche che nutrono di senso l’universo filmico, diventando esse stesse unità autonome di significazione narrativa e simbolica. In questo caso, i motivi visuali appena elencati accompagnano la costruzione del personaggio di Anna Magnani di film in film, definendo una serie di tratti di familiarità e iconicità nel suo ventaglio di eroine quotidiane, così da offrire un ritratto profondo e non stereotipato dell’identità femminile del suo tempo.

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Nel numero 12 di Film d'oggi, pubblicato nel marzo 1946, una serie di scatti ritrae Isa Miranda davanti alle macerie della casa milanese di Porta Genova dove era cresciuta. Allo sguardo smarrito dell'attrice, che osserva quello che resta della dimora traballando sui tacchi in bilico sulle pietre, si accompagna un breve componimento in poesia, dedicato proprio a quelle mura arcigne che pure avevano accolto i suoi primi anni di vita. In effetti il legame con Milano rappresenta un tratto forte della personalità divistica dell’attrice, e lo spazio domestico ne accoglie spesso le raffigurazioni. Nelle scritture della diva (romanzi e raccolte di liriche) come nelle personagge che incarna sullo schermo, da La signora di tutti (M. Ophuls, 1934) all’episodio di Siamo donne (L. Zampa, 1953), la casa si delinea come luogo ambivalente, segnato dalle tracce orgogliose di un percorso tenace verso il successo e insieme da una ricorrente inclinazione melanconica dagli accenti lancinanti che appanna la figura di femme fatale sovente attribuita a Miranda.

 

 

1. Isa Miranda, milanese

La prima sequenza de La signora di tutti basta ad affermare per Isa Miranda la postura di femme fatale e al contempo ne segnala l’inevitabile piegatura tragica. Lo spazio che la inquadra è quello della camera di un hotel elegante: le corbeille di fiori, i ricchi arredi, i lampadari lucenti introducono chi guarda al personaggio di Gaby Doriot segnalandone da subito lo statuto di diva. Ma il corpo di lei, avvolto in una liseuse di seta, giace a terra, inerte: la donna ha tentato il suicidio. Le stanze sfarzose, i saloni signorili, i camerini accoglienti, le ville di lusso circondano poi la figura di Gaby lungo tutto il racconto accompagnandone le svolte drammatiche che conducono al suo destino fatale: seduttrice senza intenzione, la donna porta alla rovina gli uomini che hanno la ventura di innamorarsi di lei, per poi darsi la morte [fig. 1]. Dunque il film di Max Ophuls assegna Miranda al ruolo di donna del destino, sul quale l’attrice costruirà la sua fama e il viaggio a Hollywood, dove lo star system la accosterà a Greta Garbo e Marlene Dietrich (Muscio, 2009).

Ma l’immagine divistica di Miranda non è monolitica. I ruoli nei film italiani del decennio Trenta sembrano voler sfuggire al cliché della tragica seduttrice: meno fatali e più misurate sono, ad esempio, l’emigrante Maria Brunetti di Passaporto rosso (G. Brignone, 1935) o la sobria Velia di Scipione l’Africano (C. Gallone, 1937). Così, nei due testi autobiografici (Miranda, 1945 e 1946) come nella autofiction dal titolo La piccinina di Milano (1965), l’attrice tiene a distanza l’immagine della femme fatale per tracciare piuttosto il racconto degli anni difficili della gavetta, in quel tentativo tenace «di controllare il proprio personaggio pubblico», come scrive Elena Mosconi (2021), che percorre tutte le sue divagrafie. Il motivo ritornante è quello di Cenerentola: l’attrice disegna un ritratto di sé molto più terragno e ambienta in spazi modesti e miserabili un passato di ragazzina povera ma volitiva, impegnata in mille lavori, dalla aiutante di sartoria, la “piccinina”, a scatolaia, commessa, indossatrice, stenodattilografa, per sbarcare il lunario e potere, un domani, lasciare il «decrepito portone» da dove era «uscita un giorno per intraprendere il cammino della sua vita» (Miranda 1946).

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Partendo dall’assunto del botanico Humboldt che solo un legame intatto tra uomo e natura – legato da conoscenza ed esperienza, empatia ed emozione – può essere la base di una civiltà sostenibile (Wulf 2017), possiamo constatare come la drammaturgia contemporanea si sia mostrata particolarmente adatta ad accogliere e rileggere le tematiche legate all’Antropocene. Nel presente saggio verranno analizzati diversi approcci teatrali alla tematica, strutturalmente accomunati per i propri formati drammaturgici ibridi, che confermano l’hypermedium teatrale (Auslander 2008) come efficace strumento di divulgazione e sensibilizzazione della società. Strumento critico che attraverso una relazione incarnata e un’esperienza diretta (Sofia 2015) –  anche quando mediata – stimola lo spettatore a una riflessione, il teatro dell’Antropocene viene rappresentato paradossalmente dal non-umano in scena. È infatti attraverso un teatro post-umano (Corvin 2014) che si offre allo spettatore quella visione/soluzione non antropocentrica, salvifica e alternativa all’Antropocene. Nelle performance scelte il dibattito attuale sulle questioni antropoceniche, come le emissioni di CO2 e l’atmosfera, l’acidificazione degli oceani e la perdita di biodiversità (Granata 2016), così come le questioni di diritto e giustizia, i diritti degli animali e della natura sono teatralmente esposte, divengono ‘materia narrante’.

Following up on botanist Humboldt’s assumption that only an intact bond between man and nature – connected by knowledge and experience, empathy and emotion – can be the basis for a sustainable civilization (Wulf 2017), we can see how contemporary dramaturgy has proved itself to be particularly well suited to accepting and reinterpreting issues related to the Anthropocene. This essay will analyze different theatrical approaches, structurally associated by their hybrid dramaturgical formats, which confirm the theatrical hypermedium (Auslander 2008) as an effective means of dissemination and awareness of society. As a critical tool that through an embodied relationship and direct experience (Sofia 2015) – even when mediated – stimulates the spectator to reflect, the theatre of the Anthropocene is paradoxically represented by the non-human on stage. A non-anthropocentric and alternative vision/solution to the Anthropocene is offered to the spectator through a post-human theatre (Corvin 2014). The current debate on Anthropocene issues such as CO2 emissions and the atmosphere, ocean acidification and biodiversity loss (Granata 2016), as well as issues of law and justice, animal rights and nature are theatrically exposed through the chosen performances, as ‘narrative matter’.

 

 

1. Introduzione

Gli strumenti di costruzione di una coscienza globale sull’attuale condizione di sfruttamento del pianeta – e sulle relative conseguenze ambientali – sono sovente frutto di un’ampia campagna di informazione pubblica condotta attraverso i media e i nuovi canali dell’informazione digitale. Eppure, il teatro può essere considerato un efficace strumento, non solo divulgativo ma anche persuasivo, per ciò che concerne le urgenti tematiche ecologiche e ambientali contemporanee.

 

 

Come temi drammatici, il cambiamento climatico e la crisi ecologica sfuggono al modello di una rappresentazione drammaturgica statica. È pertanto più opportuno approcciarsi ad essi pensandoli come degli hyperobjects, un termine coniato da Timothy Morton[2] per descrivere fenomeni che presentano, rispetto agli esseri umani, una tale dimensione/entità temporale e spaziale da poter essere visti solo in piccole parti – in singoli momenti – e la cui comprensione resta pertanto intrinsecamente difficile. Possiamo sperimentare direttamente il tempo atmosferico, ad esempio, ma il clima come sistema espanso e disperso rimane inaccessibile ai singoli individui, per quanto i potenti mezzi tecnologici attuali possano modellarlo bene. L’esempio di iperoggetto di nostro interesse è senza dubbio il riscaldamento globale, che a sua volta costringe l’essere umano a prendere coscienza che la sua esistenza si svolge di fatto all’interno di una continua serie di iperoggetti, che non esiste ‘un fuori’.

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La cineasta pugliese Cecilia Mangini è stata una figura emblematica nel panorama italiano del cinema delle donne. Prima documentarista in Italia, la regista ha perseguito il suo impegno politico attraverso un percorso individuale e indipendente, occupando allo stesso tempo un ruolo centrale nel cinema militante italiano. Per un ritratto che ne offra una visione onnicomprensiva rimandiamo all’articolo di Angela Bianca Saponari apparso su questa rivista (Saponari 2020). In questo nostro breve saggio, invece, intendiamo descrivere due film di Mangini nel panorama di una riflessione e di una ricerca analitica e creativa che ne fa l’interprete di un’idea di film documentario nata nel rigore formale dell’estetica cinematografica.

L’esperienza di Mangini è esemplare negli orizzonti del rapporto fra ricerca formale e studi sul film, in particolare considerando gli esordi, in cui la militanza critica sposa la riflessione teorica. Negli anni Cinquanta inizia la sua attività di fotografa, rinunciando alla fotografia di posa in favore di quella di strada, più vicina alla sua vocazione. Comincia dunque pubblicando i suoi scatti su riviste come «Il Punto», «Cinema Nuovo» e «L’Eco del cinema». La collaborazione con i periodici non si limita alle fotografie, ma investe anche la critica: se nel 1955 aveva già scritto un illuminante articolo intitolato Neorealismo e marxismo, già esplicito nella matrice ideologica della regista; nel 1957, con False interpretazioni del realismo, risponde a una polemica iniziata da Renzo Renzi su «Cinema Nuovo», confronto arricchito dall’alternarsi delle firme di Luigi Chiarini, Callisto Cosulich, Paolo Gobetti, Massimo Mida, Riccardo Redi e Giovanni Vento. Il tema è il complesso rapporto fra cinema italiano e cinema sovietico, questione su cui Mangini riflette rispondendo che «Il rapporto tra autonomia e disciplina sarà cioè impostato in senso tanto più dialettico – e quindi meno tattico – quanto più liberamente e a proprio agio gli intellettuali sapranno muoversi sul terreno dell’ideologia» (Mangini 1957, p. 9). La lezione estetica e ideologica dei sovietici investe diversi piani della sua sensibilità artistica: il taglio dialettico della riflessione teorica e la sua stessa estetica filmica rimandano a una concezione moderna dell’apparato cinematografico, «basata sulla convinzione di un rapporto fertile tra immagini e “reale”» (Missero 2016, p. 55). Nel raccontare la vita quotidiana del proletariato urbano ed emarginato, il suo cinema s’inscrive nella tradizione del dispositivo come strumento di protesta, denunciando gli aspetti controversi della modernizzazione industriale postbellica. Il pensiero gramsciano, di grande ispirazione per la sua esperienza di regia, è alla base di un duplice scopo, politico e formale: entrambi convergono nella composizione delle strutture che descrivono l’oppressione egemonica e nella configurazione degli individui appartenenti alle classi sociali subalterne come agenti del cambiamento sociale.

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Io so che in ogni grande scrittrice […] c’è una grande attrice e viceversa […]. Feci questa scoperta con Elsa Morante, un giorno di sua ira furiosa […] mi trovai sotto i suoi insulti a stupirmi affascinata dei tempi d’attrice che possedeva. Lei mi insultava e io pensavo: […] [potrebbe] essere una tragica perfetta; in certi suoi sguardi e gesti, infatti, mi ricordò la Magnani. […] Anche della silenziosa Natalia Ginzburg si potrebbe fare un’attrice comica.

Goliarda Sapienza, La mia parte di gioia

 

1. Orientarsi con le stelle

Dietro, o meglio dentro, ogni grande scrittrice si indovina la figura, e soprattutto la voce, di una attrice (Sapienza 2013, pp. 129-130). È una intuizione lucidissima di Goliarda Sapienza, che ha vissuto in bilico fra i suoi talenti, a indicarci la rotta da seguire, segnando poeticamente la nostra mappa.

E dunque, a partire dalla immagine fantasticata di una Elsa Morante impareggiabilmente tragica e di una Natalia Ginzburg silenziosamente comica (ibidem), cominciamo a interrogarci sul nodo, strettissimo, che lega scrittura e recitazione, guardando alla folta schiera delle attrici che scrivono. Questa prima ricognizione appare promettente e foriera di rilanci e ricerche future, giacché le nostre attrici-autrici, convocate dalle studiose in una sorta di animata e risonante fotografia di gruppo, testimoniano la ricchezza, la molteplicità e lo spessore di una produzione testuale che sembra non fermarsi e porsi in continuità, o meglio in serrato confronto, con le parole, i gesti performativi, e con il loro muoversi sul set o sul palcoscenico. Che si tratti di romanzi (e pensiamo ancora, per prima, a Sapienza e alla sua Arte della gioia), o di poesie, come nel caso di Elsa de’ Giorgi, Mariangela Gualtieri e Isa Miranda; di arguti scritti giornalistici e di interventi di costume più immediatamente prossimi alla costruzione della immagine divistica, come testimoniano la rubrica di piccola posta curata da Giulietta Masina e le saporose ricette elaborate da Sophia Loren per le sue ammiratrici; o dell’ampio panorama delle autobiografie, da Doris Duranti a Asia Argento; ciò che emerge e risuona è la mutevole presenza di voci che cercano, aprono e in ogni caso mettono in scena la partitura di un dialogo. Con se stesse, con le lettrici-spettatrici, con il riflesso della loro facies pubblica, con le attrici e le donne che sono, che sono state o che desiderano diventare. È forse proprio questo carattere intimamente relazionale – in molti e differenti sensi – il filo rosso che tiene insieme esperienze e parole fra loro molto distanti, sia per la cronologia, sia per la varietà dei generi letterari attraversati.

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All’interno delle categorie paradigmatiche rilevate da Rizzarelli nella sua «cartografia dell’attrice che scrive» (Rizzarelli 2017), Una vita all’improvvisa (2009) [fig. 1] di Franca Rame si colloca nel genere della narrazione autobiografica, scritta quasi a fine carriera (Rame avrebbe compiuto 80 anni pochi mesi dopo l’uscita del volume) e votata «a consacrare l’immagine divistica già affermata e consolidata da tempo» (ibidem). Ne viene fuori un testo in cui interviene anche Fo e in cui emerge una tensione dialogica dettata dal desiderio di cercare il contatto con un ipotetico destinatario, un «lettore privilegiato» (Battistini 2007), che ora è il marito ora è il pubblico che tanto l’ha amata e seguita durante la sua lunga carriera. Un racconto artistico e biografico in forma di affabulazione teatrale con tanto di didascalie per regolare i meccanismi scenografici e registici di un’ipotetica messa in scena (i disegni di Fo accompagnano per immagini questa storia, quasi uno per pagina), che oscilla sul terreno mutevole, «vivente e interpretante della memoria» (Battistini 2007) in cui Rame ripercorre, a balzi ed episodi, la sua vita vissuta «in modo esagerato», a cominciare dagli anni dell’infanzia fino alle prime esperienze d’attrice, apprendendo così «l’arte antica di andar all’improvvisa», ovvero di recitare a soggetto senza seguire integralmente un copione (ecco il titolo del volume), nonché il suo cammino a fianco del marito.

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